24 maggio 2012

La vita come manutenzione continua e il perdurare della metafisica




Manutenzione: il dizionario Garzanti recita "insieme di operazioni volte a mantenere in efficienza e in buono stato un impianto, un apparecchio, una strada, un edificio ecc."

Spesso ho vissuto con senso di grande fatica il fatto che gli oggetti un po' complicati ma di uso frequente, per esempio la lavapiatti o l'automobile, richiedano attenzioni periodiche che ne garantiscano il buon funzionamento. Già il ricordarsi di fare queste operazioni (pulire il filtro, sostituire l'olio...) mi appariva problematico.
Poi, sempre più, mi sono reso conto che non solo gli oggetti complicati ma anche la casa stessa intesa come insieme di oggetti che vanno mantenuti in ordine e puliti richiede attenzioni periodiche e soprattutto quotidiane, e in fondo la stessa cosa vale per il proprio corpo (inteso come macchina che va tenuta in efficienza e richiede attenzioni sia quotidiane sia periodiche). Ma in fondo gli stessi rapporti con le altre persone: anche quelli vanno curati quotidianamente / periodicamente, se si vuole mantenerli in buone condizioni...

Insomma, una manutenzione continua, un'attenzione costante a fare tutto ciò, ma anche a ricordare le scadenze periodiche... Tutto questo va accettato come parte essenziale dell'esistenza.

Gianni Vattimo, nella Presentazione al libro Farsi carico. A proposito di responsabilità e di identità personale, di Manuel Cruz (Meltemi 2005), scriveva: 
(...) siccome la metafisica (teoria dell'essere in quanto essere, dei fondamenti stabili e universali di ogni entità) è finita, ciò che la filosofia può e deve fare è cercare di capire il senso dell'essere nella sua configurazione odierna, giacché dell'essere non c'è una struttura stabile (sarebbe così ridotto a un oggetto, mentre è la condizione del darsi di ogni possibile oggettività) ma c'è storia, la storia delle configurazioni, o "aperture", come dice Heidegger, nelle quali via via si dà.
Vattimo qui sosteneva il proprio modo di intendere la filosofia come "ontologia dell'attualità", espressione che riprende una distinzione di Foucault fra due modi possibili di fare filosofia: analitica della verità e, appunto, ontologia dell'attualità.
In queste parole di Vattimo, che condensano anni di scritti e riflessioni e sintetizzano la sua prospettiva di filosofia "ermeneutica", traspare il discorso di Heidegger sull'errore tradizionale della metafisica, che ha sempre pensato l'essere come se fosse ente, riducendolo in sostanza a oggetto, con caratteristiche di stabilità, eternità, immobilità...

Io vorrei contestare la prospettiva di Vattimo sulla fine della metafisica (mentre mi piace conservare però anche la sua idea di fare ontologia dell'attualità, cioè di occuparsi di cosa vuol dire essere ed esistere nella contemporaneità), semplicemente dicendo che non è che la metafisica finisce perché si scopre che l'essere non è oggetto ma evento: la metafisica continua pensando in modo diverso l'essere, per esempio cambiando la nozione stessa di oggetto come qualcosa che non è affatto stabile, eterno, immobile, ma come qualcosa che è in continua tendenza al disordine e al deperimento a meno che non venga "curato" continuamente con investimenti di energia (vedi il discorso iniziale sulla manutenzione, ma pensa anche a come la fisica odierna intende la materia...).

La metafisica può continuare ad essere ricerca teorica anche se scopre che il suo oggetto non si adatta all'idea di episteme come teoria stabile, eterna, universale: di qualcosa di mutevole, diceva Platone, non può esserci che opinione, mentre solo delle idee (eterne, stabili ecc.) può esserci scienza. Errore: può esserci teoria (consapevole della propria limitatezza e aperta a possibili revisioni) anche di un oggetto mutevole: anche per dire che l'oggetto è mutevole e richiede cure continue ci vuole teoria, consapevolezza teorica. La stessa affermazione "dell'essere non c'è una struttura stabile ma c'è storia" è un'affermazione metafisica. Perché dire che la metafisica è finita? Diciamo piuttosto che è finito un certo modo di fare metafisica e se ne sta affermando un altro, di tipo analitico e che tiene d'occhio ciò che avviene nei saperi scientifici.

25 aprile 2012

Una nuova teoria sul piacere








In un precedente post ho posto una questione sul concetto di piacere, lamentando i limiti della linea teorica Schopenhauer-Freud. Chiudevo chiedendo se qualcuno avesse notizia di una teoria alternativa sul piacere.

Ebbene, non molto tempo dopo, in uno dei miei consueti giri alla libreria Feltrinelli, mi imbatto in un libro di recentissima pubblicazione: Il piacere. Indagine filosofica, di Ermanno Bencivenga, edito da Laterza. Quando si dice "il libro giusto al momento giusto"...

Rimando ad un futuro post una recensione critica del testo, ma intanto posso dire che nei primi quattro capitoli Bencivenga espone la pars destruens, mentre la pars construens inizia nel quinto capitolo. Bencivenga critica la teoria dominante sul piacere (proprio quella linea teorica da me sopra richiamata) e propone una teoria nuova ma basata su classici, innanzitutto Aristotele. Contro la teoria del piacere come riduzione-annullamento di una tensione/bisogno/desiderio (che riconduce ad un nesso piacere-morte), propone il nesso piacere-attività o piacere-vita. Nell'Etica nicomachea Aristotele, contrariamente a quanto potrebbe apparire restando fermi al primo libro (che critica la vita dedita al piacere), imposta per primo il nesso piacere-attività. La virtù, l'agire razionale, è raggiunta quando tale agire razionale si accompagna al piacere...

17 aprile 2012

Freud/Jung: una tensione molto attuale






Ho visto di recente il film A Dangerous Method di David Cronenberg (2011).
Mi ha fatto molto pensare, mettendo in secondo piano la figura di Sabina Spielrein, il rapporto teso e la rottura tra Freud e Jung, perché mi sembra paradigmatica di una tensione culturale ancora presente.
Freud rappresenta e difende il pensiero scientifico (pur nella sua aspirazione alla creazione di una teoria, come la psicoanalisi, sul cui statuto epistemologico si discute ancora oggi), Jung vuole invece restituire all'uomo la dimensione mitico-magico-religiosa. Emergono molto bene nel film i limiti di entrambe le posizioni, anche se è indubbio che il regista parteggi per Jung.
A me interessa la dialettica fra un atteggiamento (Freud) che intende restare fermamente ancorato a fenomeni (per usare la terminologia kantiana) e quindi nega la dimensione metafisica, ma rischia di perdere anche la possibilità di reperire/costruire un senso più ampio e forte in cui inserire i fenomeni e la propria stessa esistenza, e un atteggiamento (Jung)che intende sistematicamente oltrepassare i fenomeni proprio per reperire/costruire questo senso ma rischia di perdere il senso dei fenomeni stessi e dei limiti-regole della convivenza sociale.

21 marzo 2012

La cosa in sé: mondi inaccessibili o parziale conoscibilità di questo mondo? L'errore di Kant





Sull'interpretazione della filosofia kantiana ancora si discute.
Recentemente Franca D'Agostini ha avanzato (in Introduzione alla verità) la proposta di interpretare Kant come un semi-costruzionista: i fenomeni sono parzialmente costruiti da noi, attraverso il concorso delle forme a priori della sensibilità e dei concetti puri, applicati al materiale sensibile che proviene dal mondo.
Uno dei punti più controversi riguarda la nozione di cosa in sé: Kant la pensava come qualcosa di costitutivamente inconoscibile, inaccessibile a sensibilità, intelletto e ragione, pensando sostanzialmente a Dio e a una dimensione ultra-mondana (nella quale può realizzarsi l'immortalità dell'anima) oppure pensava a una controparte dei fenomeni che non ci è dato di conoscere?

