26 maggio 2010

Le note infinite e l'immagine del mondo




Un giorno, in una famosa casa editrice londinese, arrivò misteriosamente un testo alquanto singolare.
Non era chiaro come fosse arrivato negli uffici, e in particolare nella stanza di Klaustenbor, uno dei più quotati lettori in quel momento operanti sul continente: la carta nella quale era impacchettato era immacolata, senza alcuna traccia di timbro o francobollo, quindi non poteva essere arrivato per posta, come in genere arrivavano in casa editrice tutti i testi aspiranti ad una pubblicazione. Ma anche l'ipotesi che fosse stato recapitato a mano dall'autore o da persona incaricata era da scartare, perché tutti i testi proposti direttamente da privati cittadini che fisicamente entravano nel palazzo venivano regolarmente protocollati con un'etichetta sulla quale la portineria indicava giorno, ora e nome della persona, alla quale oltretutto, per motivi di sicurezza, veniva chiesto un documento d'identità, il cui numero veniva annotato sempre accanto al nome.
Restava la possibilità che qualcuno di interno alla casa editrice l'avesse consegnato direttamente a Klaustenbor, ma nemmeno questo era accaduto. Klaustenbor era quindi molto perplesso, mentre rigirava tra le mani il pacchetto bianco e liscio. Un bianco di un candore quasi accecante e una liscezza che metteva quasi i brividi: più che carta sembrava un sottilissimo strato di diamante.
Una volta aperto l'involucro la prima sorpresa fu che il testo (tutto costituito di pagine della stessa carta-diamante dell'involucro, con impressa una scrittura nerissima, un nero profondo che contrastava violentemente col bianco luccicante della carta) era scritto in caratteri non latini. Dopo una breve ricerca in internet Klaustenbor appurò trattarsi di sanscrito. Che senso ha, si chiedeva mentre sfogliava con curiosità le pagine, che un autore indiano mandi qui un testo non in inglese?
Un'altra cosa molto strana era questa: ogni pagina era per metà composta in caretteri di media grandezza e per l'altra metà, quella inferiore, si componeva di fasce, separate da uno spazio, con caratteri progressivamente sempre più piccoli. Anche lo spazio tra una fascia e l'altra era progressivamente sempre minore. La parte più bassa di ogni pagina era scritta in caratteri così piccoli che a occhio nudo si faceva fatica a distinguerli, e terminava con una zona completamente nera.
Klaustenbor si fece prestare una lente di ingrandimento facendo una breve incursione nel reparto dei grafici ed esaminò diverse pagine puntando la lente sulla parte nera.
Con grande sorpresa scoprì che in realtà la parte superiore della zona nera era composta sempre di scrittura, sempre divisa in fasce con caratteri sempre più piccoli.
A quel punto cominciò a riflettere, fino a che ebbe un'intuizione: note al piede! La prima fascia in corpo minore erano evidentemente note al piede del testo principale, la seconda fascia erano note alle note soprastanti e così via. Livelli di notazione sempre più remoti rispetto al testo principale ma... fino a dove? Anche con la lente, a un certo punto non si riusciva più a distinguere e si vedeva solo nero, ma Klaustenbor aveva un sospetto, e volle subito togliersi la curiosità. Telefonò a un suo amico biologo e gli chiese se fosse possibile esaminare il testo con un microscopio elettronico.
L'incontro fu combinato e di lì a qualche giorno i due amici si incontrarono nel laboratorio del biologo. Il microscopio venne puntato sulla zona più bassa di una delle pagine, là dove il nero era apparentemente compatto. Osservò dapprima l'amico, e trasalì. "Guarda tu stesso" gli disse, e Klaustenbor guardò. Quello che vide fu un testo con caratteri medi, note al piede in corpo minore, note alle note eccetera, solo che l'immagine era frutto di 10.000 ingrandimenti!
Da ulteriori indagini risultò che le note sempre più piccole continuavano a essere composte di caratteri in sanscrito a dimensioni paragonabili a quelle di una cellula!
A quel punto il libro divenne oggetto di approfondite ricerche scientifiche. Una commissione lo studiava dal punto di vista fisico e un'altra commissione fu messa al lavoro per produrre una traduzione del testo principale e del primo livello di note.
I risultati furono i seguenti: incredibilmente i caratteri rimanevano leggibili perfettamente anche a livello atomico, ovvero la "carta" e "l'inchiostro" di cui era composto il volume non erano assolutamente composti della stessa materia di cui era composto il mondo noto all'umanità, era una materia evidentemente diversa, non scomponibile in particelle se non, forse, a livelli così minimi da rimanere del tutto insondabile per la strumentazione scientifica disponibile in quel momento sulla Terra. L'ipotesi più accreditata fu, a un certo punto, che i livelli di notazione fossero infiniti. Anche a livello di maggiore ingrandimento possibile, infatti, restava sempre una zona nera in basso dove si poteva presumere fossero presenti ulteriori livelli di testo.
La commissione che si occupava della traduzione era in grandi difficoltà. Il testo, pur essendo composto in sanscrito classico, comprendeva molti termini sconosciuti, il cui significato era chiarito in nota, ma con frasi a loro volta ricche di termini ignoti spiegati in nota e così via. Dopo un periodo di intenso lavoro, durato mesi, i media diedero notizia di una prima traduzione in inglese, piena di lacune, il cui senso generale era però tracciabile in prima approssimazione e riguardava le leggi fondamentali dell'universo. Il titolo era "Teoria dell'Intero". In pratica era un testo scientifico, simile a quello che avrebbe potuto essere un trattato di fisica, ma con leggi completamente nuove il cui senso profondo risultava in gran parte oscuro.

