2 marzo 2024

"Let it be" o "I care"? Questo è il problema

 



Come al solito, in questo tipo di dilemmi umani sulle regole della saggezza, occorre probabilmente solo trovare la giusta mescolanza, o meglio la giusta alternanza. Occorre tenere entrambi i corni del dilemma, sentendo/sapendo quando conviene giocare l'uno o l'altro atteggiamento

Lasciar essere il mondo e noi stessi. Accettarsi per come siamo. Capire e amare il destino, la necessità.

Ma anche prendersi cura, coltivare il proprio orto (il proprio corpo, la propria mente, le relazioni che abbiamo con gli altri, il pianeta, l'umanità, il proprio campo professionale). Cercare di migliorarsi, andare in psicoterapia, nutrire la propria mente leggendo, elaborare progetti, creare qualcosa che ci rappresenta, o che rappresenta il nostro modo di vedere il mondo.

Forse le due regole di saggezza presuppongono due visioni opposte delle cose: una nella quale le cose e gli eventi sono contingenti, e l'altra nella quale le cose e gli eventi sono necessari.

Ma anche su questi presupposti, forse, occorre comprendere la giusta mescolanza, Forse la natura è proprio un misto delle due modalità: tratti nel quali le cose non possono che procedere in un certo modo e tratti nei quali invece si aprono possibilità alternative e quello che accade avrebbe potuto non accadere.

Oppure le due regole di saggezza scaturiscono dai due processi mentali che abbiamo a disposizione: il sistema intuitivo (veloce, inconsapevole, automatico) e il sistema razionale (lento, consapevole, impegnativo).





23 gennaio 2024

Achille Varzi scioglie l'apparente paradosso della serie dei numeri naturali nella Biblioteca di Babele numerica

 



Sovreccitato dall'impressione di avere scoperto un nuovo paradosso logico-matematico, ed avendolo poi riformulato in modo ancora più preciso attraverso una Biblioteca di Babele fatta solo di caratteri numerici, virgola e spazio, scrivo ad Achille Varzi per avere un parere, ricordandomi che anche lui si era occupato, in un suo saggio breve, delle implicazioni filosofiche del racconto di Borges.

Con la sua mente velocissima, Achille si è prontamente messo a pensare e mi ha risposto. 

Riporto qui il nostro carteggio, per mostrare come Varzi sia riuscito ad individuare l'inghippo, il nodo che originava l'impressione paradossale.

Ringrazio anche qui il prof. Varzi per il suo prezioso contributo, e per la gentilezza mostratami nel concedermi senza problemi di pubblicare lo scambio di mail.


Caro Giulio,


Grazie! In effetti, appena ricevuta la sua prima mail, ho cominciato a pensare. La nuova versione del paradosso, in termini di serie di numeri, sembra anche a me più efficace di quella che presentava qualche anno fa, in termini di volumi dedicati alla narrazione della storia dell’universo. (Un volume per secolo, la biblioteca contiene solo un numero finito n di volumi, ma certamente ci sarà anche un secolo n+1.ecc.) 
Vedo tuttavia un problema, che nasce dal fatto che tutti volumi sono di una lunghezza prefissata. Lei infatti scrive giustamente: 

Dobbiamo naturalmente pensare che alcuni numeri saranno così lunghi da scrivere che occuperanno più di un'intero volume, ma questo non è un problema, se ipotizziamo che un numero non lo consideriamo concluso se non è seguito da virgola e spazio, e se un volume si conclude con un carattere numerico e il successivo volume inizia con un carattere numerico dobbiamo considerare che il numero espresso sta "a cavallo" dei due volumi.

In un certo senso, sono d’accordo che la necessità di ricorrere a più volumi non è un problema. Ma lo diventa (ai fini dell’esistenza o meno di un vero paradosso) non appena consideriamo che in certi casi i volumi necessari per esprimere un determinato numero si dovranno ripetere. Mi spiego. Siano j e k due numeri la cui scrittura richiede un volume esatto a testa e sia n un numero la cui scrittura richiede che si scriva j seguito da k seguito nuovamente da j. Evidentemente, avremo bisogno di tre volumi per scrivere il numero n. Ma il terzo volume e il primo saranno identici, cioè, saranno lo stesso volume. Questo semplice esempio illustra in modo chiaro che quando parliamo di numeri espressi “a cavallo” di due o più volumi davvero dobbiamo considerare tutte le *sequenze* di volumi nella biblioteca. E quante sono le sequenze finite di volumi nella biblioteca? Se i volumi presenti in biblioteca sono in numero finito, gli *insiemi* di volumi sono in numero finito, ma le loro *sequenze* (eventualmente con ripetizioni) sono in numero infinito. E se le cose stanno così, allora non c’è paradosso...