Interpretazioni accreditate negano questa seconda possibilità, sostenendo che non dobbiamo pensare che Kant volesse sostenere che dietro a ogni fenomeno si nasconda una cosa in sé.
D'altra parte però, se riconsideriamo il tema dello spazio e del tempo come forme a priori della sensibilità, resta il fatto che Kant sostiene in pratica che la dimensione spazio-temporale non deriva dalla cosa in sé, ma è il nostro (soggettivo-universale) modo di organizzare la molteplicità delle intuizioni sensibili. Se è vero questo il mondo allora è ben diverso da come ci appare!
Si dice: è sbagliato pensare che i fenomeni per Kant siano apparenze, essi sono oggetti conoscibili scientificamente. Ma allora deve esserci un spazio e deve esserci un tempo che corrispondono alle nostre forme a priori!!
Perché Kant, che pure aveva la massima stima di Newton e della sua fisica, non abbraccia la concezione newtoniana di spazio e tempo? Gli sembrava una concezione metafisica? Credo che Kant sia arrivato alla sua concezione dello spazio e del tempo partendo dall'interpretazione della matematica come insieme di proposizioni sintetiche a priori. Forse proprio qui si nasconde l'errore di Kant. Forse anche per la matematica, come per la fisica, Kant avrebbe dovuto riconoscere che gli oggetti matematici sono solo parzialmente costruiti da noi, e che quindi non è vero che spazio e tempo siano forme completamente a priori, bensì noi costruiamo queste forme anche grazie a intuizioni empiriche che provengono dal mondo in sé.

19 marzo 2012

Che cos'è il piacere? Limiti della concezione Schopenhauer-Freud






Freud riprende l'idea di Schopenhauer secondo cui il piacere presuppone la sofferenza.
Secondo Freud il piacere scaturisce quando avviene un allentamento della tensione psichica, tensione a sua volta corrispondente a una pulsione che preme per essere soddisfatta.

Ora, se il discorso fila abbastanza bene per quanto riguarda le pulsioni di auto-conservazione, non torna invece per quanto riguarda la pulsione sessuale.
Spiego: la fame, la sete, il sonno, sono condizioni di per sé negative: vengono vissute come stati di tensione spiacevole, e piacevole è il soddisfare tali tensioni mangiando, bevendo, dormendo.
Il desiderio sessuale, invece, corrisponde a una tensione che non è di per sé spiacevole: essere eccitati sessualmente è forse spiacevole? Certamente il piacere che si prova con l'orgasmo è molto superiore a quello che si prova nell'eccitazione, ma questo non toglie che si possa aver voglia di indugiare nelle fasi preliminari all'orgasmo, proprio per prolungare questo piacere.

Si potrebbe quasi pensare che i meccanismi regolatori della vita abbiano privilegiato la spinta alla conservazione della specie più che la spinta alla conservazione dell'individuo. Il piacere provocato nel soddisfacimento della pulsione sessuale (orgasmo) mi pare (mi sbaglio? altri hanno valutazioni diverse?) superiore, quanto a intensità, rispetto a quello provocato dal soddisfacimento delle pulsioni di autoconservazione.
Ma che significato ha, da questo punto di vista "strategico-biologico", il piacere associato all'eccitazione sessuale?

Resta, per tornare al punto iniziale, una carenza teorica sul tema del piacere, almeno per le mie - certamente limitate - conoscenze. Qualcuno dei lettori del blog mi sa indicare altre teorie sul piacere, oltre alla linea Schopenhauer-Freud?


17 febbraio 2012

Il destino delle Weltanschauung. Orientamento religioso e orientamento sessuale: analogie e differenze. Capire Hegel: bibliografia



Il post precedente, linkato sulla pagina facebook di Francesco Berto (il filosofo nella foto qui sopra), ha aperto una discussione a mio avviso molto interessante, della quale vorrei qui riferire i punti salienti.

Un primo punto riguarda la reale situazione a proposito della "colonizzazione del territorio filosofico" fra analitici e hegeliani. Mauro Bompadre e Francesco Berto hanno sostenuto, ma credo sia quasi un dato di fatto, che la situazione è nettamente sbilanciata a favore degli analitici, che costituiscono una sorta di canone implicito, se non per la scelta dei temi almeno per l'adozione della modalità di approccio, per lo stile. Insomma la filosofia (occidentale) è, o sia avvia a diventare fra non molto, analitica.
Resta però un problema, segnalato da Berto: "c'è un bel po' di divario da recuperare. Occhio alle citazioni sulla Stanford Encyclopedia of Philosophy: Kripke batte Hegel 189 a 184. Aristotele è citato 689 volte, Kant 500, Heidegger 118. La colpa è precisamente dei vecchi hegeliani e heideggeriani, che anziché sgobbare un po' per farci capire, intanto, cosa volevano dire questi oscuri signori, hanno passato gli anni a parlare in hegelese o heideggerese stretto."

Un secondo punto riguarda quali siano gli studi più efficaci, scritti con metodo analitico o comunque con chiarezza e profondità, per capire Hegel. 
Segnalato da più voci come validissimo il testo di Berto Che cos'è la dialettica hegeliana? Un'interpretazione analitica del metodo, Poligrafo 2005.
Altro testo importante: Angelica Nuzzo, Logica e sistema. Sull'idea hegeliana di filosofia, Pantograf, Genova 1992.
Altri riferimenti segnalati da Alice Giuliani, Mauro Bompadre e Diego Bubbio: Sistema ed Epoca di Remo Bodei, Hegel e la matematica dell'infinito di Antonio Moretto, i seminari del prof. Garelli, al dipartimento di filosofia dell'Università di Firenze (di Garelli, di prossima uscita, un testo il cui titolo promette molto: Hegel e le incertezze del senso, ETS, Pisa 2012), "le vecchie lezioni di Severino alla Cattolica, pubblicate però solo recentemente", i lavori di Paolo Zellini, Illetterati, Pippin, Pinkard, Redding, Testa, Perelda, Ferrarin, Pasini.

Un terzo punto riguarda l'atteggiamento della filosofia contemporanea nei confronti del problema del senso (o eventualmente non-senso) complessivo del mondo. Berto dice: "Non c'è uno serio [tra i filosofi] che ti dia la Weltanschauung". Questo mi pare un punto cruciale per capire la situazione della filosofia oggi. Un dominio quasi completo dell'atteggiamento analitico, con il grande vantaggio della chiarezza, della comunicabilità e condivisibilità dei risultati, di un lavoro quasi "di squadra" come nelle scienze, ma al prezzo di una rinuncia al prendere posizione in prima persona sulle grandi questioni metafisiche, ad esempio sull'esistenza di Dio.
Si è ragionato sul fatto che oggi chiedere a qualcuno (filosofo, ma la constatazione si può estendere un po' a tutti) se è credente o no è un po' come invadere la sfera privata, e allora a me è venuto in mente un paragone fra l'orientamento religioso e l'orientamento sessuale:
Possiamo dire che siamo arrivati al punto che l'orientamento religioso somiglia all'orientamento sessuale? Per cui normalmente non se ne parla, non si chiede, e poi invece alcuni fanno coming out... (non so, ad esempio Giorello che scrive "Senza Dio", o Vattimo che scrive "Credere di credere") Solo che c'è una differenza: nell'ambito dell'orientamento sessuale c'è una chiara e diffusa "presunzione di eterosessualità" e l'eventuale coming out è per dichiararsi gay o lesbica; nell'ambito dell'orientamento religioso non mi pare si possa oggi dire che c'è una "presunzione di religiosità", né una "presunzione di ateismo". Mi sbaglio? Quindi la situazione sull'orientamento religioso è ancora più sospesa: non possiamo presumere niente di probabile su quello che gli altri credono o non credono, ma non possiamo neanche chiedere... Un bel garbuglio!

