Visualizzazione post con etichetta nichilismo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta nichilismo. Mostra tutti i post

19 novembre 2018

Williamson contro il relativismo



Riporto un articolo – da la Repubblica, 24 settembre 2017 – di Timothy Williamson, filosofo inglese che insegna ad Oxford, per invitare il lettore a una riflessione sul tema della convivenza pacifica in presenza di netti disaccordi. Il relativismo, che apparentemente aiuta, non è realmente progressivo. Non implica la tolleranza, perché è "neutrale fra tolleranza e intolleranza". Occorre invece essere, come diceva Popper, intolleranti verso l'intolleranza.






Per migliorare il mondo basta un po’ di logica

Da Alan Turing che inventò il primo computer a Tony Blair che invase l’Iraq senza prove certe. Due casi agli antipodi che dimostrano l’importanza della filosofia nelle nostre scelte

di Timothy Williamson

La disciplina più astratta e teoretica della filosofia è la logica, che ha anche alcune delle applicazioni più pratiche. Nel 1936 il logico britannico Alan Turing pubblicò la sua soluzione a un problema irrisolto, sia filosofico che matematico, sui limiti di ciò che si può fare in matematica seguendo formali procedure fisse. Per la dimostrazione ideò una “macchina universale”. Durante la Seconda guerra mondiale costruì una di queste macchine universali, il Colossus, per decifrare i codici utilizzati dai tedeschi. Fu il primo computer elettrico programmabile, e la teoria di Turing ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo dei computer moderni.
Vi sono problemi di natura non tecnica altrettanto difficili. Per esempio: come possiamo vivere pacificamente col prossimo quando siamo in netto disaccordo? Le società moderne sono profondamente in contrasto su scienza e religione, morale e politica. Spesso sembra esserci troppo poco in comune perché le due parti opposte possano discutere razionalmente. Allora raggiungono un punto morto e ciascuna delle due parti finisce per dire: “Noi abbiamo ragione, voi avete torto”, sapendo che l’altra parte dirà altrettanto. Poiché la controversia non può essere risolta con il dialogo, vi è il rischio che si decida facendo ricorso alla forza.
Davanti a questa impasse, oggi vi è un diffuso ricorso al relativismo, secondo il quale entrambe le parti hanno ragione dal proprio punto di vista, e torto dal punto di vista della controparte, tutto qui. Nessuna parte ha ragione in modo assoluto o torto in modo assoluto, indipendentemente dai punti di vista. Questo approccio dovrebbe portare alla pace ed evitare che ciascuna delle fazioni imponga la propria opinione all’altra facendo ricorso alla forza. Al contrario di quel che ritengono i relativisti, il relativismo non comporta tolleranza. È neutrale tra tolleranza e intolleranza, nessuna delle due è migliore dell’altra. Non c’è nulla di intrinsecamente progressivo nel relativismo: l’abbiamo visto quando la consulente di Donald Trump, Kellyanne Conway, ha parlato di “fatti alternativi” in merito al numero di spettatori presenti alla cerimonia di insediamento. E in un’epoca di post-verità, la gente si sente autorizzata a ignorare le prove scientifiche del riscaldamento globale. Anche se l’approccio alla verità e alla falsità non ha conseguenze politiche dirette, esso permea il dibattito pubblico rendendolo più o meno portato al pensiero velleitario.
Le questioni filosofiche astratte sulla relazione tra verità e certezza hanno una rilevanza politica. Chi equipara la verità alla certezza, e ritiene che la certezza sia impossibile, riterrà anche che la verità sia impossibile. È impreciso, però, equiparare la verità alla certezza. Anche se non è certo che ci sia un’attività che provoca il riscaldamento globale, questo non implica che non è vero che ci sia il riscaldamento globale. Probabilmente c’è. La possibilità della verità non implica la possibilità della certezza.
Se abbiamo cura di evitare le erroneità della logica possiamo evitare le insidie del relativismo. E ciò sarebbe auspicabile, perché nel relativismo è insito il proprio fallimento: non è relativista in merito a sé stesso. Ma senza di esso cosa facciamo quando raggiungiamo un punto morto? L’antirelativismo non offre soluzioni facili. Ma dobbiamo essere molto sospettosi di chiunque sostenga che la soluzione di un problema è facile, probabilmente ci sta raggirando.
Per certi aspetti l’antirelativismo offre un maggior rispetto per le parti in contrapposizione rispetto al relativismo. Nella controversia tra osservanti di due fedi quali il cristianesimo e l’Islam, per esempio, ciascuna delle parti considera la propria opinione vera in modo non relativo. Il relativismo esclude questa possibilità, e offre a ciascuna delle parti solo la magra consolazione della verità relativa, lasciandole entrambe del tutto insoddisfatte. Anzi, offrendo tale opzione indipendentemente dalla questione specifica, il relativista si rifiuta di schierarsi realmente con qualsiasi delle due parti.
L’antirelativismo, al contrario, evita questo atteggiamento di disinteresse. Certo, prendere in considerazione seriamente l’opinione di entrambe le parti non significa trovare una soluzione per farle convivere in pace. Ma quel rispetto intellettuale di base è un buon inizio.
Non possiamo pensare di trovare una soluzione solida a un problema politico basandoci su presupposti filosofici incoerenti. Sottoposti a uno sforzo la loro inconsistenza ci lascerà privi di sostegno proprio nel momento del bisogno. Se trascuriamo la teorizzazione filosofica astratta, o non la eseguiamo in modo corretto, rischiamo di partire da presupposti filosofici errati senza rendercene conto.
Nel marzo 2003 gli Stati Uniti, sotto il presidente George W. Bush, e il Regno Unito, sotto il primo ministro Tony Blair, invasero l’Iraq e rovesciarono il regime di Saddam Hussein. La loro giustificazione era che fosse dotato di armi di distruzione di massa. L’affermazione si rivelò presto falsa. In un discorso tenuto nel 2004 in difesa delle proprie azioni, Tony Blair dichiarò: “So solo quel che credo”. Non aveva saputo che ci fossero armi di distruzione di massa, ma aveva saputo che lui credeva che ci fossero. Tentò di distogliere l’attenzione dalla questione delle prove verificabili che ci fossero armi di distruzione di massa alla questione della propria sincerità. Malgrado il suo disprezzo nei confronti del rifiuto francese di partecipare all’invasione, la sua autodifesa richiamava proprio un filosofo francese, Cartesio, secondo il quale la conoscenza è radicata nella conoscenza del proprio pensiero.
Per chiunque avesse dimestichezza con le difficoltà implicite nel progetto cartesiano di liberarsi grazie al pensiero dall’illusorietà della propria consapevolezza, l’affermazione di Blair fu un immediato campanello d’allarme. Per altri forse sembrò una dimostrazione di sincera integrità. Quando esigiamo spiegazioni dai politici è più pertinente chiedere se le loro azioni erano conformi con le prove esterne disponibili al momento piuttosto che con il loro punto di vista soggettivo basato su convinzioni e apparenze. Questa differenza è attualmente al centro degli animati scambi nell’ambito dell’epistemologia, la teoria della conoscenza, tra i cosiddetti esternalisti e internalisti su cosa giustifica le nostre convinzioni, se mai davvero esiste un tale elemento. Di certo non sorprende che la filosofia etica e politica influenzino la politica. I filosofi, per esempio, hanno svolto un ruolo centrale nello sviluppo dell’importante concetto dei diritti umani. Poiché tutta la conoscenza umana costituisce una vasta rete interconnessa, per quanto disordinata e allentata, dovrebbe essere ancor meno sorprendente che anche gli elementi più astratti e teorici abbiano ramificazioni politiche, per quanto sia assolutamente imprevedibile quando e come esse avvengano.

TRADUZIONE DI LUISA PIUSSI © RIPRODUZIONE RISERVATA

3 dicembre 2017

Realtà ed esistenza umana secondo Cronenberg: il mondo è informe e minaccioso, per questo ne vorremmo uno diverso, ma forse possiamo cambiarlo






Nel film eXistenZ di David Cronenberg (1999), che tratta di un gioco del futuro, al di là dell'intrincato gioco filmico nel quale lo spettatore finisce per perdere le tracce tra la realtà vera e quella virtuale, e al di là dei molteplici rimandi alle tematiche tipiche del regista (il corpo e le sue trasformazioni-mutazioni-guasti...), vi è una potente visione metafisica e un correlato corollario esistenziale.
Ad un certo punto della storia, mentre sta giocando insieme alla creatrice del gioco Allegra (Jennifer Jason Leigh) e sono entrambi immersi nella realtà virtuale, Ted (Jude Law) dice questa frase:

"Io non voglio stare qui... non mi piace qui. Non so che sta succedendo; procediamo improvvisando continuamente, in questo informe mondo le cui regole e obiettivi sono sconosciuti, apparentemente indecifrabili, per non dire che forse neppure esistono! … sempre sul punto di essere uccisi da forze di cui ignoriamo il senso..."

"E’ la descrizione precisa del mio gioco" dice Allegra. "E’ la descrizione di un gioco che non troverà un mercato!" risponde Ted. "Ma intanto lo stanno già giocando tutti" replica Allegra.

Nelle frasi di Ted viene espresso, a mio parere, il senso del film, che contiene una complessa tesi sul mondo e anche un'indicazione su come rapportarsi ad esso.