Comunque continuo a pensarci!

Un caro saluto,
Achille


La ringrazio tantissimo per questa risposta, intanto per la velocità!
E complimenti anche per come sia riuscito velocemente a trovare un problema serio, che rende (anche se anch’io voglio capire meglio e continuerò a pensarci…!) la questione un paradosso apparente.

Si tratterebbe, in altri termini, se ho ben compreso, di considerare i volumi della Biblioteca come un numero finito di pezzi di un puzzle.

Immaginiamo di poter scrivere la sequenza infinita dei numeri naturali e poi di spezzarla in “pezzi” uguali di n caratteri (dove n è il numero totale dei caratteri di un volume standard della Biblioteca). Il fatto che ciascun “pezzo-volume” sia contenuto nella Biblioteca vuol solo dire che ce ne saranno alcuni (ma quanti? Non certo tutti, perché moltissimi volumi presentano serie disordinate, per es. “8765, 23456789, 123432142345678, …..”) che vengono ripetuti x volte (infinite volte?).

Non so se ha visto che in nell’ultima versione ho poi aggiunto un ultimo pezzo: “Paradosso nel paradosso”:

Ulteriore paradosso nel paradosso: i volumi della serie ordinata dei numeri naturali, in un certo senso, sembrerebbero dover essere di meno dei volumi totali della Biblioteca, perché i volumi totali contengono anche tutti quelli composti da cifre in totale disordine, quindi molti di più di quei pochi (ma infiniti!) volumi ordinati della serie.

C’è infatti anche questa complicazione in più: che i volumi “ordinati” e “ordinabili”, in teoria, sembrerebbero dover essere di meno di quelli disordinati…

Un vero pasticcio… ma penso che la cosa si possa rendere più pensabile se si restringono via via i “pezzi” del puzzle a formati molto più brevi. Proverò a pensarci in questo modo, e se viene fuori qualcosa di interessante le faccio sapere.

Un saluto, con grande stima e riconoscenza
Giulio


Caro Giulio,

Grazie per la gentile risposta. In effetti ci sono due questioni da considerare. 

– La prima è quella a cui facevo riferimento io, che in sostanza si risolve nel fatto che nella Biblioteca bisogna stare attenti a non confondere tra volumi e libri. I primi sono in numero enorme ma finito, dato che sono semplici combinazioni di lunghezza prefissata (finita) di un insieme finito di simboli. I secondi, invece, nella misura in cui un libro può richiedere più di un volume, sono in numero infinito, dato che non c’è limite alle sequenze finite di volumi (con possibili ripetizioni) che si possono considerare. Questa distinzione tra volumi e libri vale in generale nella Biblioteca di Babele, ed è per questo che forse si può davvero dire che la Biblioteca contiene tutti i libri possibili nonostante contenga soltanto un (enorme) numero finito di volumi. 

– La seconda questione riguarda la distinzione tra serie ordinate e disordinate su cui giustamente lei richiama l’attenzione. Nell’esempio che facevo io, avevamo una sequenza di tre libri dove il terzo era identico al primo: j_1 . . .  j_n k_1 . . . k_n j_1 . . . j_n (dove n è il numero totale dei caratteri di un volume). Ora, questo è semplicemente un libro in tre volumi che contiene un certo numero. Non è detto che figuri nella sequenza infinita dei volumi che contengono la serie dei numeri naturali nel giusto ordine. (È molto improbabile che lo sia, cioè è improbabile che il numero precedente termini proprio alla fine dell’ultima pagina dell'ultimo volume del libro precedente.) Tuttavia resta il fatto che libri del genere devonoper forza di cose figurare in quella sequenza infinita.
Per esempio: supponiamo per estrema semplicità che ogni volume consista di un’unica pagina di un’unica riga di due caratteri. Allora la serie che cerchiamo sarà composta dai seguenti volumi:

0,
1,
2,
3,
4,
5,
6,
7,
8,
9,
10
,1
1,
12
,1
3,
14
,1
5,
16
,1
7,
18
,1
9,
20
.
.
.

Come vede, i volumi ripetuti sono tanti!

