25 novembre 2018

L’impegno degli intellettuali






Di fronte agli errori del governo, stanno cominciando reazioni della società civile e di alcuni intellettuali: Zagrebelsky, Veronesi&Saviano...
Qui vorrei però riflettere su una tendenza generale al disimpegno degli intellettuali, che ogni tanto si risvegliano e dicono qualcosa, ma più sostanzialmente — con alcune brillanti eccezioni, come Saviano — tacciono. (Non i giornalisti, per fortuna, ma per i giornalisti intervenire nel dibattito pubblico, criticando o sostenendo il governo, è un dovere professionale.)
E perché tacciono? La mia idea è che manchi una coesione culturale, che manchi un accordo su punti fondamentali, su concetti orientativi come “giusto”, “buono”, “vero”, “libero”.
Il campo filosofico — che rappresenta in modo trasparente una situazione latente nel più generale “campo culturale” — è attraversato da lacerazioni profonde. Su alcuni problemi vi sono posizioni antitetiche che sembrano inconciliabili e incapaci di comunicare fra loro; su altre questioni vi sono teorie molteplici che coesistono anche pacificamente ma che sono intraducibili in una sintesi comprensibile dai non specialisti.
Come si può, partendo da questa situazione, intervenire in modo efficace nel dibattito pubblico? Il rischio, nel “dire la propria”, è quello di venire attaccati da altri intellettuali che hanno idee completamente diverse... così si preferisce tacere, non esprimersi.
Non so se questa diagnosi sia all’altezza del fatto che vorrebbe spiegare, ma penso che un altro fattore esplicativo riguardi la difficoltà di tradurre in indicazioni pratiche — politiche, economiche, tecniche — le proprie idee e competenze nei settori più vari di cui si compone la cultura umana.

Quindi?
Quindi ci sarebbe da lavorare molto sul ricucire le lacerazioni del campo culturale, sul produrre delle sintesi orientative comprensibili e traducibili in indicazioni pratiche, concrete. Trovare soluzioni ai problemi teorico-culturali come premessa necessaria all’impegno pubblico-politico degli intellettuali.

La verità: il nome e il fatto. Ma quante sono le verità? Una, due, infinite??? Carlo Galli, Franca D'Agostini, Antonella Besussi



Riporto qui i miei appunti/trascrizioni parziali presi ascoltando le conversazioni di Galli, D'Agostini e Besussi, intervistati da Fahrenheit in diretta da Modena, il 14 settembre, in occasione del festivalfilosofia 2018 di Modena Carpi e Sassuolo.
Devo dire che ho provato un penoso imbarazzo nell'ascoltare come Galli e D'Agostini non riuscissero a intendersi, al di là di oggettive divergenze nelle loro differenti posizioni filosofiche riguardo all'uso del concetto di verità. Ho provato invece un certo sollievo quando Besussi è riuscita a chiarire il senso del discorso di D'Agostini in modo inequivocabile.

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Galli riprende Hobbes; quando si fa politica bisogna dimenticarsi della verità perché di verità non ce n’è una ma ce ne sono tante. E’ l’autorità e non la verità a fare la legge. Questo per evitare i conflitti sanguinosi, che all’epoca erano sulla verità riguardo a Dio (le guerre di religione).
Oggi nessuno di noi accetterebbe una legge che dicesse di sé io valgo come legge perché sono vera. Noi accettiamo le leggi non perché sono vere, ma perché sono prodotte attraverso un processo di un certo tipo.


D'Agostini : Le verità sono due, sempre solo due [vedi NOTA in fondo]. Se noi parliamo del concetto di verità, la verità è una. Se invece intendiamo per verità i diversi contenuti veri che storicamente consideriamo tali, per esempio la verità in senso religioso, e quindi nel senso dogmantico del termine, allora ci sono molte religioni e quindi ci sono molte verità. Ma chi ha detto che il concetto di verità debba essere assegnato alla religione? L’ha detto un certo personaggio, che ha detto “Io sono la verita” (Gesù). Nella cultura greca, che ha formalizzato il concetto di verità come lo usiamo ancora oggi, c’erano gli dèi, e c’era un dio per ogni concetto, ma non per il concetto di verità, la verità non era un dio, era la struttura che ci serviva per vivere. (La “verità” di Stato, espressa ad esempio nelle leggi razziali del 1938, non è la verità come aletheia, ma è menzogna organizzata)


