14 luglio 2011

Atteggiamento oggettivante/atteggiamento performativo



H. Skjervheim (nella foto), in Objectivism and the Study of Man (Oslo 1959) (cit. in Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, ed. it. Il Mulino 1986, p. 190 e sgg.) distingue fra due atteggiamenti di fondo: att. oggettivante e att. performativo. E' oggettivante chi nel ruolo della terza persona osserva o fa enunciazioni su qualcosa nel mondo. E' performativo chi nel ruolo di prima persona entra in relazione intersoggettiva con un seconda persona. Questa duplice possibilità riflette secondo Skjervheim una "ambiguità fondamentale della condizione umana": l'Altro è là sia come oggetto per me sia come altro soggetto con me.

Questa ambiguità si riflette  (e forse genera) il problema del libero arbitrio, nel senso che verso un agente posso o osservare e cercare di spiegare il suo comportamento trattandolo come un "oggetto" alla stregua di altri oggetti natuarali (un atteggiamento spinoziano, che prescinde completamente dal considerare l'agente come dotato di libero arbitrio), oppure posso entrare in rapporto e concordare azioni comuni/contrastarne l'azione perché la ritengo sbagliata, moralmente riprovevole ecc. Posso assumere l'uno o l'altro atteggiamento, ma non entrambi contemporaneamente.

10 luglio 2011

La possibilità fisica: disputa ideale fra von Wright e Severino




Il dibattito filosofico sul libero arbitrio (siamo o no realmente liberi di scegliere il nostro comportamento?) chiama in causa, inevitabilmente, il concetto di possibilità. La possibilità di cui si parla in questi contesti, tuttavia, non è la cosiddetta possibilità logica (o metafisica, se si preferisce chiamarla così), cioè la possibilità come non-contraddittorietà di un ente, di un evento, di una situazione. E' invece la possibilità reale (o fisica, se si preferisce chiamarla così, o causale o naturale o umana...), cioè la compatibilità con le leggi naturali, con le leggi che governano l'andamento del mondo reale (l'unico che ci è dato conoscere in base alla nostra esperienza).
Ebbene. Von Wright (in Libertà e determinazione, ma anche in Causalità e determinismo) ritiene essere un fatto empirico l'esistenza di possibilità reali. Il suo ragionamento è questo. Partiamo dal fatto che uno stato di cose generico X si verifichi più volte nel corso del tempo. Ogni volta noi osserviamo che cosa accade dopo di esso. Se a volte segue lo stato generico Y e a volte lo stato generico Z possiamo affermare che, dato il verificarsi dello stato generico X in una data occasione, vi sono due possibilità reali: o che si verifichi successivamente Y oppure che si verifichi successivamente Z.
Severino invece (in Studi di filosofia della prassi) ritiene che non sia possibile affermare su base empirica l'esistenza di possibilità reali. Il suo ragionamento è questo. Dato il verificarsi dello stato X nell'occasione A e constatato il successivo stato Y, non potremo mai sapere se era realmente possibile il verificarsi, dopo X, di Z, perché ciò implicherebbe l'esperienza di stati di cose alternativi a quello realmente accaduto nell'occasione A. Il fatto che, in altre occasioni (B, C, D ecc.), a X sia seguito Z non conta, perché ciò che noi vogliamo sapere è se in quella occasione temporale (A) fosse possibile realmente la sequenza XZ.

Il punto discriminante mi pare essere il concetto di stato di cose generico, che von Wright utilizza, mentre Severino lo rifiuterebbe. Per von Wright lo stesso stato di cose generico può accadere più volte nel tempo. Per Severino già dire questo è sbagliato, nel senso che in ogni occasione successiva (B, C, D...) in cui X accade, X è diverso perché accade in quella specifica occasione.

La disputa quindi si sposta sulla concezione del tempo come qualcosa di "individualizzato" già di per sé, o come qualcosa di omogeneo e con una struttura modulare, neutra.