Mi dispiace che la mia risposta non abbia confermato la scoperta del paradosso, ma spero davvero che le possa essere utile (e se vuole citare questo scambio, lo faccia pure senza problemi).
Un cordiale saluto,
Achille

21 gennaio 2024

Paradosso della serie dei numeri naturali nella Biblioteca di Babele numerica

 


Attenzione!!! Questo paradosso è stato RISOLTO da Achille Varzi! 



Questo paradosso è la riformulazione di un altro paradosso, che ho proposto in un post precedente.

Prendiamo una pagina standard di un libro, formata da 32 righe, ciascuna comprendente 64 caratteri.

Prendiamo come caratteri ammessi nella nostra Biblioteca di Babele numerica solo i seguenti:

i dieci numeri dallo 0 al 9

la virgola

lo spazio vuoto.

Immaginiamo che con pagine composte dalla combinazione di questi 12 caratteri vengano formati volumetti di 30 pagine ciascuno.

Di quanti volumi è composta la Biblioteca?

12 elevato alla potenza di 32x64 dà il numero di combinazioni possibili per singola pagina. Questo numero va poi elevato alla potenza di 30. Non sto a fare i calcoli, ma è comunque evidente che si tratta di un numero finito di volumi.

Ora immaginiamo che un ipotetico lettore di questa sterminata biblioteca voglia avventurarsi nell'impresa di individuare i volumi che contengono la serie dei numeri naturali nel giusto ordine, e voglia ordinarli mettendoli in fila, uno dopo l'altro, in un nuovo spazio che gli sia stato reso disponibile. 

Quindi: la Biblioteca di Babele numerica si presenta originariamente come una serie caotica ma finita di volumetti, anche se così grande che ci si può perdere dentro (non avventuriamoci a immaginarne la struttura architettonica!).

Ma immaginiamo invece che questo ipotetico lettore che vuole prendere solo i volumetti che contengono in modo ordinato la serie dei numeri naturali e rimetterli in fila in un nuovo spazio sia un robot potentissimo, indistruttibile e dotato di una ricarica energetica rinnovabile all'infinito.

Il robot inizia il suo lavoro ma... 

a un certo punto si rende conto che mancano dei volumi per andare avanti?

oppure

riesce ad andare avanti in un lavoro infinito di riordinamento, ma deve farsi ristampare dei volumi, che gli servono per comporre la serie infinita dei numeri naturali?

oppure

???

Paradosso: la serie dei numeri naturali è infinita, mentre i volumi della Biblioteca sono finiti, ma ogni volume della serie infinita di volumi che compongono in modo ordinato la serie dei numeri naturali è composto solo dei 12 caratteri e delle 30 pagine dei volumi della Biblioteca.

Dobbiamo naturalmente pensare che alcuni numeri saranno così lunghi da scrivere che occuperanno più di un'intero volume, ma questo non è un problema, se ipotizziamo che un numero non lo consideriamo concluso se non è seguito da virgola e spazio, e se un volume si conclude con un carattere numerico e il successivo volume inizia con un carattere numerico dobbiamo considerare che il numero espresso stia "a cavallo" dei due volumi.

Ulteriore paradosso nel paradosso: i volumi della serie ordinata dei numeri naturali, in un certo senso, sembrerebbero dover essere di meno dei volumi totali della Biblioteca, perché i volumi totali contengono anche tutti quelli composti da cifre in totale disordine, quindi molti di più di quei pochi (ma infiniti!) volumi ordinati della serie.


Attenzione!!! Questo paradosso è stato RISOLTO da Achille Varzi! 

Il Paradosso della Quantità del Dicibile e il Paradosso della serie dei numeri naturali nella Biblioteca di Babele

 


PARADOSSO DELLA QUANTITÀ DEL DICIBILE

Vorrei qui provare a riformulare, in modo più rigoroso, più semplice e più paradossale, quello che altrove, in questo stesso blog, ho chiamato "Il paradosso della Biblioteca di Babele", con annessi post (in fondo trovate tutti i link ai post collegati, più qualche novità recente che ho trovato in rete... qualcuno, pensate, ha realizzato una Biblioteca di Babele virtuale, consultabile!!!).

Borges è certamente la fonte ispiratrice, ma vorrei qui cercare di mantenere, del suo racconto, solo l'idea di fondo: l'idea del numero finito, per quanto altissimo, di combinazioni possibili delle lettere dell'alfabeto, più lo spazio e segni di interpunzione, entro un formato definito di modello di pagina e entro un numero finito di pagine per volume.