Parafrasando, si possono estrarre queste proposizioni:

1. Vorremmo vivere in un mondo diverso (o cambiare questo mondo). 
2. Siamo a disagio
3. Non sappiamo cosa succede (realmente) intorno a noi
4. Agiamo senza un progetto
5 Il mondo è informe, non ha struttura
6. Non conosciamo le regole e gli obiettivi presenti nella realtà
7. Regole e obiettivi del mondo sembrano indecifrabili
8. Abbiamo il dubbio se esistano regole e obiettivi nel mondo
9. Siamo in condizioni di insicurezza perenne
10. Siamo costantemente minacciati da forze misteriose

Le premesse (3 e 7) riguardanti l'incompletezza e l'incertezza delle nostre conoscenze riguardo al mondo portano a tesi secondarie (6 e 8) che esasperano le premesse sostenendo la nostra ignoranza totale riguardo al mondo e il dubbio se sia strutturato secondo regole e obiettivi, per arrivare poi alla tesi (5) della mancanza di struttura del mondo (Achille Varzi dovrebbe apprezzare questo film!), che unita alla premessa (10) sul nostro essere costantemente in pericolo porta poi alle tesi (4 e 9) sulla nostra condizione di estrema precarietà e incertezza pratica. Tutto ciò per sostenere un profondo disagio esistenziale (2) che sorregge infine la tesi principale (1): vorremmo essere in un mondo diverso e (implicita) forse possiamo provare a cambiare questo, almeno per quanto attiene alla sfera di nostra competenza, quella umana: una società più giusta e meno violenta.

Vorrei aggiungere che l'incompletezza e l'incertezza delle nostre conoscenze si può sostenere ragionevolmente sia sul piano scientifico (la fisica più scopre cose, più scopre quanto non sa ancora...) sia sul piano storico-giornalistico (basta pensare all'enorme intrico di misteri delle vicende italiane della Prima Repubblica...)
E che ci siano forze il cui senso rimane misterioso (o forse inesistente) che ci minacciano continuamente può valere sia riguardo alla natura (catastrofi terrestri, atmosferiche, meteorologiche, malattie incurabili) sia riguardo alla sfera umana (incidenti, terrorismo, guerre, criminalità comune  o organizzata...).

Naturalmente tutta la struttura argomentativa, le premesse e le tesi secondarie, sono discutibili e criticabili, e una discussione approfondita di tutto ciò tirerebbe in ballo molte cose, sia scientifiche sia filosofiche, e finirebbe per richiedere una risposta articolata e organica come un micro-sistema filosofico, ma io in questo momento mi limito a "sentirmi" molto affine a questa posizione, e la propongo all'attenzione dei lettori.


15 febbraio 2015

Modi della perfezione

Ripropongo un articolo di Franca D'Agostini uscito sul manifesto il 24 dicembre 2002. Contiene in nuce un importante tassello, sul versante della prassi individuale e collettiva, nella costellazione di pensieri che la filosofa torinese sta costruendo