Il problema diventa: uno stato di cose generico, che accade in due occasioni diverse, è lo stesso stato di cose o no?
Vi sono momenti uguali nella vita di una persona? Ci si può trovare di fronte alla stessa scelta due volte?

4 luglio 2011

Due concetti di libertà o due concetti di concetto? Il libero arbitrio tra esperienza e metafisica


Versione scaricabile e stampabile

Ho incontrato il problema del libero arbitrio leggendo un saggio di Cesare MusattiLibertà e servitù dello spirito, nel quale il grande psicoanalista italiano sostiene l’illusorietà del libero arbitrio sulla base delle teorie freudiane (sinteticamente: non siamo veramente liberi di scegliere il nostro comportamento, come pensiamo di essere, perché le motivazioni delle nostre scelte affondano le loro radici nel nostro inconscio).
Studiando filosofia, poi, mi sono reso conto di quanto il problema fosse complesso e della sua caratteristica di attraversare le epoche storiche mantenendo una sua identità. Al momento della scelta della tesi mi sono rivolto ad Alfredo Civita (nella foto), allora assistente di Giovanni Piana alla Statale di Milano, perché aveva tenuto un seminario sulla libertà del volere (poi venni a conoscenza del fatto che stava scrivendo un libro sull’argomento: La volontà e l’inconscio, guarda caso proprio affrontando il tema in relazione alla psicoanalisi, in una prospettiva filosofica dichiaratamente aderente al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche).
Mi consigliò di affrontare il tema analizzando un’opera di Georg Henrik von Wright, un filosofo finlandese contemporaneo: Libertà e determinazione.
Studiando l’opera di von Wright, ma soprattutto influenzato dalla lettura di un libro di Emanuele Severino, Studi di filosofia della prassi, scrissi un breve testo che sottoposi all’attenzione di Civita, e che riproduco qui di seguito in una versione leggermente modificata.

Al fine di risolvere tutte le questioni in qualche modo collegate con la nozione di “libero arbitrio” ci sembra importante stabilire la seguente distinzione. Prendiamo l’enunciato

(1)       X era libero nel fare Z.

Vi sono secondo noi due modi di interpretare questo enunciato, che corrispondono a due modalità diverse di operare per cogliere le condizioni di verità di esso: uno per il quale basta fare riferimento alla situazione reale (passata), l’altro per il quale occorre fare riferimento a stati di cose alternativi o possibili.
Prendiamo un esempio della proposizione (1):

(2)       Maurice era libero nel compiere l’attentato a De Gaulle.

Le due interpretazioni di questo enunciato, secondo quanto detto prima, sono:

(2A) Nessuno ha obbligato Maurice ad agire in tal senso; tale azione è stata premeditata, ed è coerente con le convinzioni politiche di Maurice; egli aveva un’intenzione politica precisa, ed era convinto che per realizzarla occorresse compiere quell’attentato.

(2B) Maurice avrebbe potuto non compiere quell’attentato.

Evitando il compito di definire le nozioni di “libertà” sottintese nei due casi, è possibile comunque operare una distinzione intuitiva fra due diverse accezioni del concetto di libertà, basandosi sul tipo di operazioni richieste dalla ricerca delle condizioni di verità di proposizioni nelle quali compare tale concetto. Nel primo caso (2A) è sufficiente indagare sulle condizioni reali che hanno preceduto l’atto. Queste condizioni potranno naturalmente consistere anche in stati o eventi “mentali” (per esempio le convinzioni politiche di Maurice), ma potranno comunque essere ricercate attraverso un’esperienza indiretta (per esempio parlando con Maurice). Nel secondo caso (2B) ciò invece non basta, perché non ci si riferisce più solo a stati di cose realmente accaduti, ma si mettono in gioco stati di cose possibili, anzi più precisamente si mette in gioco la possibilità stessa di stati di cose alternativi o possibili. In 2B si sostiene che esiste la possibilità di stati di cose possibili, e in particolare di quello contenuto nella proposizione.
Sosteniamo insomma che vi sia una distinzione importante fra la questione del libero arbitrio come questione empirica e la questione del libero arbitrio come questione metafisica.