La prima questione, per dare una formulazione rigorosa al paradosso, è la lunghezza dei testi di senso compiuto. È infatti evidente che vi possono essere testi più corti, rispetto ai volumi della biblioteca immaginata da Borges, e testi più lunghi. Questo di per sé non costituisce un problema, rispetto al mantenimento della sua idea di fondo: testi più corti si possono ipotizzare con pagine bianche finali, derivanti dall'iterazione dello spazio, mentre testi più lunghi si possono ipotizzare con la distribuzione su più tomi (sempre però contenuti nella Biblioteca!). Ma la questione importante è la seguente:

possiamo ipotizzare un testo di senso compiuto che abbia una lunghezza infinita?

Il fatto stesso che abbia un senso compiuto ci spingerebbe a pensare che non sia concepibile. Ma siamo proprio sicuri? Non potrebbe esserci un testo (ovviamente composto da una molteplicità di tomi) che racconti una storia infinita e quindi sia a sua volta infinito, cioè composto da infiniti volumi?

Diciamolo chiaramente: il concetto di senso viene qui a cozzare col concetto di lunghezza infinita. Ma dobbiamo anche ammettere che il nodo è collegato col concetto di storia. Una storia, almeno le storie concepite da noi umani, deve avere un inizio e deve avere una fine. Se no che storia è? Una storia, se è narrata da umani, per avere senso dev'essere finita. Ma una storia che descriva la storia dell'universo, non potrebbe essere infinita? Diciamo di sì, e diciamo che possiamo concepirla più facilmente come un elenco, un elenco di "anni", o "millenni", ciascuno con la sua descrizione, in un'evoluzione infinita e ogni volta differente dalla precedente.

Un elenco infinito non è logicamente inconcepibile. Anche perché somiglia molto alla serie infinita dei numeri naturali: un classico infinito potenziale. Immaginiamo quindi, per comodità, che un volume di X pagine corrisponda alla descrizione di un secolo di "storia naturale dell'universo".  Ma se questo è ipotizzabile (ma solo nel caso in cui l'universo non sia spazialmente infinito, perché altrimenti NON potrebbe esserci un numero finito di pagine sufficiente a descrivere lo stato dell'universo nel suo complesso, neanche per un solo istante, figuriamoci per un millennio!),  ecco che siamo già dentro il paradosso, perché da un lato i volumi dovrebbero essere infiniti, ma ciascuno di essi sarebbe composto da un numero finito di pagine, quindi sarebbe un volume dentro la Biblioteca!

Allora, ricapitolando e cercando di ridurre all'osso la questione. Da un lato posso concepire una serie infinita di volumi, collegati uno all'altro dal fatto che descrivono una serie temporale infinita di eventi, che descrivano una storia infinitamente variante, che non si ripete mai. Dall'altro lato, sono costretto ad ammettere che ciascun volume abbia un numero finito di pagine e sia composto da un numero finito di caratteri, e che quindi (Borges insegna!) non possa essere una serie infinita (a meno che non inizi ad un certo punto a ripetersi!).

Il paradosso della quantità del dicibile consiste dunque in questo: da un lato ci sembra logicamente ammissibile che il dicibile (da lato di ciò che viene espresso, il contenuto rappresentato da una serie di proposizioni dichiarative) sia una quantità infinita. Dall'altro ci sembra anche logico che essendo il nostro linguaggio composto da un numero finito di fonemi/caratteri, le combinazioni possibili di questi caratteri, entro un formato compiuto che corrisponda a unità di senso (una proposizione, un insieme di proposizioni che possa costituire un discorso, più discorsi unti insieme a costituire un libro, un testo composto da più libri) siano corrispondenti a un numero finito.

In estrema sintesi: abbiamo buone ragioni di pensare che il dicibile sia infinito come contenuto ma sia finito come forma.


PARADOSSO DELLA SERIE DEI NUMERI NATURALI NELLA BIBLIOTECA DI BABELE

Si consideri la serie dei numeri naturali, ma espressi in lettere:

uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici....

Si tratta di un testo potenzialmente infinito, con un inizio preciso e un ordine preciso. Questo testo lo possiamo perfettamente immaginare come composto da una serie infinita di volumi, in una sequenza progressiva ma rigorosamente ordinabile. Ora, la cosa veramente paradossale è che questa serie infinita di volumi NON potrebbe essere contenuta nella Biblioteca di Babele (che come tutti sanno è composta da un numero  finito di volumi, per quanto incredibilmente grande) ma ciascun volume, contenendo un numero finito di pagine ed essendo composto solo da lettere, virgola e spazi, DOVREBBE rientrare nelle Biblioteca di Babele!!!