16 febbraio 2012

I tormenti della filosofia. La frattura Preve-Fusaro versus tutti (o quasi) gli altri. Il mistero di Hegel



Di recente mi sto avvicinando alla conoscenza di Costanzo Preve attraverso le video-interviste reperibili nel web grazie soprattutto a Diego Fusaro. Di Fusaro sto leggendo adesso con piacere e profitto Bentornato Marx! 
Nelle interviste che Fusaro fa a Preve emerge una sostanziale loro concordanza di vedute. Si intuisce che Fusaro vuole raccogliere l'eredità filosofica di Preve e Preve vuole consegnarla a Fusaro. Nei due video su Hegel e il capitalismo (1/2 e 2/2) Preve propone come unica strada per la sopravvivenza della filosofia (come critica dell'esistente) la linea Spinoza-Vico-Fichte-Hegel-Marx quali autori da riprendere e tenere come punti di riferimento e svaluta tutte le correnti filosofiche contemporanee che non fanno questo, in primo luogo la filosofia analitica, ma anche il neo-kantismo e Deleuze. Sembra tenere in una certa considerazione Husserl (e i fenomenologi contemporanei?).
Mi sembra di scorgere in questo atteggiamento uno dei due lati della classica diatriba analitici/continentali, sulla quale rimando ai lavori della mia amata Franca D'Agostini, ma vorrei toccare qui un punto che riguarda Hegel.

E' proprio vero che gli analitici rimuovono la dialettica hegeliana? Penso ai lavori della stessa D'Agostini (il capitolo sulla dialettica hegeliana in Logica del nichilismo, per es.) o di autori come Francesco Berto o Graham Priest e non ne sono del tutto convinto, ma ammettiamolo. E' vero anche, allora, che i neo-hegeliani Preve e Fusaro rimuovono il lavoro che in metafisica sta svolgendo la filosofia analitica (e qui penso soprattutto a Nozick e a Varzi). Cerco di spiegarmi meglio.

La totalità di Hegel è proprio tutto? Il mondo non-sociale, la natura, è veramente vista, compresa da Hegel? La logica di Hegel di cosa parla? Forse di una dimensione extra-temporale, sovrastorica? Il mondo delle idee di Platone? "Essere", "nulla" "divenire" e così via fino ad arrivare all'Idea sono innanzitutto concetti, esistono in una dimensione sovraindividuale perché sono condivisi certamente dalle menti di più individui, ma non riesco a pensarli se non come prodotto della cultura umana, "spirito oggettivato". Insomma, quello che Hegel propone come prima parte del sistema rientra in realtà, per come riesco a comprenderlo io, in quello che per Hegel è la terza parte del sistema, e non riesco a capire cosa voglia dire veramente che la natura è l'Idea che "esce fuori da sé", o che si "estrinseca".
Mi sembra attualissimo e fondamentale lo sforzo che Hegel fa di comprendere il senso complessivo della totalità relativamente al mondo sociale, spirituale, culturale, storico. 
D'altra parte mi sembra che i filosofi analitici lavorino su temi metafisici con una prospettiva quantitativamente maggiore, perché cercano di tenere conto anche della realtà naturale, la "vera natura", quella che non pensa, gli immensi aggregati cosmici di materia-energia, tempo-spazio e quant'altro che ci avvolgono e di cui siamo una piccola parte (quindi tengono conto anche dei risultati delle scienze, almeno nella misura in cui contribuiscono a dirci cosa esiste !). E quali sono i temi metafisici affrontati dagli analitici? Basta sfogliare l'antologia di saggi curata da Achille Varzi Metafisica. Classici contemporanei, Laterza 2008 per averne un'idea. Le sei parti in cui è scandito il volume sono: esistenza, identità, persistenza, modalità, proprietà, causalità.

Certamente il problema è che un'ontologia che voglia tener conto veramente di tutto deve occuparsi non solo di analisi concettuale ma anche di matematica contemporanea e di fisica contemporanea, e quindi perde di vista (come infatti succede agli analitici) il compito di costruire un'interpretazione sul senso complessivo dell'agire umano, nelle sue manifestazioni storico-politiche e culturali, sociali ed economiche.

Il punto mi sembra quindi riassumibile nelle differenti concezioni di totalità che si fronteggiano: quella di Hegel e quella (implicita) degli analitici. Quella di Hegel è riconducibile all'umanità e alle produzioni umane, quella degli analitici spazia dagli enti matematici al cosmo, ma proprio per questa sua ampiezza ha le armi spuntate di fronte al compito di un'interpretazione complessiva del senso del mondo sociale.

Resta il problema, per la filosofia, del reciproco rifiuto a riconoscere l'importanza del lavoro dell'altra parte. I neohegeliani Preve-Fusaro hanno ragione a puntare l'attenzione della filosofia sulla critica al mondo sociale esistente per l'urgenza e la gravità dei problemi che esso presenta, ma d'altra parte gli analitici si sobbarcano l'arduo compito di tenere viva (non costruendo sistemi, ma lavorando in collaborazione verso obiettivi comuni, un po' come fanno gli scienziati...) l'aspirazione originaria della filosofia ad una conoscenza del tutto che sia veramente tale: l'umanità non può pensare di coincidere con la totalità dell'esistente; lo stesso Spinoza ha criticato aspramente l'antropocentrismo con annesso finalismo.
Un problema classico sul quale le due prospettive potrebbero incontrarsi è quello del libero arbitrio, per l'intreccio della dimensione umana con quella cosmologica e logica che esso presenta. Vedremo. Certamente questi tormenti e queste fratture non fanno bene alla causa complessiva della filosofia, che risulta un campo tuttora privo di un canone condiviso.

12 gennaio 2012

La filosofia in Jovanotti. Riflessioni filosofiche sull'album ORA. Terza puntata





Voglio provare adesso a dire qualcosa sulla canzone L'elemento umano, una delle più scopertamente filosofiche.

Il "ritornello" si compone di queste due frasi:

Noi siamo l'elemento umano nella macchina

e siamo liberi sotto alle nuvole.




Questo ritornello compare tre volte. La prima e la terza, dopo alcune ripetizioni delle stesse due frasi, il ritornello si conclude con questa variante:
e ci facciamo del male per abitudine.

Sicuramente il tema è la libertà umana, una libertà che non viene affermata come totale, assoluta, ma condizionata: circondata, direi, da un contesto deterministico, meccanicistico, o comunque da un intreccio di conseguenze dell'agire umano che sfuggono agli agenti stessi. Ascoltando le "strofe", le parti in cui il testo procede senza ripetizioni, si ha la sensazione che Jovanotti osservi l'agire umano con una certo distacco, da una certa distanza, e registri l'andare in avanti e all'indietro, il continuo arrabattarsi inseguendo sogni, progetti, propositi, intenzioni e il continuo constatare che tutti i nostri sforzi non costruiscono mai niente di veramente duraturo. Cito qualche frammento:


si parla coi cani, si stringono mani

si fa spesso finta di essere qualcosa

si guarda il tramonto, si arriva in ritardo

ci piovono addosso macerie di vita esplose

si fanno dei figli,

si sognano sogni

si fanno castelli di sabbia sul bagnasciuga

si infilano perle di vetro nelle collane e si progetta una fuga




si accusano gli altri, si saltano i pasti

si scende sotto a portare la spazzatura

si spianano rughe, si spigano spighe

si fa i conti con i mille volti della paura

si nasce in un posto, si prende una barca per arrivare dove poter nascere ancora

si mettono fiori tra pagine di diario per ricordarci un momento di vita vera



Si fanno dei piani, si stringono mani

si firmano accordi che prevedono una penale

si sputa per terra, si perde la guerra

Si pensa che alla fine poi tanto e' sempre uguale

si muove la torre, si copre l'alfiere,

Si passa una giornata a difendere cio' che e' perso




si scopre di avere un immenso potere ma non e' mai abbastanza




Quest'ultima frase mi sembra riassumere il senso generale della canzone, e questo senso lo espliciterei dicendo che le azioni umane si sollevano, emergono al di sopra del livello della grande macchina degli eventi imperscrutabili, e poi però ritornano dentro la grande macchina; navigano al di sopra e dentro di essa, possono costruire cose, adottare strategie, ma il potere delle azioni umane non è mai abbastanza per riuscire a modificare la macchina stessa nel suo insieme. Siamo una parte libera di una totalità non libera; possiamo gestire, faticosamente, la nostra vita, ma dobbiamo fare quotidianamente i conti col fatto che la nostra vita è intrecciata e collegata con meccanismi e ingranaggi molto più grandi della nostra capacità gestionale.