Galli : nel Leviatano: in nome della verità l’Europa sta morendo nelle guerre di religione. In nome di Dio, che è l’equivalente cristiano della verità, abbiamo la guerra. E Hobbes dice: bene, allora teniamo la verità fuori dalla politica. Ancora oggi nella politica non si fa uso della legittimazione attraverso la verità. Il principio libera non fonda la politica sulla verità bensì fonda la politica sull’opinione. Altrimenti dovrei pensare che in politica io sono il detentore della verità e il mio avversario è il detentore della menzogna. Hobbes, di fronte alla situazione del suo tempo, decide di fare un’operazione di svuotamento della politica dai valori ultimi, i quali valori ultimi sono la molla del conflitto. Senza i valori ultimi si può convivere pacificamente pur credendo in verità diverse.


D'Agostini : La differenza delle nostre due posizioni è apparentemente irriducibile. Io sono convinta che il concetto di verità non ha alcun nesso con Dio, con lo “sguardo di Dio” come diceva Putnam; l’analisi del concetto di verità deve prescidere dal fatto che tale concetto sia stato utilizzato con pesanti ipoteche ideologico-religiose; la verità non è un concetto tendenzialmente dogmatico; a mio avviso non c’è auctoritas che non si basi sulla verità.


Galli : Io non sono d’accordo che la filosofia debba procedere attraverso l’affermazione delle proprie opinioni. Faccio fatica ad argomentare nel termine del dire “Per me Hobbes ha torto”. Lei ha detto “Non sono d’accordo con Hobbes”.  Il principio della storicizzazione di un testo serve proprio ad eliminare la posizione del lettore e le sue personali opinioni. Non ho mai incontrato un luogo in cui la politica si sia presentata come legittimata dal possesso della verità. Tranne nei casi in cui si trattasse di un universo concentrazionario. Non ho mai incontrato una teorizzazione della democrazia, fondata sull’idea che la democrazia è la verità, o che è in gioco la verità. E’ in gioco la civile convivenza. Dire che oggi siamo in un’epoca diversa da quella di Hobbes… avrei dei dubbi. Ci sono parecchi conflitti in giro nel mondo (ancora basati su verità contrapposte?). Il problema della politica non è la verità, è la neutralizzazione dei conflitti.

D'Agostini: io non mi sono sognata di dire che la posizione di Hobbes sia sbagliata, né ho negato che che il concetto di verità sia stato ipotecato pesantemente con posizioni religiose e ideologiche. Non mi sono sognata di dire che non esistono molteplici verità.

Besussi:
La verità è agonistica per definizione. Non si può contare sulla verità per chiudere i disaccordi. La verità non può mettere d’accordo tutti. Nel confronto tra ragioni, se la verità è importante noi guardiamo fuori dai nostri mondi personali, se non è importante noi non riusciamo a confrontarci con gli altri.
Il confronto tra Carlo Galli e Franca D’Agositini mi sembrava un dialogo tra sordi, come giustamente diceva Franca, perché da una parte Galli insisteva sull’idea che la verità è fanatismo, ideologia, prevaricazione. Ma non è il nome della verità che ci interessa, è il fatto della verità. In genere chi si interessa del nome, del fatto se ne frega altamente. Il fatto della verità è che cercare la verità significa uscire da sé e andare nel mondo. Significa che quello che io dico non è guidato dalle mie preferenze sul mondo ma dal mondo stesso. La passione per la verità è il coraggio di misurare quello che si dice su quello che è fuori di noi. Essere rispondenti ai fatti, però, non significa essere succubi dei fatti. Non intendiamo sostenere una posizione del tipo: i fatti sono così, adeguati e piantala! Il punto è che la verità è una nostra aspirazione, è il tentativo di afferrare con le nostre credenze quello che è di fronte a noi. L’importante è ammettere che esiste qualcosa che non è stabilito da noi.