Dopo molti anni, nei quali tutta la comunità scientifica mondiale e il mondo accademico in generale vennero monopolizzati dalla questione di leggere e interpretare il testo fino a dove era possibile decifrarlo, uno scienziato, basandosi su quanto veniva affermato in una pagina, fece una scoperta sensazionale che consentì la costruzione di un nuovo modello di telescopio spazio-temporale grandangolare ad anti-materia. Questo telescopio avrebbe dovuto essere in grado di scattare immagini della forma generale dell'universo. La prima immagine scattata fu quella che vedete riprodotta all'inizio di questo racconto, e come è possibile constatare non era una forma "compiuta": la forma sembrava continuare oltre i bordi dell'immagine, ma l'immagine servì ugualmente all'umanità per farsi un'idea della reale grandezza dell'universo. L'universo conosciuto fino a quel momento, con il suo big bang e le sue galassie in espansione, corrispondeva a uno dei "cornini" azzurri visibili nella parte superiore dell'immagine. Tutto il resto era universo ancora mai visto prima!

La "Teoria dell'Intero" continuò a far progredire la conoscenza scientifica, pur restando in gran parte illeggibile o incomprensibile. L'immagine completa del mondo, come ben sapete, non è ancora disponibile e non sappiamo quanto dovremo attendere prima di poterla osservare, pieni di stupore e ammirazione.



L'mmagine è di Cory Ench
l'immagine attuale dell'universo

25 maggio 2010

Ontologia e dissesto nei saperi

L'ontologia può essere il campo nel quale lavorare a un riordinamento/semplificazione/collegamento dei vari pezzi nei quali si è frammentato il sapere, sempre che riesca a non diventare anch'essa disciplina solo specialistica ma si apra a una comunicazione allargata verso il grande pubblico: sogno un'ontologia "alla portata di tutti", costruita utilizzando in maniera raffinata e immaginosa il linguaggio naturale. Il compito sarebbe infatti anche quello di riflettere e almeno in parte ricucire e colmare l'enorme divario ormai esistente fra discipline scientifiche e uso comune del linguaggio naturale. Il problema è che per fare questo occorre calarsi almeno per un certo tratto nelle varie scienze, in modo da farsi un'idea abbastanza precisa del fondamenti e dei "contorni" per poi riuscire a restituire tutto questo in un discorso unitario nel quale le diverse prospettive possano essere messe a confronto. Il filosofo quindi oggi più che mai dovrebbe essere un "dilettante di professione", uno "specialista della non-specializzazione"? Sì, almeno nella fase di ricerca, immersione-scavo nei saperi, ma poi deve sfruttare tutta la specificità della sua tradizione (il grande patrimonio delle opere filosofiche scritte nei secoli) per costruire questa nuova "macroteoria" posta in modo trasversale rispetto alle barriere di incomunicabilità e ignoranza reciproca che affliggono la cultura attuale. Tornare all'ideale "pace filosofica" sognata da Pico della Mirandola? Un ostacolo, che segnala secondo me un nodo tuttora molto difficile da sciogliere, è il rapporto di tutto questo con l'esperienza religiosa... La religione (penso soprattutto ai monoteismi) sembra essere un elemento refrattario all'operazione che qui stiamo prospettando, soprattutto per la sua secolare incapacità di ascoltare la scienza. Ma ancora una volta, per chi sia interessato a questa impresa (marginale rispetto al compito fondamentale proposto in quest'articolo all'ontologia) la filosofia ha da proporre, nella sua tradizione, diverse modalità di "accoglimento" della religione nel discorso più ampio della ragione (pensiamo a Kant, a Hegel, a Pareyson) ...