La perfezione è di questa vita 
Un apologo medievale per ricordarci come l'annuncio della Buona Novella, che stanotte si celebra, dovrebbe comportare una rinnovata teoria della buona vita. E sebbene la nostra cultura difetti di ascesi, un legame di parentela lega gli antichi eremiti agli esteti tardo-moderni, devoti alla liturgia del jogging e della mela biologica: allora come ora, nulla si ottiene se non sacrificando se stessi al culto di se stessi
C'era una volta un eremita. Da più di venti anni viveva in una grotta alle soglie di una foresta. Rispettava gli animali e le piante, pregava Dio costantemente. Vicino alla grotta scorreva un ruscello, e ogni giorno, all'ora del pranzo, sull'acqua del ruscello arrivava galleggiando una mela. L'eremita la sbucciava, gettava le bucce nel torrente e la mangiava. E questo era il suo unico pasto. Passò molto tempo così. L'eremita sapeva che la sua vita era perfetta, e la sua vicinanza a Dio era sicura. Ma un giorno, chissà perché, fu preso dall'incertezza. Si svegliò, bevve l'acqua del ruscello e nell'alba gelida si inginocchiò a pregare sui sassi. Per quanto si sforzasse, però, non riusciva a pregare: non riusciva a creare nella sua mente il vuoto e il silenzio necessari perché vi entrassero l'immagine e la voce di Dio. I suoi occhi erano pieni di immagini, la sua mente era affollata di parole. Cominciò a sentire il calore del primo raggio di sole sul viso. Si gettò a terra, e ancora le immagini e le voci affollavano il suo pensiero e non riusciva a pensare a Dio. Dopo aver trascorso così le ore del mattino, si mise in viaggio. Camminò e camminò. All'imbrunire giunse in una radura dove viveva un altro eremita, proprio come lui. Questo eremita lo accolse con gioia e gli spiegò che amava Dio con tutte le sue forze, e tutto il giorno aveva il privilegio di dialogare con lui. Non aveva bisogno di nulla, disse, eppure Dio nella sua infinita e misteriosa misericordia gli dava un dono ogni giorno: ogni giorno sull'acqua del ruscello gli mandava le bucce e il torsolo di una mela, e questo era il suo cibo, in tutta la giornata. Il primo eremita non rispose, e si avviò in silenzio verso la città. Il secondo eremita non capì, e per tutta la notte si tormentò chiedendosi come avesse potuto offendere il suo fratello. Ma la mattina dopo, l'infinita misericordia di Dio lo consolò mandandogli sull'acqua del ruscello una mela intera. Non è un racconto di Natale, ma spiega in sintesi tutto quel che ci si può aspettare da una teoria della buona vita, o meglio della vita perfetta. D'altra parte, il Natale dovrebbe essere l'annuncio rinnovato della Buona Novella, e la Buona Novella dovrebbe comportare una nuova teoria della buona vita, della perfezione nel vivere. La consuetudine del buon proposito natalizio, anzi, è forse uno dei pochi elementi di coerenza delle attuali celebrazioni: perché il cristianesimo è stato, almeno su questo piano, una grande rivoluzione antropologica (purtroppo incompiuta: soprattutto nella sua richiesta di pace e fratellanza). Dunque vale forse la pena approfondire minimamente la questione: che cosa può essere ancora per noi una buona vita, o, se fosse possibile, una vita perfetta?
I medievali, che raccontavano l'exemplum dei due eremiti (in una forma non molto diversa da questa), lo intendevano come una illustrazione di quanto l'autocompiacimento e l'orgoglio possano recare danno alle conquiste dello spirito. Ma forse non sono l'orgoglio e la vuota vanagloria del primo eremita, a colpirci, nel racconto, quanto il ritornare di quella mela sulle acque del torrente, che riapre le condizioni dell'errore. L'idea che ci scoraggia, è l'idea che la perfezione sia un concetto vuoto, infinito, e negativo, ossia, in altre parole: la perfezione non si soddisfa di sé, e non ci può essere perfezione nella vita che sia anche perfezione nella coscienza.
La narrazione ci dice che una vita perfetta non è tale senza umiltà, ma l'umiltà è la considerazione della propria imperfezione, dunque un secondo insegnamento, più sottile, è che a una vita perfetta occorrerà non essere davvero perfetta, oppure - per dirla in termini dialettici - a una simile vita occorrerà disfarsi della coscienza della propria perfezione, per essere perfetta realmente. Sembra infatti che l'elemento di disturbo, nella santità quotidiana del primo eremita, sia stato l'aver preso coscienza della propria vicinanza a Dio, mentre la superiorità del secondo eremita risalta emblematicamente grazie alla sua incantata e cieca considerazione di Dio. Così troviamo un altro classico insegnamento: la perfezione nella vita sta nel distogliere lo sguardo da se stessi. La perfezione, in altri termini, non potrà essere perfettamente consapevole.
Abbiamo allora una prima soluzione: il secondo eremita sarà esente dall'errore - ancorché meno asceticamente perfetto dell'eventuale successivo eremita, collocato più avanti, lungo il corso del torrente - se e in quanto resterà immune dell'infezione della coscienza di sé. Ma non è vero forse che la perfezione non è di questo mondo? Non è vero forse che Dio - il Dio del Cristianesimo - non chiede la perfezione, ma l'abbandono alla grazia, e che questo vuole dirci il racconto? In un mondo in cui c'è gente che pensa al martirio come il segno di una vita perfetta, e perfettamente compiuta; gente che sventuratamente ha qualche ragione storica e culturale per immaginare tali perfezioni, forse non ci si può accontentare di questo. E conviene ricordare che la tradizione ha snaturato il concetto cristiano di perfezione, esaltandone il momento generico (ama et fac quod vis), e dimenticandone l'esattezza, paradossale, ma inequivocabile. Anzitutto, la perfezione, se non altro nella sua domanda o nel suo problema, deve poter essere di questo mondo (se no non si capisce di quale mondo dovrebbe essere: quale parametro di perfezione potrà darsi in un altrove, se mai eterno infinito e già compiuto? Perché, in un simile altrove, dovrebbe porsi il problema della perfezione?) E a questo scopo, la tradizione filosofica ha elaborato a lungo idee di perfezione meno spaventose, e adattabilissime agli umani: l'idea della perfezione nel proprio genere, o secondo lo scopo, o come compiutezza, o completezza ontologica (un essere tanto più reale quanto più perfetto).
Solo apparentemente stravagante era la tesi di Leibniz: che la perfezione consistesse nell'arte della brevità, nella capacità di scoprire pochi pensieri entro i quali racchiudere tutti i pensieri possibili. L'argomento leibniziano era più o meno questo, e si sarà sorpresi nel vedere quanto ci è vicino. La felicità, anzi la somma felicità dell'uomo consiste nell'essere perfetto, e "nella sua perfezione accresciuta quanto più è possibile", ci dice Leibniz; ora la perfezione è una specie di sovrappiù di salute. "Come la malattia consiste in una lesione delle nostre facoltà, così la perfezione consiste nell'aumento della potenza".
Ma c'è da prestare attenzione a questo passaggio. Nietzsche, afflitto da una madre salutista, interpretava il precetto letteralmente, o comunque in una chiave e con intonazioni sospette di socialdarwinismo. L'idea di Leibniz però nascondeva una precisazione: la facoltà che è in gioco in ogni disquisire sulla malattia e la salute è in verità il pensiero. I criteri di valutazione della salute umana non sono la forza e la prestanza del corpo, ma la "vis cogitandi".
Diligentemente Leibniz ci spiega che per accrescere la vis cogitandi abbiamo rimedi fisici, che agiscono direttamente sui nostri organi, e "per mezzo dei quali si scaccia il torpore, si rinsalda l'immaginazione, e si acuiscono i sensi". Ma non basta: abbiamo anche rimedi che agiscono direttamente sulla mente, e tali rimedi "consistono in certi modi di pensare, per mezzo dei quali si rendono più agevoli altri pensieri". E tra tutti, una specie di miracoloso allucinogeno del pensiero è ciò che chiameremmo una terapia abbreviativa: "il massimo rimedio per la mente consiste nella possibilità di scoprire pochi pensieri dai quali scaturiscano in ordine altri infiniti pensieri".
Forse si trattava di sposare troppo prontamente la causa dell'intelletto, e come ogni ipotesi iperbolica anche questa idea leibniziana di perfezione (peraltro elaborata in un frammento incompiuto, De Organo sive arte magna cogitandi), ha molti punti deboli ed eccepibili. Come si concilia il precetto di accrescere la vis cogitandi, con quello di diminuire la forza della coscienza, allo scopo di ottenere una più adeguata perfezione del vivere? Qui la grande tradizione dell'anti-intellettualismo esulta: a quanto sembra, è un eccesso di vis cogitandi che contamina la vita dello spirito; la dialettica della perfezione infatti, esposta in sintesi nel racconto dei due eremiti, ci dice che non c'è perfezione umana che debba-possa essere coscientemente completa, pena il ricadere nel sommamente imperfetto; dunque gli avvocati dell'intelletto, e della forza del pensiero, si contraddicono miseramente.
Ma la difficoltà è minima, e aggirabile senza sforzo, se si ricorda che quel che in Leibniz è puro intelletto, diventerà ragione in Hegel: e la differenza tra il primo e la seconda, è che il primo resta fermo alla perfezione come dato di un pensiero singolo, di una sola vita, di un singolo corpo; la seconda, invece, è l'idea che sola mancava al cristianesimo per diventare filosofia, ossia l'idea che in gioco non è mai la perfezione di un singolo, di un solo pensiero, ma piuttosto di un insieme che va in ogni epoca costituendosi. Solo rispetto alla ragione come insieme dei pensieri possibili si dà perfezione, e forza (o eventualmente debolezza) del pensiero. Il giovane Hegel, nella Vita di Gesù, fresco di colloqui rivoluzionari e teologici con Hölderlin, rileggerà tutto il Vangelo, sistematicamente sostituendo ragione tutte le volte che si parlava di anima, o di scintilla divina.
Allora è vero che la coscienza individuale della propria individuale perfezione contamina e snatura la perfezione stessa, rendendola imperfetta: ma questa coscienza, ossia questa visione di sé come individui isolati, migliori o peggiori degli altri singoli individui, non è pensiero. Quando il valore degli altri spaventa, come accade all'eremita che incontra il secondo eremita, è perché si guarda ad essi dal punto di vista di quel che il giovane Hegel scopre essere il Maligno: il volto di Dio, colto nello spavento e nella solitudine senza Dio, ovvero: nella chiusura dell'individualità "orgogliosa" non psicologicamente, ma nella sua costituzione spirituale.
Al di là di questo, che è ancora in gran parte nelle nostre speranze (ed è molto lontano da questa fase della storia dell'occidente), una connessione inaspettata tra l'intellettualismo di Leibniz e la vicenda dei due eremiti è ciò che rende le due visioni di una vita perfetta per noi immediatamente emblematiche.
Si tratta di un'idea di semplificazione, di riduzione di complessità. L'ars brevis, o meglio la terapia della semplificazione, è ciò che sistematicamente insegue la vita complicata dell'occidente tardo-moderno. Leibniz ci dice: trovate il modo di individuare pochi pensieri sufficientemente ampi da pensare insieme ad essi la totalità dei pensieri possibili. Un consiglio apparentemente ingenuo, ma che ha ancora molto da dirci. È innegabile infatti che l'idea di complessità, vantato principio anti-riduzionistico degli anni Sessanta, non ha più alcuna forza eversiva e innovativa, essendo diventata un fatto delle strutture e delle istituzioni. Una scienza ipercomplessa fronteggia oggi disarmati individui alla perenne ricerca di strategie di semplificazione. Al tempo stesso, l'universo ci risulta enormemente ridotto nei tempi e nei modi, le lingue e i pensieri globalizzati hanno dismesso ogni differenza e intensità. Infine, paradossalmente, i profeti della semplicità oggi sono coloro che detengono e orientano la produzione di sovrappiù. Insomma, sappiamo che c'è un dissesto, nella nostra cultura e nella nostra vita, e che tale dissesto riguarda proprio il gioco dinamico del semplice e del complesso, dei pochi pensieri che racchiudono infiniti pensieri (come non ricordare che proprio la logica, erede dell'ars brevis, ossia della mnemotecnica medievale, è all'origine di quella esplosione economico-commerciale e culturale che è il mondo informatizzato), delle troppe cose che circondano vite alla disperata ricerca (più o meno consapevole) di qualche semplicità da eremiti medievali.
E arriviamo così all'ultimo passo di questo percorso. C'è evidentemente un difetto di ascesi nella nostra cultura, ma sarebbe sbagliato contrapporre le grotte e le foreste del medioevo agli eccessi del presente consumistico. Al contrario, non è difficile in fondo vedere nel primo eremita la versione antica e nobile di un perfezionismo da esteti tardo-moderni, di quell'anoressia metropolitana che incomincia con il jogging in central park, e con la mela - biologica - sbocconcellata prima di andare al lavoro, ripuliti dalla pratica devozionale di doccia-e-ginnastica. Anche l'esteta tardo-moderno sa che nulla si ottiene, nello spirito e nel portafoglio, se non si sacrifica se stessi al culto di se stessi. Anche un simile esteta valuterà scoraggiato, prima o dopo, la liturgia delle proprie scarpe da ginnastica. Certo, gli eremiti contemporanei vivono in isole costruite all'interno delle città; non ci sarà un altrove in cui fuggire, per consumare lo sconforto del proprio fallimento, e difficilmente ci sarà la provvidenza enigmatica del torrente. Le vite in questione, più che afflitte dalla coscienza di sé, restano ancora troppo stipate di cose, anche soltanto per vedere o avvertire la propria inquietudine.
Ma si dovrebbe leggere il racconto, credo, per quel che ci è prossimo, e non per la sua distanza. In particolare, bisognerebbe leggerlo come un richiamo alla verità violata della nostra cultura, che è sorta narrativamente dalla divinizzazione del povero e del poco, e logicamente dal paradosso diventato regola e verità (il Dio fatto uomo, la redenzione della carne, la vita che ritorna dalla morte, e infine i due grandi ossimori del cristianesimo: la gloria della croce, e il potere dell'amore), salvo poi prontamente dimenticare l'una e l'altro, la povertà e il paradosso, che, rispettivamente, costituivano il suo mythos e il suo logos. La storia dei due eremiti potrà apparire allora come la storia di due vite perfette, tanto la prima quanto la seconda: la prima, per quello a cui rinuncia, e la seconda per la sfida che la aspetta.

4 gennaio 2015

Breve storia della ragione nell'Ottocento e nel Novecento: democratizzazione, nichilismo, totalitarismi, "crisi della ragione", postmodernismo, trivialismo, ritorno alla filosofia





Avvertenza
Questo post è una personale e parziale ricostruzione sintetica, a scopo didattico, del capitolo 4 di Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri 2013) di Franca D'Agostini, con ampie citazioni (a margini rientrati) dal testo originale.
La sintesi non è stata approvata dall'autrice del libro, quindi me ne assumo interamente la responsabilità.
In fondo al post ho aggiunto, in grassetto, il sommario del capitolo 4 scritto dall'autrice (pubblicato nel blog Filosofia pubblica), che dà un'idea di quanto il mio percorso ricostruttivo si discosti dall'impostazione del testo originale.
G.N.