NOTA : su questa affermazione apparentemente incomprensibile ho avuto un chiarimento da Franca D’Agostini in una comunicazione personale:
«se per  "verità" intendi i contenuti veri, allora sono infinite e comunque non numerabili (es. le balene sono mammiferi, oggi è una bella giornata, 2+2 = 4....)
se intendi il concetto di verità, allora è uno: è la funzione concettuale che usiamo per mettere in rapporto linguaggio (o pensiero) e mondo
se poi intendi (come si intendeva in quel contesto) le verità di cui si discute, cioè le diverse descrizioni circa un solo fatto, allora abbiamo:
prima possibilità - le diverse descrizioni sono compatibili, e non c'è problema
seconda possibilità - sono incompatibili, e allora una delle due è semplicemente falsa
terza possibilità - sono incompatibili, ma entrambe accettabili, e allora il fatto di cui parlano è contraddittorio: è un fatto del tipo 'p & non-p'
ecco dunque l'idea: al massimo le verità sono due.
Naturalmente se discuti su un fatto contraddittorio prendendo partito per 'p' oppure per 'non-p' stai descrivendo solo metà del fatto come se fosse il fatto completo.»


19 novembre 2018

Williamson contro il relativismo



Riporto un articolo – da la Repubblica, 24 settembre 2017 – di Timothy Williamson, filosofo inglese che insegna ad Oxford, per invitare il lettore a una riflessione sul tema della convivenza pacifica in presenza di netti disaccordi. Il relativismo, che apparentemente aiuta, non è realmente progressivo. Non implica la tolleranza, perché è "neutrale fra tolleranza e intolleranza". Occorre invece essere, come diceva Popper, intolleranti verso l'intolleranza.






Per migliorare il mondo basta un po’ di logica

Da Alan Turing che inventò il primo computer a Tony Blair che invase l’Iraq senza prove certe. Due casi agli antipodi che dimostrano l’importanza della filosofia nelle nostre scelte