Detto questo resta da capire la frase di chiusura dei ritornelli: "e ci facciamo del male per abitudine".
Innanzitutto bisogna decidere in che senso intendere "ci facciamo del male": male a noi stessi, male agli altri, male alla specie umana? Decidiamo per tutti e tre i sensi insieme, anche perché in fondo sono tutte cose collegate. E cosa vuol dire fare del male per abitudine?
L'abitudine è il contrario della scelta, quindi con questa frase Jovanotti sembra alludere alle tesi della Arendt sulla banalità del male, e quindi anche, in fondo, alla tesi socratica dell'assenza di pensiero e di ragione come radice del male. Il male quindi non sarebbe frutto dell'esercizio della libertà, ma sarebbe proprio il risultato del non riuscire a esercitarla, il risultato del restare presi nell'ingranaggio della grande macchina, che risponde a logiche non umane...

8 gennaio 2012

La filosofia in Jovanotti. Riflessioni filosofiche sull'album ORA. Seconda puntata

Non affronterò qui le "canzoni d'amore" dell'album, che sono tante e molto belle. Salterò quindi Tutto l'amore che ho, Le tasche piene di sassi, Amami, Il più grande spettacolo dopo il big bang... Devo dire però che se si vuole avere una visione completa del "mondo" di Jovanotti bisogna ascoltarle e apprezzarle, e rendersi conto che molto del suo modo di pensare e affrontare la vita è sostenuto, evidentemente, dalle sue esperienze amorose, dalla sua grande capacità di amare e di ricevere amore. La spina dorsale del famoso ottimismo di Jovanotti è certamente l'esperienza amorosa, che lui è in grado di esprimere in modo eccellente e che ha naturalmente una dimensione universale: la quantità di spazio che dedica a questo argomento, nell'economia dell'album, sta a significare la grande importanza che questa componente ha per lui ma anche l'importanza che deve avere per ciascuno, se vogliamo imparare qualcosa dalle sue canzoni. Impegnarsi in un rapporto amoroso, viverlo fino in fondo, è tra le cose fondamentali, a cui nessuno deve rinunciare. Amare e lavorare furono indicati un giorno da Freud come i due aspetti fondamentali della vita umana.
Pur non affrontando la tematica dell'amore, voglio ricordare qui due frammenti che danno un po' la misura della profondità di Jovanotti su tale argomento.

tu fai ciò che voglio
mentre faccio ciò che vuoi
( in Amami)

che abbiamo fatto a pugni,
io e te, io e te...
fino a volersi bene,
io e te, io e te...
( in Il più grande spettacolo dopo il big bang)

La capacità di sostenere l'altro nei suoi desideri, la necessità di affrontare la negatività, l'aggressività, per riuscire ad arrivare ad un rapporto vero, profondo, sono elementi essenziali dell'amore che Jovanotti mostra di conoscere molto bene.

4 gennaio 2012

iPad: le mie (iniziali) esperienze

Ho deciso di comprare un iPad2 da circa un mese e mezzo.
Perché l'ho fatto?
Vero motivo: sono rimasto affascinato dalla pubblicità vista in tv, e ancora più affascinato quando l'ho provato alla Fnac.
Devo confessare che da quando lo possiedo è iniziata una sorta di innamoramento per questo oggetto, che ha per me qualcosa di magico.
Cerco adesso di razionalizzare, di capire in cosa consiste questo fascino.
Ha quasi le stesse potenzialità di un pc portatile ma molta meno memoria, e, altra cosa in meno, non si possono scaricare programmi da internet. In compenso però si possono scaricare innumerevoli "app", cioè applicazioncine che servono a fare un po' di tutto, "mimando" quello che può fare un pc, ma anche altre cose, concepite appositamente per l'iPad.
Il fascino e la specificità dell'iPad, a mio avviso, risiedono nella sua grande maneggevolezza, trasportabilità e autonomia (batteria che dura come quella di un cellulare, quindi rende l'oggetto veramente autonomo dall'alimentazione a corrente: lo puoi usare un po' dovunque, per esempio io lo sto usando molto a letto, la sera prima di addormentarsi o sul divano, in poltrona...) e nelle potenzialità dello schermo " toccabile": la tastiera non esiste, o meglio compare una tastiera virtuale quando occorre, e scompare quando non serve, e il contatto diretto con lo schermo, per scrivere, disegnare o per giocare, è molto più bello che non l'uso del mouse.
Sì, ma cosa ci fai?
Posso dire quello che ci sto facendo io da quando ce l'ho.
Innanzitutto navigare in rete in totale libertà (unico vero problema: il costo della connessione 3G, certamente troppo elevato e troppo vincolato, o dalla durata o dalla quantità di byte scaricati - parlo per esperienza con Tim, ma credo che la situazione sia analoga con altri gestori...).
Leggere il quotidiano, abbonandosi alla versione digitale. Adesso poi la Repubblica fa un'edizione serale concepita apposta per essere fruita sull'iPad.
Prendere appunti di qualsiasi tipo, scrivendo su tastiera, scrivendo a mano (ma bisogna comprarsi una penna speciale: una biro con il cappuccio non agisce sullo schermo), disegnando (vedi la app NOTE e PENULTIMATE).
Avere un'agenda elettronica sempre pronta e precisissima
Avere una rubrica di CONTATTI espandibile all'infinito, su cui segnare non solo i nomi e i numeri di telefono, ma anche gli indirizzi mail, collegata con la propria posta elettronica.
Poter scrivere e archiviare documenti come sul pc (app PAGES).
Avere un navigatore sempre a portata di mano (app MAPPE)
Avere un archivio di immagini (foto fatte con l'iPad stesso o immagini create con i programmi che l'iPad supporta, o immagini scaricate dal web) sempre a disposizione, da poter mostrare agli amici come sfogliando un album.
Avere la propria musica preferita a disposizione.
Disegnare/pitturare: iPad è particolarmente stimolante per chi ha questa passione. App come TAVOLOZZA o ARTSTUDIO forniscono versioni semplificate di programmi tipo Photoshop, sfruttando l'immediatezza del segno tracciato direttamente con il dito. I colori sono particolarmente brillanti, luminosi... A me ha fatto tornare la voglia di disegnare, che giaceva sopita nel mio inconscio da molto tempo.
(ho appena scoperto che David Hockney apprezza molto usare l'iPad... Vedi David Hockney's iPad art)
Giocare. Sono innumerevoli i giochi che si possono avere sull'iPad, ma fra i tanti voglio segnalare quello che per ora è il mio preferito, e che è molto legato alla natura del mezzo stesso per il quale è stato concepito. Si tratta di LINE ART, un gioco che definirei di "intrattenimento estetico". Lo schermo si popola di infiniti corpuscoli luminosi che reagiscono al tocco delle dita secondo leggi misteriose (attrazione/repulsione fra il magnetico, il gravitazionale, il biologico) formando figure geometriche o caotiche. Riproduco qui sotto qualche esempio (mentre si gioca è possibile scattare delle foto di quello che si sta creando, quasi come si fosse un dio che mentre plasma la materia volesse documentare la propria opera...).
Altro uso, che ho appena iniziato a scoprire, è quello di usare iPad come lettore per ebook (app IBOOKS): bella la funzione di poter evidenziare e scrivere le proprie annotazioni al testo che si sta leggendo.





Ecco qualche immagine creata da Hockney con l'iPad:






















11 dicembre 2011

La filosofia in Jovanotti. Riflessioni filosofiche sull'album ORA. Prima puntata






Credo che l'ultimo album di Jovanotti sia ricchissimo di occasioni di riflessione per chi, come me, crede che la filosofia possa trovarsi anche fuori dalle università, fuori dai convegni per addetti ai lavori, anche in molti luoghi che non sono quelli creati da chi sceglie di fare della filosofia la propria scelta professionale (per approfondire questo tema della filosofia dei non filosofi rimando al bel libro recente di Roberto Casati Prima lezione di filosofia, Laterza 2011).