"Il labirinto dell'essere". Indice di un libro immaginario






1. Il linguaggio naturale: disordine nell'uso di "essere"

2. Filosofia: opzioni teoriche di base sul tema ontologico

3. Filosofia: opzioni teoriche di base sulla possibilità

4. Matematica: gli enti astratti

5. Fisica, chimica, biologia: gli enti naturali

6. L'ente che parla e teorizza: i vissuti, la "natura umana", il "soggetto"

7. Scienze umane e storia: gli enti culturali/sociali

8. Fra ragione e immaginazione: gli oggetti inesistenti, i paradossi, l'impossibile, il nulla

9. Fra teoria e prassi: il senso, i valori, il nichilismo

10: Etica, teoria dell'argomentazione, politica: le azioni

15 maggio 2010

La filosofia come sistematica esplorazione delle possibilità. Cosa può insegnare ai filosofi il gioco degli scacchi.

Ho appena finito di leggere il saggio di Andrea Borghini Che cos'è la possibilità, edito da Carocci nel gennaio 2009. L'autore presenta otto teorie che rispondono al problema "Cosa significa dire che una certa situazione è possibile?": scetticismo, espressivismo, modalismo, realismo modale, ersatzsimo, finzionalismo, agnosticismo, disposizionalismo. Alla fine, nelle Conclusioni, scrive: "Quale soluzione scegliere? Si eviteranno qui sentenze finali. Se è vero che tutto ciò che è è quel che è anche in virtù di ciò che potrebbe essere, ci si augura che siano molte le possibilità teoretiche qui aperte. Al lettore il piacere della scelta". Una predilezione dell'autore traspare ed è per l'ultima teoria, da lui stesso elaborata in precedenti lavori, ma al di là di questo quello che qui mi interessa mettere a fuoco è invece proprio l'impostazione generale del testo, il voler essere una panoramica sulle possibilità teoretiche aperte fin qui rispetto al problema filosofico della possibilità. Mentre lo leggevo provavo la stessa sensazione che ho provato tutte le volte che mi sono messo a studiare, per imparare a giocare meglio a scacchi, la cosiddetta "teoria delle aperture". Ci sono diversi modi di iniziare una partita: inizia il Bianco, e la sua prima mossa è già molto significativa e condiziona il futuro svolgersi della partita. Il Nero a sua volta ha diverse buone risposte possibili rispetto a ciascuna delle prime mosse del Bianco, e così via. Queste ramificazioni delle possibilità sono state studiate dalla teoria scacchistica. In alcuni casi la teoria si spinge a indagare fino alla ventesima mossa, suggerendo le risposte migliori per entrambi e analizzando possibili varianti, in altri casi si ferma molto prima. La maggiore o minore profondità teorica dipende dalla maggiore o minore frequenza con la quale certe possibilità vengono di fatto giocate e sperimentate. Le varie aperture sono state classificate in tre grandi insiemi: "gioco aperto" (il Bianco apre avanzando il pedone di Re di due passi e il Nero risponde specularmente), "gioco semi-aperto" (il Bianco apre come sopra, ma il Nero risponde diversamente), "gioco chiuso" (il Bianco non inizia muovendo il pedone di Re). In effetti le prime due mosse influenzano molto il tipo di gioco che poi segue: per gioco "aperto" si intende una partita basata molto sulle combinazioni tattiche, sui colpi di scena, sugli attacchi violenti, mentre per gioco "chiuso" si intende una partita più statica, basata sulla strategia, sulla forza delle posizioni, su piccoli vantaggi portati pazientemente fino al finale, nel quale si rivelano decisivi. Un'impressione analoga l'ho provata leggendo Analitici e continentali di Franca D'Agostini, ma anche leggendo Parole, oggetti, eventi di Achille Varzi. La filosofia somiglia alla teoria delle aperture negli scacchi quando consiste nel presentare una rassegna di possibilità teoriche mostrando come dalle opzioni iniziali derivino poi una serie di conseguenze, problemi, possibili obiezioni e relative risposte eccetera. Questa è forse la forma nella quale oggi può presentarsi un sistema filosofico: l'esplorazione sistematica di tutte le possibili opzioni iniziali nel campo delle teorie (filosofiche, scientifico-esatte, scientifico-naturali, scientifico-spirituali), nel campo degli atteggiamenti e nel campo della prassi e il mostrare come da queste opzioni iniziali (ovvero dai fondamenti) derivino conseguenze problematiche, epistemologiche, ontologiche, etiche... , sviluppando maggiormente l'analisi laddove le opzioni sono maggiormente frequentate nella realtà perché risultano in qualche senso vantaggiose, produttive, "vincenti".

