Riporto un articolo – da la Repubblica, 24 settembre 2017 – di Timothy Williamson, filosofo inglese che insegna ad Oxford, per invitare il lettore a una riflessione sul tema della convivenza pacifica in presenza di netti disaccordi. Il relativismo, che apparentemente aiuta, non è realmente progressivo. Non implica la tolleranza, perché è "neutrale fra tolleranza e intolleranza". Occorre invece essere, come diceva Popper, intolleranti verso l'intolleranza.
Per migliorare il mondo basta un po’ di logica
Da Alan Turing che inventò il primo computer a Tony Blair che invase l’Iraq senza prove certe. Due casi agli antipodi che dimostrano l’importanza della filosofia nelle nostre scelte
di Timothy Williamson
La disciplina più astratta e teoretica della filosofia è la logica, che ha anche alcune delle applicazioni più pratiche. Nel 1936 il logico britannico Alan Turing pubblicò la sua soluzione a un problema irrisolto, sia filosofico che matematico, sui limiti di ciò che si può fare in matematica seguendo formali procedure fisse. Per la dimostrazione ideò una “macchina universale”. Durante la Seconda guerra mondiale costruì una di queste macchine universali, il Colossus, per decifrare i codici utilizzati dai tedeschi. Fu il primo computer elettrico programmabile, e la teoria di Turing ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo dei computer moderni.
Vi sono problemi di natura non tecnica altrettanto difficili. Per esempio: come possiamo vivere pacificamente col prossimo quando siamo in netto disaccordo? Le società moderne sono profondamente in contrasto su scienza e religione, morale e politica. Spesso sembra esserci troppo poco in comune perché le due parti opposte possano discutere razionalmente. Allora raggiungono un punto morto e ciascuna delle due parti finisce per dire: “Noi abbiamo ragione, voi avete torto”, sapendo che l’altra parte dirà altrettanto. Poiché la controversia non può essere risolta con il dialogo, vi è il rischio che si decida facendo ricorso alla forza.
Davanti a questa impasse, oggi vi è un diffuso ricorso al relativismo, secondo il quale entrambe le parti hanno ragione dal proprio punto di vista, e torto dal punto di vista della controparte, tutto qui. Nessuna parte ha ragione in modo assoluto o torto in modo assoluto, indipendentemente dai punti di vista. Questo approccio dovrebbe portare alla pace ed evitare che ciascuna delle fazioni imponga la propria opinione all’altra facendo ricorso alla forza. Al contrario di quel che ritengono i relativisti, il relativismo non comporta tolleranza. È neutrale tra tolleranza e intolleranza, nessuna delle due è migliore dell’altra. Non c’è nulla di intrinsecamente progressivo nel relativismo: l’abbiamo visto quando la consulente di Donald Trump, Kellyanne Conway, ha parlato di “fatti alternativi” in merito al numero di spettatori presenti alla cerimonia di insediamento. E in un’epoca di post-verità, la gente si sente autorizzata a ignorare le prove scientifiche del riscaldamento globale. Anche se l’approccio alla verità e alla falsità non ha conseguenze politiche dirette, esso permea il dibattito pubblico rendendolo più o meno portato al pensiero velleitario.
Le questioni filosofiche astratte sulla relazione tra verità e certezza hanno una rilevanza politica. Chi equipara la verità alla certezza, e ritiene che la certezza sia impossibile, riterrà anche che la verità sia impossibile. È impreciso, però, equiparare la verità alla certezza. Anche se non è certo che ci sia un’attività che provoca il riscaldamento globale, questo non implica che non è vero che ci sia il riscaldamento globale. Probabilmente c’è. La possibilità della verità non implica la possibilità della certezza.