Che l'arte, in particolare, fornisca abbondante materiale su cui chi ha interessi filosofici può applicarsi con profitto non sono certo il primo a dirlo. Ricordo solo, a questo proposito, una frase che mi accompagna costantemente da quando l'ho letta, di Giovanni Piana: "Le opere dell'immaginazione ci danno da pensare" (in Elementi di una dottrina dell'esperienza).
In questo blog ho già provato a fare qualcosa di simile a quello che mi accingo a fare ora, e il risultato lo trovate in Jovanotti: non m'annoio e penso positivo.

Ascoltando l'ultimo album di Jovanotti (segnalo che è possibile scaricarlo, su iTunes, al costo di 10, 99 euro, circa un terzo di quello che costa il cd, e i testi sono reperibili in internet, ad esempio su tuttotesti), inizialmente mi aveva un po' respinto l'aspetto più "chiassoso" rispetto alle mie aspettative, proprio parlando della prima canzone, Megamix. Poi quasi subito, però, mi sono accorto della profondità e della complessità che Lorenzo è riuscito a creare, e ho capito che la forma  musicale in cui esprime i propri testi è in realtà coerente con il contenuto.

In Megamix, infatti, la musica trasmette subito grande energia, e questo è certamente un tema-chiave per entrare nel cuore della filosofia complessiva di questo autore. Va detto subito che Jovanotti stesso ha riflettuto sulla portata filosofica della sua musica e ha concentrato i risultati di questi pensieri nella conferenza L'ottimismo come forma di lotta,  nell'ambito delle conferenze TED, che consigliamo vivamente anche come introduzione a quanto segue.
Se "è questa la vita che sognavo da bambino", ciò significa che la vita non delude, la vita promette vitalità e mantiene la sua promessa. Certamente vitalità non significa solo cose buone, e infatti già nelle prime frasi troviamo due coppie antitetiche che stanno a simboleggiare i due lati, positivo/negativo, della vita: topolino/apocalisse e hello kitty/tarantino. Se Topolino e Hello Kitty sono due personaggi teneri, cari ai bambini, e incarnano valori di sicurezza, comodità, ordine (Topolino è anche tenace, intelligente, laborioso... Non conosco abbastanza Hello Kitty per poter dire qualcosa di più sul suo carattere...), certamente i film di Tarantino non sono rassicuranti, e associato al concetto di apocalisse direi che qui Jovanotti condensa il lato negativo della vita nel suo essere costantemente esposta al tracollo, alla violenza, alla fine certa ma imprevedibile nel suo quando e nel suo come.
Questa doppia valenza della vita è ribadita poi nel seguito, dove troviamo la ripresa del titolo, Megamix, e un richiamo a "la x e la y, la y e la x": la vita  è una sorta di grande mix, mescolanza, di bene e male, di sicurezza e insicurezza (la vita  è in grado di riparare e riprodurre se stessa, ma contiene anche in se elementi di grande vulnerabilità, la morte degli individui in primo luogo, ma anche le malattie, gli incidenti, le catastrofi ambientali...). X e Y io li interpreto come un'allusione ai due assi cartesiani, che, appunto, si incrociano e orientano lo spazio. Sono due coordinate, ma non collocate in una antitesi irresolubile, non sono i due corni di un'antinomia, ma le due direzioni in cui è organizzato lo spazio, che hanno oltretutto un punto in comune, lo zero.
Di fronte a questa situazione di teso equilibrio fra cose buone e cose cattive irrompe l'"ottimismo" di Lorenzo, nel senso che la canzone è poi piena di frasi che testimoniano la vitalità della vita nel suo aspetto più creativo, di instancabile curiosità e lavoro.
Così infatti interpreto le frasi come "hai le vene e dentro alle vene che cosa c'è": l'uomo non si accontenta di avere un corpo che funziona perfettamente, ma vuole anche sapere come fa a funzionare così bene. Questa è l'infinita sete di conoscenza che caratterizza la specie umana e si manifesta già precocemente con la cosiddetta fase del perché che tutti i bambini hanno.
Ma anche frasi come 

Datemi una notte inventerò una lampadina
Datemi una stella e io mi stendo sulla schiena

stanno a indicare la incredibile capacità umana di reagire all'esistente con pari energia, procurandosi ciò di cui ha bisogno, andando oltre ai bisogni puramente di sussistenza e coltivando la propria intelligenza. Una cosa è troppo lontana, non si può modificare a proprio vantaggio? (una stella) Nessun problema: mi stendo sulla schiena e la contemplo! (e da questa capacita di contemplare nascono la filosofia, la religione, la scienza, l'arte... Perché poi, l'uomo, fermo in realtà non ci sa stare e rende creativo anche l'ozio, il non fare...).