3 maggio 2010

L'esistenza del possibile: Leibniz, Kant e Ferraris lettore di Kant






Per Leibniz le cose e gli eventi del mondo sono possibilità realizzate. Le possibilità sono infinite. Il mondo è una realizzazione fra gli infiniti mondi possibili. E' possibile ciò che non è contraddittorio. Il mondo è l'unico, fra i mondi possibili, che possiede una caratteristica in più, che manca a tutti gli altri: l'esistenza. Quindi il campo del reale è molto più ristretto del campo del possibile. Ma il campo del possibile, per Leibniz, in qualche modo esiste! Dio ha operato una scelta fra infiniti mondi possibili e ne ha realizzato uno: ciò significa che i mondi possibili hanno (o avevano, prima della scelta divina) una qualche forma di esistenza, altrimenti non si potrebbe parlare di scelta... Possiamo allora distiguere, se restiamo nella filosofia di Leibniz, fra esistenza logica e esistenza reale?

Per Kant l'esistenza non è un predicato reale, cioè una caratteristica che vada inclusa nella definizione di un oggetto: "Il reale non viene a contenere niente più del semplice possibile. Cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili" nel senso che il concetto (il possibile) descrive adeguatamente l'oggetto (il reale) "ma rispetto allo stato delle mie finanze nei cento talleri reali c'è più che nel semplice concetto di essi (cioè nella loro possibilità)."

Secondo Maurizio Ferraris (cfr. Goodbye Kant!, pag. 58) dal punto di vista ontologico, per Kant, esiste solo il reale: con cento talleri possibili non posso comperare nulla, perchè appunto non esistono! "Il possibile, semplicemente, non c'è. Non più di quanto un biglietto alla lotteria equivalga da solo a una vincita reale" dice Ferraris interpretando Kant.

Ho qualche dubbio su questa lettura di Kant: i concetti, per Kant, non esistono? Se esiste solo ciò che occupa un posto nello spazio e nel tempo dove le mettiamo le cose in sé? Forse anche in Kant occorre distinguere tra significati diversi dell'essere.

In ogni caso bisogna stare molto attenti: se si nega l'esistenza del possibile si finisce per negare anche la contingenza del reale: se non ci sono possibilità alternative tutto ciò che accade è necessario (ma allora si dà troppa importanza all'esistente, tutto appare come calcolato fin dal principio, tutto previsto in anticipo... se tutto fosse così importante il mondo dovrebbe anche essere migliore, senza disastri...).

Ultima considerazione (da approfondire): a favore di una concezione non univoca dell'essere c'è la stessa differenza fra possibilità e realtà. Non possono esistere nello stesso senso, altrimenti cosa le distinguerebbe? Quindi l'esistenza del possibile deve essere distinta dall'esistenza del reale.