La filosofia «guida – ha guidato – la specie umana cercando di promuoverne (con incerto successo) il lungo e tortuoso percorso verso la democratizzazione».
    Dopo «le lunghe pause della teocrazia medievale e dell’oligarchia moderna», l’Ottocento è il secolo nel quale si riprende il processo di democratizzazione. 
L’Ottocento è il primo secolo in cui il demos (non più i condottieri, i principi, i papi, i re, gli stessi philosophes), diventa (o inizia a diventare) ufficialmente il protagonista della storia. (Circostanza non da poco per la filosofia; specie se si riconosce il profondo e inestricabile legame che lega la filosofia alla democrazia.)
Ma l’Ottocento è anche il secolo nel quale (nella seconda metà) la cultura europea conosce il fenomeno del nichilismo: un generale essere contro (ogni autorità, ogni principio) e decretare la fine della verità e di ogni valore. Nietzsche registra questo fenomeno e teorizza il cosiddetto “nichilismo affermativo”: il nichilismo non doveva essere vissuto negativamente,
bensì come l’inizio di qualcosa di totalmente nuovo, o anzi come “mezzogiorno dell’umanità”; perché avrebbe comportato il definitivo “tramonto degli idoli”, e pertanto la definitiva liberazione dalle logiche teocratiche perverse (Religione, Scienza) che avevano dominato il pensiero “moral-metafisico” dell’Occidente.
Ma perché questa coincidenza di grande democratizzazione e nichilismo? Perché il nichilismo? 
La risposta dei critici del nichilismo dal punto di vista della religione è che la democratizzazione comporta l’immanentismo o anche la cosiddetta secolarizzazione, e con l’immanenza e il “disincanto”, l’umanità perde la fiducia nella realtà e nella verità (e nei relativi concetti, che la tarda modernità interpreta come voci della trascendenza; mentre è ovvio che sono invece le voci proprie dell’immanenza, del qui e ora).
    Mi sembra più utile però adottare un’altra spiegazione, meno grandiosa forse, ma che ai miei occhi ha il merito di essere più concreta, e legata alle condizioni empiriche ed effettive di esercizio e propagazione delle conoscenze.
    L’Ottocento non è soltanto l’epoca della vera e ufficiale «uscita di minorità» degli individui della specie umana, è anche l’epoca della specializzazione scientifica, e l’epoca in cui inizia una “crisi” non dei grands récits, ma piuttosto della filosofia, ovvero il meta-grand récit che accompagna la cultura occidentale. A mano a mano, le diverse scienze (la logica, la psicologia, l’antropologia ecc.) si emancipano dal corpus centrale dell’enciclopedia filosofica, e diventano saperi settoriali, sempre più raffinati e specializzati. […] Quale era il problema dunque? Semplice: proprio nell’epoca in cui la coscienza individuale veniva investita per la prima volta di grandi diritti e grandi libertà sociali e politiche, ecco che gli individui venivano privati della capacità e del diritto di usare i concetti di realtà, verità, bene. La complessità dei saperi metteva l’uso di tali concetti nelle mani degli esperti settoriali, e dei tecnici. Le sintesi orientative (grandi narrazioni?) che avevano guidato i saperi nell’epoca precedente risultavano sempre meno praticabili.
    Nel corso del Novecento, lo sviluppo dei media generava una crescita oggettiva delle possibilità di falsificazione e inganno. Se dispongo dei mezzi di comunicazione (radio-televisione) posso in breve tempo ingannare una quantità incredibile di persone, facendo loro credere vero ciò che è falso, reale ciò che non esiste, giusto ciò che è ingiusto. Di qui i totalitarismi novecenteschi, resi possibili e garantiti dal controllo dei media.
I totalitarismi riescono a rilanciare le “grandi narrazioni”, che indirizzano le masse ma attraverso strumenti di manipolazione e diffusione del falso.
A partire dal secondo dopoguerra, quando le grandi manipolazioni totalitarie si rivelano come tali, tutto ciò diventa ampiamente noto. La quantità di letteratura, filosofica e non, sui rischi della specializzazione e il perverso progredire della civiltà mediatica, cresce in modo esponenziale. Si diffondono allora le teorie della “crisi della ragione”.
Lyotard definisce nel 1979 “postmoderno” l’epoca della crisi delle grandi narrazioni. Per definire un po’ meglio la tesi di Lyotard utilizzo in questo paragrafo stralci da un altro testo di Franca D’Agostini: Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza. Dieci lezioni sulla filosofia contemporanea (Carocci, Roma 2005). «Il postmodernismo è stato (è tuttora?) una teoria descrittiva dello stato della teoria in generale. Tale descrizione […] stabiliva il seguente assunto: “Non è (più) possibile formulare teorie né metateorie globali, siano esse concepite con funzioni di legittimazione o di descrizione, come supporti mitici o come fondamenti teoretici”. Si presentava dunque una metateoria o descrizione globale che dichiarava l’impossibilità delle metateorie o descrizioni (o narrazioni) globali.». Al di là del fatto che apparentemente si tratta di una contraddizione, «quali erano le ragioni effettive e i dati di fatto su cui poggiava la metateoria postmodernista? […] Non è possibile qui esaminare in dettaglio tutte le ragioni del declino della teoremi nelle filosofie europee del Novecento: sicuramente alla base di tutto esistevano ragioni pratiche ed etico-morali (per esempio la “trionfale sventura” che dall’Illuminismo aveva portato ai campi di sterminio, secondo Adorno e Horkheimer), e ragioni metafisiche (l’idea dell’incompletezza della ragion teoretica, derivata da Kant). Ma sinteticamente, e per mantenersi a un piano esclusivamente teoretico, le ragioni di fondo del postmodernismo erano precisamente quelle stesse ragioni che la sintesi del pensiero debole traeva dalla tradizione fenomenologia ed esistenzial-ermeneutica, e da Nietzsche, ossia i due assunti [A: Diverse tesi su un medesimo oggetto possono essere simultaneamente vere; B: Una tesi non esaurisce mai tutta la verità del suo oggetto.]» (p. 199-201)
    Negli anni Ottanta si diffonde una pratica culturale, che si può definire “postmodernismo”, la quale intende la “fine delle grandi narrazioni” come fine dei “discorsi legittimanti” (le giustificazioni collettivamente valide), si caratterizza come critica dell’immagine della scienza e del sapere trasmessa dalla modernità illuministica e si manifesta in forme di relativismo e antirazionalismo espresse con uno stile confuso e deteriore («confusione di teoria e metateoria, di questioni metafisiche e metodologiche; uso impazzito di strawmen, letture chiuse ed estrapolazioni, semplificazioni e altre fallacie.»). Si crea, in pratica, una nuova «grande narrazione legittimante qualunque insensatezza»: è il “grande massacro” postmodernista, “un relativismo cognitivo e culturale che considera la scienza alla stregua di una narrazione, di un mito, o di una costruzione sociale tra le altre” [A. D. Sokal e J. Bricmont, Imposture intellettuali. Quale deve essere il rapporto tra filosofia e scienza? Garzanti, Milano 1999 (ed. or. 1997), p. 15.]
     Ma il dato veramente devastante del postmodernismo non è l’antirealismo (una conseguenza trascurabile, ammesso che qualcuno l’abbia mai veramente sostenuto), bensì il trivialismo,
ossia il tutto è vero, tutto va bene, legittimato dalla fine dei discorsi legittimanti. […] Di qui la “bancarotta intellettuale ed etica della laissez faire postmoderno”, come scriveva Christopher Norris in Against Relativism» (Blackwell, Malden 1997).

Che fosse in atto una “crisi della ragione” era già stato segnalato come problema verso la metà del Novecento, già ben prima di Lyotard, sia da filosofi antilluministi sia da neoilluministi:
i primi assegnandone la colpa alla ragione stessa, i secondi riconoscendo come responsabile la cultura di massa e la conseguente volgarizzazione delle idee prodotte dai media. Il Postmodernismo fu, in breve, la versione “affermativa” di queste teorie della crisi, e cioè l’idea che la crisi in questione costituisse in realtà un bene, perché liberava il linguaggio e il pensiero dai vincoli della Storia, della Scienza, della Religione, ed eventualmente liberava l’arte l’architettura la letteratura da quella serie di vie obbligate che avevano costituito lo stanco canone occidentale.
Nietzsche, con la sua teoria del “nichilismo affermativo”, sembrava aver detto qualcosa di molto simile.
Ricordiamo però che in Nietzsche (e in Bazarov, e nei giovani decadenti e/o rivoluzionari dell’Ottocento) il nichilismo non era antirealismo, ma piuttosto un anti generalizzato: fine della verità, fine dei valori, fine del platonismo, della logica, della grammatica, della filosofia… […] Non era sbagliato, credo, collegare il nichilismo «affermativo» di Nietzsche, e la sua diagnosi circa la “mutazione antropologica”, al postmodernismo. Specialmente perché nella versione affermativo-energetica il nichilista che piaceva a Nietzsche non era il rivoluzionario distruttore di tutti i valori – figura tipicamente ottocentesca – ma piuttosto il personaggio successivo, lo spirito libero, emancipato dalla “tirannia dei valori”, e perciò profeta della “scienza che danza con piedi leggeri” (una formula nietzscheana che sarebbe piaciuta molto a Paul Feyerabend, maestro dell’antimetodologismo postmoderno). Ed era questa una figura che si adattava piuttosto bene a ritrarre l’umanità nelle democrazie occidentali, viziata dalla società del benessere e del boom economico. Se l’Ottocento pensa effettivamente ancora in termini di antirealismo (o anti in generale), il Novecento (specie quello del secondo dopoguerra) pensa in termini di iperrealismo; le formule “tutto vero”, “tutto reale”, “tutto presente” si sostituiscono lentamente a “niente verità”, “niente realtà”, “tutto assente”. Una specie di Protagora iperrelativista prendeva il posto del Gorgia annientatore dell’essere, del vero, del conoscibile. […] In parte, ci troviamo ancora in questa situazione. I nuovi mezzi tecnici di circolazione della conoscenza danno certo nuova fiducia alla coscienza individuale, circa la propria capacità di determinare ciò che è vero, reale, giusto; ma creano anche grande rumore, e confusione, e conflitti di affidabilità. Se il trivialismo postmodernista era un fatto, o uno “stato dei saperi”, come diceva Lyotard, nel 1979, in buona parte lo è ancora. D’altra parte, la risposta al neotrivialismo postpostmoderno si esprime ancora esattamente nei modi tardomoderni. Il caos democratico ancora oggi si corregge con i tecnici, gli specialisti di economia, di scienze sociali, anche eventualmente con i tecnici-filosofi (in definitiva è quel che cerco di fare io stessa)
e qui Franca D’Agostini rimanda al suo discorso sulla normalizzazione della filosofia.
    Oggi c’è all’orizzonte qualcosa di nuovo? Nell’ultima sezione del Capitolo 4, dal titolo Dal trivialismo postmoderno alla “riellenizzazione della ragione” Franca D’Agostini spiega in che senso secondo lei vi è oggi la possibilità di un ritorno alla filosofia, alla “buona filosofia” nel suo originario spirito socratico. Nel secondo Novecento, in particolare verso la metà degli anni Settanta, inizia il processo
che porta al lento affermarsi del nuovo universalismo che caratterizza la globalizzazione, e dunque al venir meno del potere oligarchico delle ideologie, delle menzogne organizzate e delle simulazioni dottrinali. Con la crescita dell’informazione, cresce il rumore, ma cresce anche la possibilità di critica e smascheramento del falso.
Qui si può inserire il riaffiorare della filosofia. Rileggendo la lyotardiana “fine delle grandi narrazioni” non come trivialismo ma come
fine (o lento sfiorire) delle Weltanschauungen, come direbbero i neokantiani. Di fronte all’emergere effettivo del mondo globalizzato, le visioni del mondo impallidiscono e rivelano la loro rigida e falsificante astrattezza. È a questo punto che dovrebbe affiorare la filosofia. Non la filosofia come scienza o disciplina accademica; piuttosto, quel modello di razionalità non religioso né scientifico (nel significato “moderno” del termine) che da Aristotele a Hegel ha descritto se stesso come filosofia. E si tratta, in pratica, del pensiero critico, discussivo, attento alle funzioni del vero-reale-giusto, che Socrate opponeva al narcisismo e al formalismo dei sofisti (e che i filosofi dovrebbero contribuire a rinnovare e a mettere a punto, se fossero disposti ad accantonare il proprio narcisismo e/o formalismo di oligarchi del pensiero).
(Al termine di questo passaggio stava una importante nota, espunta dall’edizione a stampa, che ho potuto leggere per gentile concessione dell’autrice (corsivo mio): «Secondo me la filosofia come scienza o disciplina accademica dovrebbe essere ridotta e «normalizzata», mentre la filosofia come ipotesi antropologica, ossia il modo in cui gli esseri umani potrebbero-dovrebbero essere, dovrebbe essere difesa e diffusa.»)
    Si tratterebbe insomma di un più autentico postpostmodernismo non accecato dalla diffidenza (di origine nietzscheana) verso la parola “filosofia”.