11 ottobre 2011

Il dilemma del libero arbitrio secondo Alfredo Civita



Nello scritto Due concetti di ‘libertà’ o due concetti di ‘concetto, Giulio Napoleoni mi chiama direttamente in causa rinnovando un dialogo di molti anni or sono. Con molto piacere svolgerò qualche riflessione in proposito.
Sottoscrivo questa affermazione di Giulio “Frasi come 2A, pur affermando la libertà dell’agente (o la libertà del volere dell’agente) sono compatibili con una visione deterministica, mentre affermazioni come 2B non sono compatibili con una visione deterministica. La differenza fra i due concetti di libertà si basa su questo”.
Giulio ribadisce così la sua elegante distinzione tra il problema empirico e quello metafisico del libero arbitrio. Fin qui, ripeto, sono del tutto d’accordo. Qualche perplessità mi si pone in relazione alla legittimità di parlare di un problema metafisico del libero arbitrio.
Per spiegarmi, devo fare ricorso alla teoria dei giochi linguistici del mio adorato Wittgenstein, una teoria alquanto complessa che tuttavia devo dare in buona parte per conosciuta. Mi limito a questa scarna informazione: ogni gioco linguistico ha un suo proprio funzionamento governato da regole specifiche.
Esistono anzitutto i giochi linguistici del linguaggio quotidiano e naturale. Dico anzitutto perché in una celebre osservazione Wittgenstein fa una similitudine tra il linguaggio e la città, poniamo una vecchia città europea, come Londra, Parigi, Roma, Milano. La parte antica della città è simile ai giochi linguistici della quotidianità. Nelle periferie nascono sempre nuovi quartieri, nuovi insediamenti, che fatalmente hanno perso le caratteristiche urbanistiche del centro antico. Si pensi alla Défense di Parigi o al quartiere di Milano 2, o sempre a Milano al quartiere dove è nata l’Università della Bicocca. Rispetto all’intrico di vie e viuzze del centro storico, questi nuovi quartieri mostrano un aspetto decisamente più geometrico. Fu probabilmente questa considerazione che indusse Wittgenstein a sostenere, elaborando la similitudine linguaggio-città, che i linguaggi sviluppatisi dopo il linguaggio della quotidianità hanno un carattere più specialistico: sono i linguaggi della scienza, della matematica, della filosofia e della metafisica.
Ora una prima osservazione è che nei molteplici giochi linguistici della comunicazione quotidiana le parole metafisiche che occorrano in una transazione linguistica, non hanno significato e valore metafisico. Farò un esempio.
Se dico a un amico. ”Naturalmente sei libero di non farmi questo prestito”, va da sé che non sto sposando una tesi metafisica sull’esistenza della libertà del volere. In questo gioco linguistico la libertà, per così dire, è data per scontata. E aggiungerei questo: i giochi linguistici del discorso quotidiano contengono una regola che istituisce la libertà del volere – altrimenti non potremmo comunicare in modo fluido e, aggiungerei, normale.
Se mescoliamo ambiguamente le regole del linguaggio quotidiano con quelle del gioco linguistico della metafisica, potremmo assistere a risultati surreali, pazzi. Supponiamo per esempio che alla mia affermazione l’amico risponda in questi termini: “Ma io non sono libero!” Questo enunciato può essere interpretato in due modi, il primo normale, il secondo out of mind. La prima risposta, quella normale, potrebbe senz’altro essere giustificata dal fatto che gli sto puntando una pistola alla fronte. Come potrebbe allora il mio amico essere libero di non concedermi il prestito?
Se invece l’amico rispondesse: “Di quale libertà parli, io non credo nel libero arbitrio, sono un convinto determinista”. I due giochi linguistici, quello quotidiano e quello metafisico, entrano in corto circuito, generando un risultato surreale ovvero di pazzia pura e semplice. Le persone mentalmente molto malate, affette da un delirio di influenzamento, possono essere irresistibilmente convinte che i loro pensieri e decisioni non siano frutto della loro mente, ma di qualche misterioso apparecchio che instilla nella loro mente ciò che devono pensare e decidere.
Traggo da Wittgenstein un altro straordinario esempio di mescolanza di giochi linguistici. In Della certezza (osservazione 467) egli scrive: “Siedo in giardino con un filosofo [il filosofo in questione è George Moore]. Quello dice ripetute volte: 'Io so che questo è un albero' e così dicendo indica un albero nelle nostre vicinanze. Poi qualcuno arriva e sente queste parole, e io gli dico: 'Quest'uomo non è pazzo, stiamo solo facendo filosofia' ”.
Non voglio dilungarmi su un argomento quanto mai complesso ma credo che il medesimo ordine di idee lo rinveniamo nel concetto husserliano di Lebenswelt, di mondo della vita. Le negoziazioni linguistiche del mondo della vita non possono non implicare la libertà del volere.
Dunque, è lecito disquisire intorno al libero arbitrio solo in giochi linguistici specialistici. Prenderò brevemente in considerazione tre giochi linguistici, o meglio tre famiglie di giochi linguistici: le neuroscienze, il diritto penale, la metafisica. Nei primi due, il problema del libero arbitrio emerge su un piano empirico, nel terzo, va da sé, è in gioco la metafisica.
Le neuroscienze di indirizzo cognitivo negano in linea di principio la libertà del volere. Per dimostrare questa tesi i neuroscienziati impiegano i metodi – peraltro preziosi in medicina – del brain imagin, della visualizzazione cerebrale. A un soggetto, sottoposto, poniamo, a risonanza magnetica funzionale, viene chiesto di attuare una prestazione mentale. Gli viene chiesto, per esempio, di decidere come si comporterebbe in una determinata situazione. Da questi studi è emerso che la sede cerebrale della volontà si trova nella corteccia prefrontale. Il gioco è fatto, la libertà è un’illusione giacché essa in realtà dipende dalle aree prefrontali del cervello. Per smantellare questo ordine di idee basta una semplice domanda: ha senso affermare che il cervello prefrontale prende una decisione? Ovviamente no, il cervello fa il suo onesto e complicato lavoro (neuroni, sinapsi, neurotrasmettitori), non lo si può certo gravare anche dell’incombenza di decidere! Sarebbe una rottura del gioco linguistico. Le decisioni le prende il soggetto, l’Io, il Sé, la persona o quello che volete. L’errore delle neuroscienze, in questo ambito di studi, consiste nel ritenere che il dispositivo concettuale della neurobiologia, per quanto rigoroso, possa essere esteso agli stati mentali, ai comportamenti, alle decisioni. Stati mentali e comportamenti hanno bisogno di un ben diverso sistema concettuale, un sistema di certo meno rigoroso ma decisamente più fine.
Il diritto penale: l’imputabilità presuppone la capacità di intendere e volere. Capacità di intendere vuol dire che il soggetto comprende il significato e le conseguenze dell’atto che sta per compiere. Capacità di volere indica che il soggetto agisce non sotto una qualche costrizione, ma in piena libertà. Nelle perizie psichiatriche richieste dal tribunale esiste un’unica patologia che esclude la capacità di intendere e volere, è la schizofrenia. Il soggetto, per esempio, può compiere un delitto sotto la pressione invincibile di un ordine allucinatorio. Se escludiamo la schizofrenia, il perito, non di parte ma del tribunale, ha grandi difficoltà ad accertare obiettivamente l’incapacità di intendere e volere, e per lo più riconosce che tale incapacità non sussisteva. Due osservazioni. E’ veramente raro che un paziente schizofrenico compia un grave delitto. Seconda osservazione: l’ordinamento giuridico ragiona come Wittgenstein in rapporto ai giochi linguistici della comunicazione quotidiana, e anche come Husserl rispetto al mondo della vita: dà per scontato, come una cosa ovvia e naturale, che gli individui, non sottoposti a costrizioni dipendenti da una malattia o da altre condizioni, come l’ubriachezza o l’effetto di stupefacenti, che gli esseri umani sono liberi di fare una cosa o di non farla.
Solo due parole conclusive sulla metafisica. Solo due parole perché devo ora semplicemente sostenere che non sono d’accordo con Giulio: i problemi metafisici non sono pseudoproblemi, altrimenti non avrebbero affascinato filosofi, scienziati e scrittori da millenni; sono problemi autentici e di grande rilevanza, tuttavia sono, a mio parere, insolubili. Per il semplice fatto che non esistono operazioni mentali o materiali che ci aiutino a risolverli. Altrimenti, insomma, dopo tanti secoli, almeno uno avrebbe trovato una soluzione condivisa. Esistono problemi che per millenni sono stati affrontati con metodi speculativi, ossia come problemi filosofici. Lo sviluppo delle conoscenze scientifiche ha però spesso modificato il loro statuto. Pensiamo alla caduta dei gravi. La teoria gravitazionale di Newton lo ha trasformato in un problema scientifico che egli ha meravigliosamente risolto. Risolto? Non di certo, giacché Einstein ha dimostrato che la teoria newtoniana non era impeccabile. Il problema della caduta dei gravi è scientifico e per ciò stesso empirico. Il dilemma del libero arbitrio non potrà mai evolvere, secondo me, in un mero problema empirico.

Alfredo Civita


L'immagine che ho scelto per accompagnare questo contributo, graditissimo, di Alfredo Civita è un'opera di Peter Hohloch dal titolo Free Will.