di Timothy Williamson

La disciplina più astratta e teoretica della filosofia è la logica, che ha anche alcune delle applicazioni più pratiche. Nel 1936 il logico britannico Alan Turing pubblicò la sua soluzione a un problema irrisolto, sia filosofico che matematico, sui limiti di ciò che si può fare in matematica seguendo formali procedure fisse. Per la dimostrazione ideò una “macchina universale”. Durante la Seconda guerra mondiale costruì una di queste macchine universali, il Colossus, per decifrare i codici utilizzati dai tedeschi. Fu il primo computer elettrico programmabile, e la teoria di Turing ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo dei computer moderni.
Vi sono problemi di natura non tecnica altrettanto difficili. Per esempio: come possiamo vivere pacificamente col prossimo quando siamo in netto disaccordo? Le società moderne sono profondamente in contrasto su scienza e religione, morale e politica. Spesso sembra esserci troppo poco in comune perché le due parti opposte possano discutere razionalmente. Allora raggiungono un punto morto e ciascuna delle due parti finisce per dire: “Noi abbiamo ragione, voi avete torto”, sapendo che l’altra parte dirà altrettanto. Poiché la controversia non può essere risolta con il dialogo, vi è il rischio che si decida facendo ricorso alla forza.
Davanti a questa impasse, oggi vi è un diffuso ricorso al relativismo, secondo il quale entrambe le parti hanno ragione dal proprio punto di vista, e torto dal punto di vista della controparte, tutto qui. Nessuna parte ha ragione in modo assoluto o torto in modo assoluto, indipendentemente dai punti di vista. Questo approccio dovrebbe portare alla pace ed evitare che ciascuna delle fazioni imponga la propria opinione all’altra facendo ricorso alla forza. Al contrario di quel che ritengono i relativisti, il relativismo non comporta tolleranza. È neutrale tra tolleranza e intolleranza, nessuna delle due è migliore dell’altra. Non c’è nulla di intrinsecamente progressivo nel relativismo: l’abbiamo visto quando la consulente di Donald Trump, Kellyanne Conway, ha parlato di “fatti alternativi” in merito al numero di spettatori presenti alla cerimonia di insediamento. E in un’epoca di post-verità, la gente si sente autorizzata a ignorare le prove scientifiche del riscaldamento globale. Anche se l’approccio alla verità e alla falsità non ha conseguenze politiche dirette, esso permea il dibattito pubblico rendendolo più o meno portato al pensiero velleitario.
Le questioni filosofiche astratte sulla relazione tra verità e certezza hanno una rilevanza politica. Chi equipara la verità alla certezza, e ritiene che la certezza sia impossibile, riterrà anche che la verità sia impossibile. È impreciso, però, equiparare la verità alla certezza. Anche se non è certo che ci sia un’attività che provoca il riscaldamento globale, questo non implica che non è vero che ci sia il riscaldamento globale. Probabilmente c’è. La possibilità della verità non implica la possibilità della certezza.
Se abbiamo cura di evitare le erroneità della logica possiamo evitare le insidie del relativismo. E ciò sarebbe auspicabile, perché nel relativismo è insito il proprio fallimento: non è relativista in merito a sé stesso. Ma senza di esso cosa facciamo quando raggiungiamo un punto morto? L’antirelativismo non offre soluzioni facili. Ma dobbiamo essere molto sospettosi di chiunque sostenga che la soluzione di un problema è facile, probabilmente ci sta raggirando.
Per certi aspetti l’antirelativismo offre un maggior rispetto per le parti in contrapposizione rispetto al relativismo. Nella controversia tra osservanti di due fedi quali il cristianesimo e l’Islam, per esempio, ciascuna delle parti considera la propria opinione vera in modo non relativo. Il relativismo esclude questa possibilità, e offre a ciascuna delle parti solo la magra consolazione della verità relativa, lasciandole entrambe del tutto insoddisfatte. Anzi, offrendo tale opzione indipendentemente dalla questione specifica, il relativista si rifiuta di schierarsi realmente con qualsiasi delle due parti.
L’antirelativismo, al contrario, evita questo atteggiamento di disinteresse. Certo, prendere in considerazione seriamente l’opinione di entrambe le parti non significa trovare una soluzione per farle convivere in pace. Ma quel rispetto intellettuale di base è un buon inizio.
Non possiamo pensare di trovare una soluzione solida a un problema politico basandoci su presupposti filosofici incoerenti. Sottoposti a uno sforzo la loro inconsistenza ci lascerà privi di sostegno proprio nel momento del bisogno. Se trascuriamo la teorizzazione filosofica astratta, o non la eseguiamo in modo corretto, rischiamo di partire da presupposti filosofici errati senza rendercene conto.
Nel marzo 2003 gli Stati Uniti, sotto il presidente George W. Bush, e il Regno Unito, sotto il primo ministro Tony Blair, invasero l’Iraq e rovesciarono il regime di Saddam Hussein. La loro giustificazione era che fosse dotato di armi di distruzione di massa. L’affermazione si rivelò presto falsa. In un discorso tenuto nel 2004 in difesa delle proprie azioni, Tony Blair dichiarò: “So solo quel che credo”. Non aveva saputo che ci fossero armi di distruzione di massa, ma aveva saputo che lui credeva che ci fossero. Tentò di distogliere l’attenzione dalla questione delle prove verificabili che ci fossero armi di distruzione di massa alla questione della propria sincerità. Malgrado il suo disprezzo nei confronti del rifiuto francese di partecipare all’invasione, la sua autodifesa richiamava proprio un filosofo francese, Cartesio, secondo il quale la conoscenza è radicata nella conoscenza del proprio pensiero.
Per chiunque avesse dimestichezza con le difficoltà implicite nel progetto cartesiano di liberarsi grazie al pensiero dall’illusorietà della propria consapevolezza, l’affermazione di Blair fu un immediato campanello d’allarme. Per altri forse sembrò una dimostrazione di sincera integrità. Quando esigiamo spiegazioni dai politici è più pertinente chiedere se le loro azioni erano conformi con le prove esterne disponibili al momento piuttosto che con il loro punto di vista soggettivo basato su convinzioni e apparenze. Questa differenza è attualmente al centro degli animati scambi nell’ambito dell’epistemologia, la teoria della conoscenza, tra i cosiddetti esternalisti e internalisti su cosa giustifica le nostre convinzioni, se mai davvero esiste un tale elemento. Di certo non sorprende che la filosofia etica e politica influenzino la politica. I filosofi, per esempio, hanno svolto un ruolo centrale nello sviluppo dell’importante concetto dei diritti umani. Poiché tutta la conoscenza umana costituisce una vasta rete interconnessa, per quanto disordinata e allentata, dovrebbe essere ancor meno sorprendente che anche gli elementi più astratti e teorici abbiano ramificazioni politiche, per quanto sia assolutamente imprevedibile quando e come esse avvengano.

TRADUZIONE DI LUISA PIUSSI © RIPRODUZIONE RISERVATA

14 novembre 2018

Gert van Hoef

Scopro questo organista olandese, ora ventiquattrenne, attraverso YouTube. Per chi volesse saperne di più, c'è un sito a lui dedicato, dove si trovano tutte le informazioni biografiche e sulla sua produzione, e ci sono anche molti video.