Cap. 4 – Staccate la spina del postmodernismo!
Il fatto più sorprendente del “nuovo realismo” (specie nella versione italiana) è
che il bersaglio polemico principale resta il postmodernismo (PM): una creatura
che sembrava già agonizzante negli anni Novanta dello scorso secolo. Non si vede
bene a quale scopo accanirsi contro i morenti; ma soprattutto ci chiediamo: perché
l’agonia del PM dura così a lungo?
La risposta è piuttosto semplice. Il problema rappresentato dal postmodernismo
(PM) non è stato l’eventuale antirealismo e relativismo dei suoi sostenitori, ma –
come sostenevano Sokal e Bricmont in Imposture intellettuali – un metodo di
argomentazione e uno stile di lavoro che ha come sbocco l’impostura intellettuale,
vale a dire il ragionare e argomentare senza interesse per la verità, i fatti, la
razionalità. Chiamo questo stile argomentativo trivialismo metodologico (anything
goes), che equivale in ultimo a credere che tutto sia ‘vero’, e comportarsi di
conseguenza. Naturalmente, se tutto è vero è vero anche che niente è vero e che
qualcosa non è vero. Ne segue che l’impostura si può applicare a qualsiasi
contenuto, anche eventualmente all’anti-impostura. Abbiamo dunque il post-PM,
che procede con metodi PM alla critica del PM. E naturalmente avremo il PPPM,
che affronterà con metodi PM la critica del PPM… Ecco spiegata la lunga agonia
del PM.

1 gennaio 2015

"Non ci sono fatti, solo interpretazioni": cosa voleva dire Nietzsche? Su alcuni aspetti della frattura Analitici vs Continentali





Avvertenza
Questo post è una personale e parziale ricostruzione sintetica, a scopo didattico, del capitolo 1 di Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri 2013) di Franca D'Agostini.
La sintesi non è stata approvata dall'autrice del libro, quindi me ne assumo interamente la responsabilità.
In fondo al post aggiungo, in grassetto, il sommario del capitolo 1 scritto dall'autrice (pubblicato nel blog Filosofia pubblica), che dà un'idea di quanto il mio percorso ricostruttivo si discosti dal testo originale.
G.N.
Altri post che proseguono questa serie:
Il saggio originale, in versione integrale, in cui recensivo il libro della D'Agostini è scaricabile in questo post:


La famosa frase di Nietzsche “Non ci sono fatti, solo interpretazioni” è stata, ed è tuttora, spesso fraintesa. Il fraintendimento tipico è quello di intenderla come un’affermazione ontologica (sulla realtà, sull’essere), cioè intenderla come se dicesse “la realtà non esiste” (ma intesa così sarebbe insensata e autocontraddittoria). Altro errore tipico è quello di intenderla come formula riassuntiva dell’ermeneutica (la corrente filosofica che mette al centro dell’attenzione il tema dell’interpretazione e che trova espressione canonica nel pensiero di Gadamer, Ricoeur e Pareyson: ma nessuno di questi autori ha mai ripreso l’asserto nietzscheano). Sulla base di queste errate letture, si è a lungo polemizzato contro il presunto anti-realismo espresso in quella frase e contro l’ermeneutica come se fosse una scuola filosofica anti-realista, negatrice dell’esistenza del reale, a volte argomentando che i veri fatti a nostra disposizione sono i fatti non interpretati. Ma anche quest’ultima tesi è scorretta, perché nel momento in cui vogliamo utilizzare i fatti per sostenere una tesi o una teoria li dobbiamo necessariamente interpretare:

è semplicemente ovvio che tutti sempre e costantemente interpretiamo, anche gli scienziati duri e puri lo fanno, esattamente come tutti e sempre tocchiamo e sentiamo, e urtiamo contro fatti più o meno soffici.

Tutta la polemica si riduce a zero se ammettiamo che ci sono diversi tipi di fatti (cfr. § 9.), più o meno “duri” (cioè incontrovertibili, indiscutibili), e quando discutiamo perlopiù non parliamo di fatti, ma di interpretazioni, cioè descrizioni interessate di fatti: abbiamo degli interessi, nel descrivere la realtà, e questi interessi hanno un ruolo importante nel determinare le nostre ricostruzioni dei fatti, soprattutto quando discutiamo con altri che hanno interessi diversi dai nostri.
Fra i responsabili dei fraintendimenti della frase nietzscheana possiamo indicare due autori: Richard Rorty e Maurizio Ferraris. Rorty (filosofo americano) ha avuto il merito di segnalare ai filosofi di area anglo-americana la presenza di un problema importante nella filosofia contemporanea: la cesura tra filosofia “analitica” e filosofia “continentale”. Si trattava (e in parte si tratta ancor oggi) di una frattura fra due modi diversi di intendere la filosofia, che provocava un notevole dissesto nell’assetto complessivo della disciplina. La tradizione analitica (in lingua inglese) procedeva con stile rigoroso, attento alla chiarezza e alla validità logica delle argomentazioni, teneva conto dei risultati della scienza, ma era scettica rispetto agli usi pubblici della filosofia e tendeva alla specializzazione e alla chiusura nel mondo accademico. La tradizione continentale (in lingua francese, tedesca, italiana ecc.) aveva invece uno stile libero, attento all’efficacia retorica e alla semplificazione necessaria per misurarsi con i media, era interessata alla politica e alla vita pubblica ma era in generale avversa o indifferente verso la scienza. Rorty, con l’intento di mettere in comunicazione le due tradizioni, introdusse nell’ambiente analitico una ricostruzione sommaria dell’ermeneutica (una fra le correnti principali della tradizione continentale) rendendone involontariamente confusa l’immagine e dando luogo a una sostanziale incomprensione di quanto di buono contenesse. Contribuì in questo modo a determinare un dibattito falsato intorno alla presunta dicotomia fatti/interpretazioni.
Ma cosa intendeva veramente dire Nietzsche, quando scriveva “non ci sono fatti, solo interpretazioni”? L’affermazione va interpretata (!): contestualizzata, è espressione del nichilismo tardo-ottocentesco. Riassume la situazione in cui si trovava la cultura europea di quell’epoca: una progressiva democratizzazione che coincideva con uno sviluppo esplosivo delle scienze, sviluppo che significava specializzazione dei saperi e conseguente impossibilità di padroneggiare con una sintesi orientativa la realtà e la conoscenza; la formula sta quindi per qualcosa come: non è più possibile una visione unica, diretta, semplice e chiara della realtà, ma siamo costretti a fare i conti con una pluralità di prospettive, punti di vista, saperi diversi e contrastanti fra loro.
     Questa idea di Nietzsche venne poi ripresa e interpretata da Vattimo e Rovatti, che lanciarono nel 1983 il cosiddetto “pensiero debole”. Anche su questa posizione filosofica si è creato un fraintendimento, infatti la si è spesso interpretata come una posizione metafisica (anche qui un presunto anti-realismo contro cui polemizzare), mentre in realtà era una posizione metodologica o metateorica, interpretabile come una variante del falsificazionismo di Popper e riassumibile, semplificando molto, nella tesi secondo la quale quando discutiamo e ragioniamo dobbiamo ammettere sempre che la nostra posizione potrebbe essere rivista e migliorata. Anche questa tesi va compresa nel suo contesto. Si trattava della volontà di intervenire nella situazione di crisi delle politiche ispirate a ideologie forti (come il marxismo), crisi che corrispondeva, in Italia, all’avvio di politiche di compromesso contro le quali si scagliavano reazioni terroristiche; tale situazione veniva interpretata da alcuni filosofi (per esempio Gargani e Viano) come “crisi della ragione”, mentre Vattimo e Rovatti intendevano rilanciare la filosofia (la ragione) indebolendone però le pretese di accesso semplice, diretto e completo alla verità e alla realtà.