Sottoposi a Civita questo scritto, e in un successivo incontro egli mi disse più o meno quanto segue: “la distinzione che proponi vale come principio euristico, ma vi sono dubbi sul suo significato filosofico. Se mi dici che queste due sfere danno luogo a due concetti di libertà, io ti dico che danno luogo a due concetti di concetto! 2A e 2B sono indipendenti? 2B falso non implica anche la falsità di 2A? Se sono indipendenti allora 2B, come affermazione, non ha più senso. Ciò è invece contraddetto da situazioni quotidiane in cui usiamo frasi come 2B con senso. È da qui che bisogna partire. Occorrerebbe mostrare la ricchezza filosofica di affermazioni come 2A, ma anche anche contesti in cui affermazioni come 2B hanno senso. Affermazioni come 2B non sono solo affermazioni metafisiche: si usano quotidianamente. Ciò implica che devono avere anche un significato a-filosofico”.
Io replicai: “in Freud vi è un modello epistemologico deterministico, ma viene sostenuta una nozione di libertà (come conoscenza di sé). Ciò dimostra che le due nozioni sono indipendenti”.
Civita: “questo è un grosso problema, in psicoanalisi. Il mio parere è che ciò non sia una coesistenza pacifica, ma sia una contraddizione all’interno del pensiero freudiano”.
Io allora gli riproposi l’argomentazione (ripresa da Severino) secondo cui non si può avere esperienza della libertà nel senso B perché ciò implicherebbe una sorta di ritorno indietro nel tempo all’istante preciso in cui si è verificata la scelta, e constatare poi il verificarsi di eventuali decorsi alternativi degli eventi (ho provato, in seguito, a immaginare che ciò sia reso possibile da una macchina speciale, e ne è venuto fuori il racconto La macchina del libero arbitrio…).
Civita mi rispose: “questa è la solita argomentazione dei deterministi, ma è “sofistica”, nel senso che non tiene conto appunto del fatto che affermazioni come 2B vengono usate, e quindi devono riferirsi a qualche cosa, devono avere un significato”.

Proseguendo idealmente questo dialogo con Civita vorrei aggiungere che non escluderei che nelle conversazioni quotidiane vengano fatte affermazioni metafisiche, se intendiamo per metafisiche tutte le affermazioni che riguardano concezioni generali della realtà, o meglio concezioni di cosa sia un fatto, di cosa sia la realtà, quindi anche se facciano parte della realtà non solo i fatti ma anche le possibilità, i fatti che non si sono realizzati ma che avrebbero potuto realizzarsi, come una scelta diversa in un momento specifico.
       Frasi come 2A, pur affermando la libertà dell’agente (o la libertà del volere dell’agente) sono compatibili con una visione deterministica, mentre affermazioni come 2B non sono compatibili con una visione deterministica. La differenza fra  i due concetti di libertà si basa qu questo.

Ora, secondo me anche nel discorso quotidiano intendiamo cose diverse se parliamo della libertà di qualcuno senza sollevare questioni metafisiche (come la verità o falsità del determinismo) oppure parliamo della libertà dell’uomo in generale sollevando una questione metafisica. Le questioni metafisiche hanno significato, perché si riperquotono sul valore che diamo alle cose, ai fatti, alla realtà stessa. Non direi che il problema metafisico del libero arbitrio sia un falso problema. Direi che è il caso di affrontarlo come problema che appartiene all’ambito delle concezioni generali sull’uomo e sul suo posto nel contesto naturale, e sia utile invece proprio farlo rientrare fra i problemi su cui anche i non filosofi possono riflettere per arricchire la consapevolezza di sé e chiarire la loro visione generale delle cose. Azzarderei l’ipotesi che una tacita (implicita, non riflessa) accettazione della negazione del libero arbitrio possa aver contribuito alla crisi della morale e al rifiuto della responsabilità, cioè la capacità di giustificare le proprie scelte di fronte a chi ci sta intorno.