Se abbiamo cura di evitare le erroneità della logica possiamo evitare le insidie del relativismo. E ciò sarebbe auspicabile, perché nel relativismo è insito il proprio fallimento: non è relativista in merito a sé stesso. Ma senza di esso cosa facciamo quando raggiungiamo un punto morto? L’antirelativismo non offre soluzioni facili. Ma dobbiamo essere molto sospettosi di chiunque sostenga che la soluzione di un problema è facile, probabilmente ci sta raggirando.
Per certi aspetti l’antirelativismo offre un maggior rispetto per le parti in contrapposizione rispetto al relativismo. Nella controversia tra osservanti di due fedi quali il cristianesimo e l’Islam, per esempio, ciascuna delle parti considera la propria opinione vera in modo non relativo. Il relativismo esclude questa possibilità, e offre a ciascuna delle parti solo la magra consolazione della verità relativa, lasciandole entrambe del tutto insoddisfatte. Anzi, offrendo tale opzione indipendentemente dalla questione specifica, il relativista si rifiuta di schierarsi realmente con qualsiasi delle due parti.
L’antirelativismo, al contrario, evita questo atteggiamento di disinteresse. Certo, prendere in considerazione seriamente l’opinione di entrambe le parti non significa trovare una soluzione per farle convivere in pace. Ma quel rispetto intellettuale di base è un buon inizio.
Non possiamo pensare di trovare una soluzione solida a un problema politico basandoci su presupposti filosofici incoerenti. Sottoposti a uno sforzo la loro inconsistenza ci lascerà privi di sostegno proprio nel momento del bisogno. Se trascuriamo la teorizzazione filosofica astratta, o non la eseguiamo in modo corretto, rischiamo di partire da presupposti filosofici errati senza rendercene conto.
Nel marzo 2003 gli Stati Uniti, sotto il presidente George W. Bush, e il Regno Unito, sotto il primo ministro Tony Blair, invasero l’Iraq e rovesciarono il regime di Saddam Hussein. La loro giustificazione era che fosse dotato di armi di distruzione di massa. L’affermazione si rivelò presto falsa. In un discorso tenuto nel 2004 in difesa delle proprie azioni, Tony Blair dichiarò: “So solo quel che credo”. Non aveva saputo che ci fossero armi di distruzione di massa, ma aveva saputo che lui credeva che ci fossero. Tentò di distogliere l’attenzione dalla questione delle prove verificabili che ci fossero armi di distruzione di massa alla questione della propria sincerità. Malgrado il suo disprezzo nei confronti del rifiuto francese di partecipare all’invasione, la sua autodifesa richiamava proprio un filosofo francese, Cartesio, secondo il quale la conoscenza è radicata nella conoscenza del proprio pensiero.
Per chiunque avesse dimestichezza con le difficoltà implicite nel progetto cartesiano di liberarsi grazie al pensiero dall’illusorietà della propria consapevolezza, l’affermazione di Blair fu un immediato campanello d’allarme. Per altri forse sembrò una dimostrazione di sincera integrità. Quando esigiamo spiegazioni dai politici è più pertinente chiedere se le loro azioni erano conformi con le prove esterne disponibili al momento piuttosto che con il loro punto di vista soggettivo basato su convinzioni e apparenze. Questa differenza è attualmente al centro degli animati scambi nell’ambito dell’epistemologia, la teoria della conoscenza, tra i cosiddetti esternalisti e internalisti su cosa giustifica le nostre convinzioni, se mai davvero esiste un tale elemento. Di certo non sorprende che la filosofia etica e politica influenzino la politica. I filosofi, per esempio, hanno svolto un ruolo centrale nello sviluppo dell’importante concetto dei diritti umani. Poiché tutta la conoscenza umana costituisce una vasta rete interconnessa, per quanto disordinata e allentata, dovrebbe essere ancor meno sorprendente che anche gli elementi più astratti e teorici abbiano ramificazioni politiche, per quanto sia assolutamente imprevedibile quando e come esse avvengano.
TRADUZIONE DI LUISA PIUSSI © RIPRODUZIONE RISERVATA