Cap. 1 – Fatti e interpretazioni, o fraintendimenti e falsificazioni?
La distinzione fatti/interpretazioni non ha alcun rilievo ontologico. Se serve a
qualcosa, serve a chiarire che quando si discute non si discute più di fatti-fatti, per
esempio il fatto che hai rubato dieci monete nelle tasche di Jones; ma di fatti-interpretazioni
(o ricostruzioni, o versioni dei fatti): per esempio il fatto che tu dici
che non l’hai rubate, e Jones invece ti accusa di averlo fatto. È dunque una
distinzione che ha un carattere meta-teorico, disciplina la discussione sulla realtà,
non è una teoria della realtà.
La confusione sul tema si deve al successo di uno stile rortyano (e
nietzscheano) in filosofia, la cui caratteristica primaria consiste nello scambiare
asserzioni metateoriche e metodologiche per asserzioni metafisiche (ma Rorty non
è stato l’unico responsabile), e su questa base creare finte polarizzazioni: es.
difensori dei fatti contro difensori delle interpretazioni (ovvio che entrambi
difendono cose che non sono contrapposte, né hanno alcun bisogno di venir difese).

10 luglio 2014

La vera «questione controversa»: la metafisica. Riflessioni sull'ultimo libro di Franca D'Agostini




La vera questione non è se la realtà esista o no, né se sia modificabile da noi solo in parte o totalmente (come sembrerebbero pensare i sostenitori del "Nuovo Realismo"). La vera questione è: com'è fatta la realtà? È ordinata? Ha senso? Ha valore in sé? È solo la scienza che può rispondere a queste domande o anche la filosofia, accanto e insieme alla scienza, ha voce in capitolo? Dalla visione scientifica della realtà cosa emerge? Emerge un senso, un valore delle cose? La visione scientifica della realtà è unitaria o no? È compito della filosofia collegare le varie parti della scienza o è la scienza stessa a doverlo fare?

Questa tesi (le domande le ho riformulate e sviluppate a modo mio) si può trovare nell'ultimo libro di Franca D'Agostini: Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri, Torino 2013), una tesi molto tagliente sul versante della stroncatura del "Nuovo Realismo" marcato Ferraris («chi si professa realista in quanto contrapposto agli antirealisti non sta professando nulla, e non sta dicendo niente di rilevante»), ma molto aperta e per nulla conclusiva sul versante della proposta teorica. Si tratta infatti, direi, dell'impostazione di un "programma di ricerca", sulla base sia di una ridefinizione radicale del "realismo" sia dell'individuazione di alcune prospettive logico-metafisiche contemporanee particolarmente feconde (Armstrong, Lewis, Priest).

Ricostruisco una parte del discorso. 
Nell'Introduzione D'Agostini, per fare luce sulla falsa questione del realismo, esamina le posizioni di coloro a cui viene erroneamente attribuito l'"antirealismo" e in particolare esamina la convinzione che i concetti di verità e realtà «siano concetti dogmatici, caratteristici di strutture d'autorità, come la Chiesa o la Scienza» e rileva alla base di questa convinzione due ragioni:
1) «vediamo la realtà solo filtrata attraverso l'esperienza che ne abbiamo, dunque ciò con cui abbiamo a che fare non è propriamente la realtà "in sé"»
2) nelle discussioni fare appello alla realtà o alla verità può essere un modo autoritario per troncare ogni argomento.
«Le due ragioni sono evidentemente connesse, e abbiamo così la conclusione: non ho accesso alla realtà, dunque se dico "le cose stanno così" sono un pericoloso dogmatico, oppure (che è lo stesso) mi fido ciecamente della Scienza, o di altre autorità istituite.» Le due ragioni vengono entrambe smontate:
1) «è vero che vediamo la realtà filtrata dall'esperienza, ma quel che vediamo è comunque la realtà» (su questo punto rimando, in questo blog, alla mia sintesi di Introduzione alla verità, dove si evidenzia il ruolo che una corretta interpretazione della filosofia di Kant svolge nel pensiero di D'Agostini: l'in sé non è inaccessibile)
2) «Le funzioni concettuali associate alle parole verità e realtà sono funzioni inferenziali e discussive, che non hanno di per sé stesse né colpe né meriti: servono per ragionare e argomentare, e possono essere usate bene o male.»
Queste sono quindi le risposte che andavano (vanno) date a chi proponeva (propone) un attacco ai concetti di verità e realtà (per esempio Vattimo): non la tesi "la realtà esiste" (magari dimostrata con argomenti complessi come l'Argomento della Ciabatta... si veda M. Ferraris, Inemendabilità, ontologia, realtà sociale).
Il problema non è difendere la realtà, dice D'Agostini, «ma piuttosto difendere la possibilità della metafisica: ossia la possibilità di parlare della realtà in termini non vincolati alle sole scienze empiriche o ad altri settori scientifici determinati» (si badi: "non vincolati alle sole scienze" significa che comunque delle scienze si deve tenere conto! Ferraris, invece, con la sua "ipotesi della mesoscopia", mette sostanzialmente fuori gioco, ritenendole irrilevanti dal punto di vista metafisico, le scienze – la fisica in primo luogo –. Scrive infatti, nel saggio sopra indicato: «Il mondo è pieno di cose di taglia media, né troppo grandi, né troppo piccole [...] le cose che si presentano come fenomeni sono definite per l’appunto da una taglia mesoscopica: non ci sono fenomeni troppo grandi o troppo piccoli. Questo lo aveva riconosciuto bene proprio Kant, che sottolineava che il colossale, ciò che è troppo grande per la rappresentazione, esorbita dalla sfera del fenomenico e riguarda piuttosto l’ambito del sublime. Nella stessa linea di considerazioni, Kant aveva anche osservato che il mondo, come totalità di tutto ciò che c’è, non è un fenomeno, bensì una idea della ragione, insieme all’anima e a Dio. [...] L’uso combinato di una ecologia e di una fenomenologia realistica definisce la sfera della ontologia, e permette una vistosa differenziazione rispetto alla epistemologia. Il problema fisico è grande o piccolo, quello ontologico è medio. L’ontologia ci interessa se ci sta a cuore un mondo mesoscopico, per il microscopico e il macroscopico va benissimo la fisica, anzi, sarebbe assurdo voler ricorrere a qualche altro tipo di approccio. Ma è del tutto ovvio che un mondo mesoscopico ci interessa non meno di quello fisico, altrimenti non potremmo dire la maggior parte delle cose che diciamo, non potremmo avere i valori che abbiamo ecc.» Quello che risulta incomprensibile, se si assumono le ipotesi di Ferraris, è il fatto che le conoscenze scientifiche abbiano avuto un impatto così forte sulle strutture valoriali che hanno sorretto l'umanità dall'antichità al XVIII secolo; perché la teoria eliocentrica, pur riguardando cose fuori dalla taglia media, dava così fastidio alla Chiesa? Se Dio esista o no è, dal punto di vista di Ferraris, un problema ontologico o fisico?).

Questa necessità di tornare alla "questione della metafisica" ha sullo sfondo, secondo me, anche una emergente conflittualità fra credenti e non credenti. Penso alle discussioni anche aspre cui possiamo assistere, ad esempio fra Telmo Pievani e Paolo Flores D'Arcais da una parte e Vito Mancuso dall'altra. Oppure penso a quelle che Ronald Dworkin, nel suo ultimo libro Religione senza Dio (Il Mulino, Bologna 2014) chiama "nuove guerre di religione" (per esempio la questione se «i simboli di appartenenza religiosa possano essere indossati nelle scuole pubbliche, negli uffici e negli edifici governativi e negli spazi pubblici»; i tentativi della destra religiosa americana di far insegnare nelle scuole il creazionismo prima e il disegno intelligente poi in alternativa alla teoria dell'evoluzione, le battaglie intorno alla legittimità del matrimonio omosessuale...). 
La scienza continua a produrre nuove conoscenze sulla realtà rinforzando una visione (per quanto non unitaria) nella quale secondo me non c'è più modo né necessità di pensare a Dio come viene descritto nei monoteismi tradizionali (e infatti ritengo che le forme attuali di credenza religiosa delle persone colte - e in parte anche delle persone mediamente scolarizzate - intendano Dio in modo diverso da questi) ma ancora non riesce a costruire un'alternativa alle religioni tradizionali in termini di orientamento e sostegno dell'individuo attraverso la valorizzazione dell'esistente e la progettualità. È necessario quindi che la filosofia riprenda in mano il suo compito principale, la sua vocazione metafisica, e lo faccia però in stretto rapporto con i saperi scientifici (altrimenti saranno gli scienziati stessi a doversi incaricare di fare anche filosofia, come in parte stanno già facendo... penso  a Barrow, Pensrose, Hawking, Odifreddi, Boncinelli e via dicendo – e non c'è niente di male, anzi, ma i filosofi hanno competenze speciali in metafisica, ontologia, etica, logica, che vanno applicate e possono produrre risultati decisivi). Nel fare questo, inoltre, dovrà anche, secondo me, indicare la strada verso nuove forme di religiosità (intesa come atteggiamento, non come teoria) che siano in grado di superare il tradizionale ancoraggio alla nozione di un Dio persona e creatore, e potrà anche ritrovare il nesso con la dimensione pubblica e politica, alla quale è legata fin dalle sue origini nella Grecia antica.