12 settembre 2011

Inconscio e libertà. Risposta di Alfredo Civita





Caro Giulio,

Provo a rispondere ai due ardui quesiti che hai sollevato nella lettera. Nel replicare al primo quesito adotterò il terzo livello, rispondo in quanto me stesso, Alfredo Civita. Il terzo livello tuttavia s’intreccerà fatalmente con gli altri due.
Tutti i nostri comportamenti sono motivati da istanze inconsce? Lo escludo assolutamente, e credo non vi sia neanche bisogno di argomentare questa risposta. Per esempio, se, dopo aver fatto colazione e aver pranzato, vado a cena al ristorante e ordino una cotoletta, l’ordinazione della cotoletta è forse ascrivibile a motivi inconsci? Ma scherziamo: né Freud, né la psicoanalisi attuale e, nel mio piccolo, neanche io, ripudiamo il libero arbitrio, la liberta del volere. Del resto, il trattamento psicoanalitico non avrebbe alcun senso in una prospettiva deterministica. Lo scopo della psicoanalisi è infatti proprio quello di rendere il soggetto più consapevole di se stesso e di conseguenza più libero. La psicoanalisi, e in particolare la psicoanalisi clinica, è incompatibile con il determinismo – sebbene Freud, ossessionato dal fare della psicoanalisi una scienza a pieno titolo, si è più e più volte gingillato con questo ordine di idee. Ma è ben noto che nella vastissima produzione freudiana si può trovare, solo lo si voglia, tutto e il contrario di tutto. E questo soprattutto a livello metapsicologico ed epistemologico.
Freud, al pari di Binswanger, considerava la malattia psichica come una coartazione della libertà. La cura doveva restituire al paziente la libertà, insieme a un’altra cosa assai più scomoda: la comune e universale infelicità del vivere. In luogo della sofferenza nevrotica, la psicoanalisi porta la sofferenza normale, la mancanza, le ansie e il senso di vuoto che immancabilmente segnano l’esistenza di ogni essere umano, per quanto psichicamente sano possa essere.
Freud afferma che i fenomeni psichici influenzati dall’inconscio appartengono a quattro tipologie, come ricordi anche tu, Giulio, nella lettera: atti mancati, motti di spirito, sintomi e sogni. Qui devo sdoppiare il mio ruolo di filosofo da quello di clinico a indirizzo psicoanalitico. Da filosofo non posso che essere d’accordo con Jaspers laddove afferma che Freud voleva,  e aggiungerei doveva, trovare dovunque un senso. Un evento privo di senso, nel mondo umano, gli era intollerabile.
Da clinico devo invece concordare con Freud in questo senso: quando un paziente compie in seduta o fuori un atto mancato, oppure quando mi racconta un sogno, l’atto mancato e ancor più il sogno mi offrono un materiale inestimabile per far procedere l’analisi, per conseguire una conoscenza condivisa della sua personalità. Vi sono pazienti che non portano sogni, oppure li portano e li lasciano lì in attesa di una mia magica e decisiva interpretazione. Questa tipologia di pazienti non è adatta per il trattamento analitico propriamente detto. Occorre modificare la tecnica. Ma se il paziente racconta il sogno e poi, senza paura, lavora con la mente per afferrarne il significato, allora questa è in tutto e per tutto psicoanalisi – con ottime prospettive non già di guarigione, perché non se ne parla, ma di essere finalmente nelle condizioni di fare a meno dei suoi sintomi.
Con ciò spero di aver risposto in qualche modo alla prima domanda; passo ora alla seconda: le pulsioni sono inconsce? La risposta canonica di Freud sostiene che le pulsioni non sono né consce né inconsce; le pulsioni non sono contenuti psichici, si trovano sul confine tra il biologico e lo psichico; quando tuttavia la pulsione viene attivata dalla corrispondente fonte somatica, per esempio la regione della sessualità in rapporto alla pulsione sessuale, la pulsione, così attivata, investe con tutta la sua potenza una rappresentazione, la quale si trasforma in un moto pulsionale di desiderio. Questo, essendo inconscio, non viene percepito dalla coscienza, ma esercita su di essa una pressione dalla quale non si può sfuggire. Per essere accettata dalla coscienza – Freud pensa soprattutto a desideri sessuali incestuosi – il moto pulsionale di desiderio deve trasfigurarsi, mascherarsi così da farsi accettare dalla coscienza. Il desiderio resta comunque quello originario, nonostante il mascheramento. Alla tua domanda, se questo ragionamento, metta in dubbio la libertà del volere, rispondo che sono d’accordo. Ma Freud, che pure ha contribuito profondamente a modificare il suo tempo, a quel tempo vittoriano pur sempre apparteneva:  che una persona potesse essere consapevole di un desiderio incestuoso oppure omosessuale, era, credo, un pensiero per lui difficile da digerire.
Concludo con una breve riflessione personale sulle pulsioni. La comunità psicoanalitica è andata gradualmente rinnegando l’idea stessa di pulsione. In parte sono d’accordo, perché, da un punto di vista neurobiologico, il concetto di pulsione è oggi insostenibile. Ma come ho scritto anche nel mio libro, la domanda che sorge è: se le pulsioni non esistono, se non esiste in particolare la pulsione di morte, cosa ci resta per rendere ragione e di molte patologie individuali e della distruttività del genere umano?

Alfredo Civita

(con questa lettera Civita rispondeva a una mia lettera, scaturita dalla lettura del suo libro L'inconscio)

6 settembre 2011

"C'è davvero una realtà in sé?" = "C'è Dio?"



La prima domanda posta nel titolo è una domanda cruciale per capire il destino della filosofia contemporanea, alla luce delle tesi di Franca D'Agostini.
La messa a fuoco di questa domanda, da parte di D'Agostini nel suo recente Introduzione alla verità (Bollati Boringhieri 2011) (vedi la mia quasi-recensione in questo blog), è il punto di partenza per una revisione della tradizionale interpretazione della nozione kantiana di cosa in sé come qualcosa di non solo indipendente, ma anche inaccessibile ai nostri strumenti conoscitivi, decisamente separata da essi. (vedi pag. 195) La filosofa propone di interpretarla come "ci sono cose che non sappiamo/non vediamo", o "non sappiamo tutto" ("in un certo senso è ancora il vecchio principio socratico", p.196) e questa interpretazione ha la funzione di liberare il campo per una seria ripresa della riflessione metafisica nella filosofia contemporanea. Semplificando molto: se non sappiamo tutto ciò non ci impedisce però di (anzi, ci spinge a) progredire nella conoscenza e farci un'idea sempre migliore di come sia la realtà in sé: la metafisica può fare ricerca, stando al passo con la scienza e con la storia!

Io qui vorrei però porre l'accento su una questione sulla quale mi pare che D'Agostini sia sfuggente (si veda la sezione 15.5, dal titolo Dio è una questione di gusti?): l'esistenza o inesistenza di Dio.
Mi pare che chiedersi "c'è davvero una realtà in sé? Che relazione c'è tra questa realtà in sé e quella che ci parla, tocca i nostri sensi, investe la nostra ricettività, fornendo i materiali del nostro giudicare e ragionare?" (p. 195) equivalga a chiedersi "c'è Dio?"
Perché dico questo? Perché Dio è, nella cultura filosofica, l'inaccessibile per eccellenza, ciò la cui esistenza per secoli i filosofi hanno tentato di dimostrare. E su questa eccellente inaccessibilità di Dio la religione ebraico-cristiana ancora oggi si sostiene, perché può sempre argomentare, contro chi obietta che dal punto di vista scientifico non vi è traccia di Dio, che non vi è traccia perché è inaccessibile, perché esiste in una dimensione trascendente!

Come va interpretato questo non sappiamo tutto di D'Agostini interprete di Kant? Dagli esempi che fa (potrebbe darsi il caso che una pietra stia cadendo su Marte; può darsi che esistano extraterrestri intelligenti) si direbbe che non sappiamo tutto non perché, appunto, c'è una regione inaccessibile della realtà (nella quale potrebbe risiedere Dio) ma solo perché la nostra esperienza è limitata nello spazio e nel tempo.

Paolo Flores D'Arcais, noto filosofo che sostiene attivamente l'ateismo, inizia il suo libro L'individuo libertario proprio sostenendo la tesi opposta: sappiamo tutto. Ovviamente è un'esagerazione, ma per dire cosa? Per dire che la scienza ci da già oggi le coordinate fondamentali di ciò che esiste, e in queste coordinate non c'è spazio per Dio. Sostenere questo è possibile solo se riteniamo che la realtà, o l'essere, sia in linea di principio accessibile all'esperienza. In altri termini se accettiamo che la scienza, con i "prolungamenti" della nostra esperienza che ci fornisce attraverso le sue teorie, abbia accesso, almeno potenzialmente, a tutta la realtà.

La domanda fondamentale è : c'è un'altra realtà oltre a quella spazio-temporale? È questa realtà, se c'è, in linea di principio inaccessibile all'esperienza umana? (in questo senso realtà come quelle degli enti matematici, degli oggetti del pensiero, o degli oggetti dell'immaginazione non sono esempi, proprio perché sono accessibilissime all'esperienza umana, dal momento che è essa stessa che le costruisce! - mi scusino i matematici di stampo platonico...) Certamente rispondere è una questione ontologica o metafisica. Se ammettiamo l'esistenza di una realtà inaccessibile in linea di principio all'esperienza umana lasciamo certamente più spazio alla possibilità che Dio esista. Se invece lo neghiamo riduciamo fortemente questo spazio. Si può anche dire che Kant abbia voluto lasciar aperta l'interpretazione della realtà in sé come inaccessibile e separata proprio perché voleva dare spazio alla possibilità dell'esistenza di Dio, pur riconoscendo l'impossibilità di dimostrarla scientificamente.