27 giugno 2014

Contro l'infinito





«Porre un limite all'infinito è un tema ricorrente nella fisica moderna. [...] molto spesso, ciò che appare infinito non è altro che qualcosa che non abbiamo ancora capito o contato. [...] "Infinito", in fondo, è solo il nome che diamo a ciò che ancora non conosciamo. La Natura sembra dirci, quando la studiamo, che non c'è nulla, alla fine, di davvero infinito. [...] L'unica cosa davvero infinita è la nostra ignoranza.»
(C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, Milano 2014)

Negare l'infinito reale, nella realtà fisica, equivale a credere nella conoscibilità, nella comprensibilità del mondo.

Torno a ragionare sulla Biblioteca di Babele.
Perché dobbiamo credere a questa ipotesi immaginativo-metafisica? (cioè : la quantità di ciò che è dicibile, esprimibile attraverso il linguaggio, è finita)
Perché un libro deve avere un numero di pagine finito? O anche: perché una frase non può essere infinita?
Perché altrimenti il suo senso non sarebbe, per principio, comprensibile. Potremmo capirne solo le singole parti, ma non il tutto. Ma un senso incomprensibile equivale a una assenza di senso.
L'insieme di tutto l'esprimibile non può essere infinito.

Resta sempre comunque pensabile, possibile, che la realtà (fisica) sia invece nel complesso inconoscibile, incomprensibile, quindi resta sempre possibile che sia infinita.

Ma perché qualcosa che è, di fatto, conoscibile nelle sue singole parti dovrebbe essere inconoscibile nell'insieme? Noi abbiamo già sperimentato la conoscibilità di parti della realtà, quindi abbiamo ragionevoli motivi di credere che la realtà sia conoscibile anche nella sua totalità, quindi che sia finita.

16 aprile 2014

Nymphomaniac - vol. I



Ho visto oggi questo film di Lars Von Trier. L'ho seguito con molto interesse e piacere intellettuale. Mi aspettavo un film che potesse aiutare a ripensare alcuni nodi filosofici legati al tema della sessualità, e ho trovato anche più di quanto mi aspettavo. 
La storia (che come si sa è solo la prima parte; imminente l'uscita nelle sale italiane della seconda parte) di Joe, una ninfomane (Charlotte Gainsbourg), nella cornice del suo rapporto "terapeutico" con un signore anziano che la trova stesa a terra sanguinante e la soccorre, è occasione per una riflessione profonda sul tema della sessualità in generale: sull'origine dei sensi di colpa legati ad un'espressione libera della propria pulsione sessuale, sulle differenze e gli intrecci fra sessualità e amore, sul confine fra libertà e dipendenza sessuale... Un aspetto che mi ha colpito particolarmente è l'accostamento (realizzato magistralmente dal punto di vista dell'uso del linguaggio cinematografico) fra la polifonia e la poligamia (intesa qui come compresenza di più storie erotico-amorose nella vita di una persona). Il regista utilizza un brano per organo di Bach a tre voci, Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ BWV 639, e mostra come le tre melodie che si intrecciano formino un tutt'uno armonico, così come in una fase della vita di Joe la compresenza di tre rapporti paralleli con tre uomini molto diversi fra loro forma una sorta di unico rapporto complesso e integrato. Per rinforzare l'analogia, e direi per suggerire che vi sia una sorta di destino "naturale" nelle vicende di Joe, Von Trier ricorre addirittura a frammenti della serie di Fibonacci, che vengono rintracciati sia nel primo rapporto in cui Joe perde la sua verginità, sia nella musica di Bach.
La prima parte della vita di Joe oscilla fra sensazioni di enorme vuoto e mancanza di senso e sensazioni di pienezza e armonia, ma si chiude con un'inquietante "Non sento più nulla" proprio durante un rapporto con l'unico uomo che l'aveva fatta innamorare, e il trailer della seconda parte, che il regista offre in chiusura, allude a una deriva violenta, sadomasochistica, della vicenda.


15 aprile 2014

Rovelli, capitolo 3. Relatività ristretta e relatività generale. La prima antinomia cosmologica di Kant. Concepibilità di un Universo infinito.


C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina 2014
commenti precedenti:
Rovelli, capitolo 1
Rovelli, capitolo 2




Rovelli presenta in questo capitolo la figura di Albert Einstein e le due teorie della relatività, soffermandosi in particolare sulla relatività generale ("La più bella delle teorie" secondo Lev Landau).

Nello spirito di questi commenti, riporto solo le cose che mi hanno interessato maggiormente e sulle quali ho qualche riflessione/domanda da fare.

Sugli anni in cui Einstein frequentava il liceo Rovelli dice: "invece di occuparsi di quello che gli insegnavano a scuola, leggeva gli Elementi di Euclide e la Critica della ragion pura di Kant". Seguo il filo di questo riferimento a Kant, che mi ha colpito.
Per introdurre la teoria della relatività generale Rovelli spiega come fossero rimaste aperte due questioni, nella fisica newtoniana, che Einstein collega fra loro in modo geniale: la natura della forza di gravità (in particolare come sia possibile che tale forza agisca a distanza fra corpi che non si toccano e che sono separati unicamente da spazio vuoto) e la natura dello spazio. Lo spazio era concepito da Newton come un grande "contenitore" vuoto: "Un'immensa scaffalatura nella quale corrono dritti gli oggetti, fino a quando una forza non li fa curvare". Ma che cos'è lo spazio? Rovelli fa notare come la diffusione della fisica newtoniana ci abbia abituato a pensare lo spazio come vuoto, ma "... lo spazio vuoto non fa parte della nostra esperienza. Da Aristotele a Cartesio, cioè per due millenni, l'idea democritea di uno spazio come entità diversa, separata dalle cose, non era mai stata accettata come ragionevole. Per Aristotele, come per Cartesio, le cose sono estese, ma l'estensione è una proprietà delle cose". L'idea di uno spazio vuoto è un'idea strana, "a metà fra una 'cosa' e una 'non-cosa'". Lo spazio, per Democrito, è un non-essere (contrapposto all'essere, al pieno, rappresentato dagli atomi). "Un non-essere che però c'è. Più oscuro di così è difficile." Newton aveva ripreso la concezione democritea dello spazio, e all'inizio aveva sconcertato i suoi contemporanei (mentre oggi la sua concezione è diventata quella più diffusa nel senso comune). 
"Ma i dubbi dei filosofi sulla ragionevolezza della nozione newtoniana di spazio persistevano, e Einstein, che leggeva volentieri i filosofi, ne era consapevole".
Qui Rovelli prosegue ricordando l'influenza che ha avuto la riflessione di Ernst Mach sul pensiero di Einstein, ma a me è venuto ancora in mente Kant, con la sua concezione dello spazio come intuizione pura. Kant, infatti, con la sua concezione dello spazio, si collocava in una posizione diversa sia dal "sostanzialismo" (Newton) sia dal "relazionismo" (Leibniz e altri. Per questa ricostruzione del dibattito sulla natura dello spazio si veda Mauro Dorato, La filosofia dello spazio e del tempo, in V. Allori, M. Dorato, F. Laudisa, N. Zanghì, La natura delle cose. Introduzione ai fondamenti e alla filosofia della fisica, Carocci Editore, Roma 2005; una rielaborazione di questo testo si trova nel mio saggio breve Spazio e tempo tra fisica e filosofia). Viene da chiedersi: la conoscenza della Critica della ragion pura può aver ispirato Einstein? Cassirer, in un saggio del 1921, ha sostenuto che la relatività generale non smentisce l'impostazione kantiana...
Rovelli mostra come da un lato Einstein sia stato portato dalle scoperte di Faraday e Maxwell a ipotizzare un "campo gravitazionale" analogo al campo elettromagnetico per rispondere alla questione della forza di gravità, e come poi abbia fuso tale problema col problema della natura dello spazio: "Ed ecco lo straordinario colpo di genio di Einstein, uno dei più grandi colpi d'ala nel pensiero dell'umanità: se il campo gravitazionale fosse proprio lo spazio di Newton, che ci appare così misterioso? Se lo spazio di Newton non fosse altro che il campo gravitazionale? (...) Senonché, a differenza dello spazio di Newton, che è piatto e fisso, il campo gravitazionale, essendo un campo, è qualcosa che si muove e ondeggia, soggetto a equazioni: come il campo di Maxwell, come le linee di Faraday. (...) Lo spazio non è più qualcosa di diverso dalla materia. E' una delle componenti "materiali" del mondo, è il fratello del campo elettromagnetico. E' un'entità reale, che ondula, si flette, si incurva, si storce. Noi non siamo contenuti in un'invisibile scaffalatura rigida: siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile (la metafora è di Einstein)."
Einstein pubblica la nuova teoria (relatività generale) nel 1915, e due anni dopo prova ad applicarla per descrivere lo spazio dell'universo intero.
"Per millenni gli uomini si erano domandati se l'Universo fosse infinito oppure avesse un bordo. Entrambe le ipotesi sono ostiche."
Ancora una volta mentre leggevo ho pensato a Kant: la grande questione che qui Rovelli richiama è la stessa che Kant formula nella prima delle quattro antinomie (i dilemmi che la ragione pura incontra quando esamina l'idea di mondo): 
TESI: il mondo ha un suo inizio nel tempo e, rispetto allo spazio, è chiuso entro limiti.
ANTITESI: il mondo non ha inizio né limiti nello spazio, ma è infinito così rispetto al tempo come rispetto allo spazio.
Ora, mi sembra molto interessante il modo che Rovelli usa per mostrare le difficoltà di entrambe le alternative, in particolare il modo di mostrare la difficoltà dell'antitesi.
Sulla tesi: "Se c'è un bordo, che cos'è il bordo? Che senso ha un bordo senza niente dall'altra parte?" (cita poi un bel brano del pitagorico Archita, che ipotizza di arrivare all'ultimo cielo e di stendere la mano o una bacchetta al di là...).
Sull'antitesi: "Un Universo infinito non sembra ragionevole: se è infinito, per esempio, da qualche parte c'è necessariamente un altro lettore come te che sta leggendo lo stesso libro (l'infinito è davvero grande, e non ci sono abbastanza combinazioni di atomi per riempirlo tutto di cose differenti l'una dall'altra). Anzi, ci deve essere non uno solo, ma una sequela infinita di lettori simili a te..."
Qui trovo una analogia interessante con l'argomento, basato sul Paradosso della Biblioteca di Babele, con il quale ho sostenuto di recente l'impossibilità di una serie di eventi costantemente variante e infinita e la finitezza della traiettoria del tempo cosmico.
Sull'argomento proposto da Rovelli riguardo all'antitesi, però, in linea di principio si può muovere un'obiezione. Un Universo infinito potrebbe essere inteso come uno spazio infinito entro cui si espande una materia finita. In altri termini: non è detto che un Universo infinito debba essere tutto pieno di cose differenti. E' logicamente concepibile una quantità finita di materia che si espande infinitamente in uno spazio infinito. La domanda però è: questo è anche fisicamente concepibile?

La soluzione di Einstein della prima antinomia cosmologica è che l'Universo possa essere finito ma senza bordo. Se lo si percorre viaggiando sempre nella stessa direzione (ma questo vale per qualunque direzione) si tornerà, dopo molto tempo, al punto di partenza. Uno spazio tridimensionale fatto così è chiamato "tre-sfera".
Rovelli spiega, anche servendosi di efficaci immagini, cosa sia una tre-sfera e, riprendendo un suo articolo, sostiene che Dante, nel Paradiso, abbia anticipato la soluzione di Einstein.
A questo proposito, quello che mi ha colpito è la distinzione che Rovelli propone fra geometria intrinseca (vista da dentro) e geometria estrinseca (vista da fuori). Gauss (per le superfici curve) e Riemann (per la curvatura di spazi con tre o più dimensioni) hanno usato proprio l'intuizione che sia più efficace descrivere uno spazio curvo non guardandolo "da fuori", perché questo presuppone uno spazio "più grande" nel quale si curvi il primo spazio, ma guardandolo e misurandolo immaginando di esserci dentro.
Questa distinzione va a mio avviso confrontata con le distinzioni filosofiche fra esperienza interna e esperienza esterna (per esempio in Kant), fra punto di vista soggettivo e punto di vista oggettivo (quest'ultima espressione può sembrare un ossimoro... ), con la dialettica soggetto/oggetto.

Aggiungo rapidamente un'altra riflessione che la lettura del capitolo mi ha suscitato.

Per introdurre la relatività ristretta (o speciale), Rovelli spiega come la fisica di Newton fosse incompatibile con la velocità costante della luce, perché ritiene la velocità un concetto relativo, "Cioè non esiste la velocità di un oggetto in sé (corsivo mio), esiste solo la velocità di un oggetto rispetto a un altro oggetto.
Domanda: questa contrapposizione fra qualcosa che esiste in sé e qualcosa che esiste in relazione ad altro o rispetto ad altro è la stessa contrapposizione che usa Kant quando parla della cosa in sé? La differenza sembra essere che nel primo caso (parlando della velocità) la relazione sarebbe comunque rispetto a qualcosa di oggettivo, mentre nel secondo caso (il fenomeno per Kant) la relazione è con il soggetto, non con un altro oggetto...


14 aprile 2014

La filosofia di Beppe Grillo. 2


La puntata precedente: La filosofia di Beppe Grillo

Avrei voluto proseguire nella lettura del programma del M5S, ma il clamore richiamato da un post sul blog di Grillo mi ha fatto cambiare programma. L'immagine che vedete qui sopra è quella che apre il post di cui oggi, 14 aprile 2014, si è molto parlato. Il testo del post Se questo è un paese, che riporto integralmente qui sotto, è "liberamente ispirato" alla poesia di Primo Levi "Se questo è un uomo", che apre l'omonimo romanzo. Che dire? Non ha senso contestare la falsità delle singole affermazioni, non trattandosi di un testo composto da proposizioni con reale senso dichiarativo. E' un testo integralmente retorico, quindi occorre interpretarlo, estrarne il senso non dichiarato e criticare eventualmente quello; capirne gli obiettivi e criticare eventualmente quelli. Fra gli obiettivi c'è sicuramente un forte attacco a Napolitano, a Renzi, a tutta la classe politica italiana in generale. C'è sicuramente il mostrare ai propri simpatizzanti di essere profondamente arrabbiato e che loro hanno ragione ad esserlo. C'è anche sicuramente, come ha detto un ex-grillino presente stasera alla trasmissione Piazzapulita, un obiettivo economico: il riferimento ad Auschwitz e a Primo Levi hanno avuto un effetto di forte richiamo, che si traduce in un'impennata di presenze sul blog di Grillo e questo significa più soldi, grazie alla pubblicità nel blog stesso. Ma è giusto, ci si chiede un po' da varie parti oggi, usare come strumento di richiamo mediatico la memoria della Shoah?
E qual è la sostanza del discorso? Quale il senso non esplicito, che si ricava spogliando il testo della veste retorica? Forse mi sbaglio, ma io ci leggo, come altri che ho sentito parlare oggi, un profondo nichilismo. Una visione nichilista che si esprime distruttivamente e aggressivamente. Nichilista perché non salva nulla e nessuno (se non chi pronuncia il discorso stesso!), nichilista perché azzera le differenze fra destra e sinistra, azzera le differenze fra Stato e mafia.

Voi che vi disinteressate della cosa pubblica
come se vi fosse estranea e alla vita delle persone
meno fortunate che vi circondano
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il telegiornale di regime caldo e visi di mafiosi e piduisti sullo schermo
mentre mangiate insieme ai vostri figli
che educate ad essere indifferenti e servi
Considerate se questo è un Paese
che vive nel fango
che non conosce pace, ma mafia
in cui c'è chi lotta per mezzo pane e chi può evadere centinaia di milioni
di gente che muore per un taglio ai suoi diritti civili, alla sanità, al lavoro, alla casa
nell'indifferenza dell'informazione
Considerate se questo è un Paese
nato dalle morti di Falcone e Borsellino
dalla trattativa Stato mafia
schiavo della P2
Comandato da un vecchio impaurito
delle sue stesse azioni
che ignora la Costituzione
Considerate se questo è un Paese
consegnato da vent'anni a Dell'Utri e a Berlusconi
e ai loro luridi alleati della sinistra
Un Paese che ha eletto come speranza un volgare mentitore
assurto a leader da povero buffone di provincia
Considerate se questa è una donna,
usata per raccogliere voti,
per raccontare menzogne su un trespolo televisivo,
per rinnegare la sua dignità
orpello di partito
vuoti gli occhi e freddo il cuore
come una rana d'inverno.
Meditate che questo AVVIENE ORA e che per i vostri figli non ci sarà speranza
per colpa della vostra ignavia, per aver rinnegato la vostra Patria
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

25 marzo 2014

La scienza è fonte di valori?




Carlo Rovelli, ordinario di fisica teorica in Francia, saggista e collaboratore del Sole24Ore per il supplemento culturale, ha pubblicato di recente un libro dal titolo La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose (Raffaello Cortina 2014). Riporto qualche passaggio della Premessa di questo volume, per poi fare un breve commento.
"L'umanità è come un bimbo che cresce e scopre con stupore che il mondo non è solo la sua stanzetta e il suo campo giochi, ma è vasto, ci sono mille cose da scoprire e idee da conoscere diverse da quelle fra le quali è cresciuto. L'Universo è multiforme e sconfinato, e continuiamo a scoprirne nuovi aspetti. Più impariamo sul mondo, più ci stupiamo della sua varietà, bellezza e semplicità. (...) Il mondo è sterminato e iridescente; vogliamo andarlo a vedere. Siamo immersi nel suo mistero e nella sua bellezza, e oltre la collina ci sono territori ancora inesplorati. L'incertezza in cui siamo immersi, la nostra precarietà, sospesa sull'abisso dell'immensità di ciò che non sappiamo, non rende la vita insensata: la rende preziosa."

Le mie domande, rispetto a queste parole che mi hanno colpito, sono, oltre a quella che dà il titolo a questo post: cosa fa propendere una persona verso queste sensazioni di mistero, bellezza e preziosità della vita piuttosto che verso il nichilismo? Il progredire delle conoscenze scientifiche e quindi anche la progressiva consapevolezza umana di essere parte infinitesima di qualcosa di immenso e in gran parte ancora ignoto non può produrre anche l'effetto opposto, appunto la sensazione di mancanza di un senso complessivo della realtà? Da cosa dipende l'effetto valoriale vs nichilistico della conoscenza scientifica?