In ogni caso penso che una teoria metafisica sia tenuta a pronunciarsi sulla questione di Dio, senza aver timore di invadere il campo della religione. Le possibilità non sono molte: o c'è o non c'è.
Ovviamente non basta affermarlo o negarlo ma occorre argomentare, come sempre in filosofia. Certamente, inoltre, se se ne afferma l'esistenza occorre poi anche dare almeno un'idea di cosa sia, e qui le possibilità tornano numerosissime. Ma la questione base, ontologica, rispetto a Dio mi sembra ineludibile e i filosofi sono chiamati a esprimersi chiaramente.
Giulio Giorello l'ha fatto recentemente in un libro, Senza Dio, Longanesi 2010. E da questo libro prendo la definizione che Giorello stesso accetta, in via preliminare, come ciò di cui intende negare l'esistenza (definizione di padre F.C. Copleston, il gesuita con cui discusse Russell nel 1948): con la parola Dio "intendiamo un ente supremo, personale, distinto dal mondo e creatore del mondo". È quindi rispetto alla definizione religiosa di Dio, che secondo me i filosofi sono tenuti a pronunciarsi. E non mi sembra giusto partire dalla questione di cosa sia Dio esattamente, per poi cercare di capire se esista o no. Prima occorre prendere posizione sulla sua esistenza o meno, poi eventualmente precisarne le caratteristiche, magari anche per discostarsi notevolmente dalla definizione religiosa, come fa per esempio Pareyson in Ontologia della libertà. Pareyson parte dall'esperienza religiosa tradizionale come un dato di fatto e sostanzialmente non mette in discussione se l'oggetto di qusta esperienza esista o no. Quindi ragiona dando come presupposta l'esistenza di Dio: in quanto oggetto dell'esperienza religiosa, non si preoccupa di doverne dimostrare l'esistenza, ma almeno assume una posizione, per quanto non tematizzata: Dio c'è. Poi costruisce, ragionando sul male, il non-essere eccetera, un'interpretazione di Dio notevolmente distante da quella della tradizione ebraico-cristiana.

Io, come vedete, mi sto interrogando in merito, partendo da una solidissima formazione atea che mi deriva da mio padre, Mario Napoleoni, purtroppo recentemente scomparso, che dava lezioni di ateismo a tutti quelli che incontrava. Colgo l'occasione, qui, per dire che lo ricordo con grandissimo affetto e grandissima stima, perché devo a lui anche la passione per la filosofia. Fu lui a mettermi in mano, quando frequentavo il liceo artistico e mi interrogavo su quale facoltà scegliere e avevo solo capito che mi interessavano troppe cose diverse, I problemi della filosofia di Bertrand Russell, dicendomi: "c'è una disciplina che si interessa di tutto: è la filosofia!".

Cfr , su analogo argomento, in questo blog L'inoltrepassabile

2 settembre 2011

L'inconscio e la libertà. Lettera aperta ad Alfredo Civita

Caro Alfredo,

come altre volte, in questo blog, mi ritaglio un percorso all'interno di un libro rispondendo al mio interesse personale, e questa volta prendo in esame il tuo volume recente L'inconscio (Carocci 2011) ponendoti alcune questioni.
Parto con una citazione dall'Introduzione:
Il tratto essenziale dell'inconscio psicoanalitico risiede nel fatto che i contenuti che lo abitano e lo animano hanno un carattere motivazionale. Essi motivano, dall'oscurità della vita inconscia, emozioni, pensieri e comportamenti della vita cosciente.
Prima domanda: Tutti i comportamenti? Solo alcuni? Quali? Il problema è se vi sia in generale, secondo Freud/secondo la psicoanalisi contemporanea/secondo te (tre livelli della prima domanda, quindi) in generale una motivazione inconscia che sta "sotto", o si aggiunge/si mescola alle motivazioni coscienti per cui agiamo.
Risposte a questo problema si trovano nel seguito del libro, ovviamente, ma suscitano altre questioni. Vediamo.
" I processi dell'inconscio emotivo " scrivi (distinto, quello emotivo o psicoanalitico, dall'inconscio cognitivo, di cui anche ti occupi nel libro)
svolgono il ruolo di potenti motivazioni in rapporto al pensiero e al comportamento dell'individuo.
Per spiegare questa affermazione introduci un famoso slogan: la coscienza non è padrona in casa sua.
L'Io cosciente s'illude di padroneggiare in piena libertà i propri desideri, il proprio pensiero, la condotta; in realtà le reali motivazioni si trovano nelle profondità del suo inconscio emotivo.
Da queste prime affermazioni sembrerebbe di poter dire che secondo Freud tutti i comportamenti sono motivati inconsciamente. Più avanti, però, tu spieghi come Freud, a sostegno dell'esistenza dell'inconscio (per controbattere alle argomentazioni di Franz Brentano) indichi un insieme specifico di fenomeni psichici per i quali senza introdurre spiegazioni basate sull'inconscio ci troveremmo di fronte a fenomeni psichici privi di significato, casuali (cosa per Freud inconcepibile): i sogni, gli atti mancati, i sintomi psichici, le idee e prodotti intellettuali che ci "arrivano" senza un consapevole percorso psichico. Al di là della consistenza di questa argomentazione freudiana (basata come dici tu su un postulato indimostrabile, ovvero l'onnipresenza del senso nella vita psichica) a me interessa il fatto che se l'azione dell'inconscio fosse limitata a questo insieme di fenomeni non sarebbe messa in questione la libertà del soggetto.
    Per approfondire il tema dell'incoscio nella sua capacità motivazionale tu fai riferimento alla teoria freudiana delle pulsioni.
La pulsione produce uno stimolo sull'organismo, generando il bisogno di neutralizzare lo stimolo stesso.
Il bisogno generato dalla pulsione, provenendo dall'interno dell'organismo, è qualcosa da cui non si può sfuggire, deve essere affrontato. I due esempi fondamentali sono la fame e il desiderio sessuale. Dopo aver analizzato il concetto di pulsione (Trieb) e averlo distinto da quello di istinto (Instinkt) (le pulsioni hanno una grande variabilità quanto al loro sviluppo e soddisfacimento, mentre gli istinti sono schemi di azione rigidi) tu chiudi la parte dedicata a questo tema (1.3) con questa frase:
Le pulsioni si attestano quindi come le motivazioni fondamentali della vita umana
Tralasciando la pulsione di morte (pur da te ampiamente analizzata) a me resta una questione in sospeso (seconda domanda): le pulsioni sono inconsce? Non siamo forse ben consapevoli del nostro bisogno di cibo e dei nostri desideri sessuali? Forse all'epoca di Freud la sessualità era molto più celata e forse le persone tendevano a non confessare nemmeno a se stesse i propri desideri più "spinti", ma che la sessualità occupi una parte importante della vita psichica cosciente l'aveva già riconosciuto Schopenhauer ben prima dell'epoca di Freud! E' chiaro che dal punto di vista di chi si chiede se l'inconscio rappresenti una "minaccia" per la libertà umana questo punto è importante, perché un conto è un bisogno dal quale non possiamo sfuggire ma di cui siamo coscienti, un altro è un bisogno che oltre ad essere inevitabile è anche inconscio!

Alfredo Civita rispose a questa mia con una sua lettera che mi ha permesso di pubblicare e che trovate in questo blog : ne raccomando a tutti la lettura, per la sua chiarezza e per la ricchezza di spunti che offre alla riflessione filosofica.

22 agosto 2011

Le varianti della bellezza



Quanti modi diversi ci sono di incarnare la famosa idea platonica di BELLEZZA?

Sembra molto difficile pensare a cosa hanno in comune un bel volto umano, un bel romanzo e una bella legge. (l'esempio della legge è di Platone stesso) Insomma, riuscire a contemplare l'idea di bellezza nella sua unicità sembra molto più difficile di quanto lo sia il riuscire a definire l'essenza della verità nella sua unicità. Al di là delle diversità delle frasi che possono essere vere (verità matematiche, verità storiche, verità morali...) la corrispondenza fra linguaggio e realtà sembra effettivamente cogliere una caratteristica universale della verità.
Ma per la bellezza le cose sembrano essere più difficili, se non altro perché le cose che possono essere belle possono appartenere a categorie anche molto diverse fra loro, mentre le cose che possono essere vere sono comunque proposizioni.
Non sarà che Platone si sbagliava, che ci sono cioè diversi tipi di bellezza, quindi non esiste un'unica idea corrispondente al concetto?
Anche restando nel campo dei volti umani, inoltre, trovare cosa hanno in comune volti che riteniamo belli (al di là del problema che alcuni possono non essere d'accordo sul giudizio di bellezza riguardo a un certo volto) non è certo facile.

Per mostrare a chi legge tale difficoltà propongo due coppie di volti, una maschile e una femminile, nelle quali entrambi i volti si possono definire belli, ma sono molto diversi fra loro.