Post precedenti sull'argomento:


Il paradosso della Biblioteca di Babele

novità in rete:

La biblioteca totale di Borges realizzata al PC

Library of Babel


29 dicembre 2023

Attività vacanziere

 






Ho interrotto la spiegazione di Marx, prima delle vacanze, proprio prima di iniziare la parte sul Capitale, e in questi giorni di solitudine casalinga, prima dell'arrivo di mia figlia e i previsti giorni in montagna, forse anche perché ho passato il Natale con mia cugina Benedetta Napoleoni a Roma, mi è venuta voglia di riprendere lo studio di alcuni passaggi e capitoli (e di Valore ho affrontato parti che non avevo mai letto, leggendolo quasi per intero) di libri di mio zio Claudio, seguendo un percorso per chiarire l'alternativa moderna alla teoria del valore-lavoro e arrivando alle sue riflessioni su Sraffa e sui limiti della scienza economica.
Mi piacerebbe approfondire e dare organicità a questo percorso, magari ricostruendolo in un futuro post.
Ci riuscirò?
Intanto obiettivo a breve termine è una presentazione su Marx che avevo già iniziato prima delle vacanze e vorrei completare prima della ripresa.

10 dicembre 2023

Inutile tentare definizioni unilaterali sulla NATURA UMANA





L'argomento di Giovanni Piana per sostenere l'inconsistenza filosofica dell'opposizione tra pessimismo e ottimismo è trasferibile anche alla "disputa" ideale tra Hobbes e Locke sulla "natura umana" (l'UOMO è SOCIALE per natura o è EGOISTA per natura?).

Abbiamo ragionevoli motivi, basati sull'esperienza, per sostenere SIA una tesi SIA l'altra. Quindi significa che la realtà in questo caso non è definibile unilateralmente: l'uomo è sia tendente alla socialità sia tendente all'egoismo. 

Dedurre l'una tesi, o l'altra, da princìpi, senza tenere conto dell'esperienza, è evidentemente, a questo punto, una mossa dogmatica, che risulta intrinsecamente debole.

Ma tutto ciò non vanifica allora anche le riflessioni generali che tendono a dare una definizione univoca della "natura umana"?

Ciò significa che l'uomo è intrinsecamente polivalente? Avrebbe avuto ragione Pico della Mirandola?

Forse qui si nasconde il segreto della natura umana, che sarebbe però sbagliato ridurre a una definizione unilaterale, per esempio dicendo che l'uomo è radicalmente libero (o è condannato a essere libero, come diceva Sarte), perché allora subito si può contrapporre a questo l'esperienza degli infiniti condizionamenti a cui è sottoposto l'essere umano... e si entra nel labirinto della questione libero arbitrio/determinismo-

Se, rispetto a certe proprietà concettualmente antitetiche, l'esperienza mostra la loro compresenza, diventa filosoficamente inutile accanirsi con argomenti a sostegno di opposte tesi unilaterali.




11 novembre 2023

Giovanni Piana sull' "inconsistenza filosofica dell'opposizione tra pessimismo e ottimismo"

 



La lettura del bell'articolo di Piercarlo Necchi

Sopra un recentissimo episodio nel Pessimismusstreit. L''Excursus sul pessimismo' di Massimo Cacciari in "Metafisica concreta" (Adelphi, 2023)

mi ha risvegliato la curiosità di andare a vedere cosa dice Giovanni Piana a proposito del pessimismo di Schopenhauer nei suoi Commenti a Schopenhauer, in particolare nel quinto di questi.

Rispetto all'articolo di Necchi, faccio riferimento solo a due cose:

1) alla equivalenza, secondo Cacciari, della domanda metafisica fondamentale (Perché vi è qualcosa e non piuttosto il nulla?) con la domanda "perché l’essente è mortale e non piuttosto immortale?” (pp. 19-20 di Metafisica concreta) e

2) al fatto che Schopenhauer, con il suo pessimismo, avrebbe impedito a Nietzsche di "tornare a Spinoza" come avrebbe voluto.

Rispetto alla prima questione, sulla scorta di Piana, ricordo che proprio lo stesso Schopenhauer ci propone un'immagine della natura nella quale al centro vi è il vivente. Il mondo viene visto come vita, come forza cieca che produce l'infinità del processo di costante autoproduzione della vita. In questa prospettiva la morte "dissipa l'illusione che separa la coscienza individuale dall'universale" - scrive Piana. La morte appartiene interamente al mondo delle apparenze, fa tornare nel mondo dei sogni quello che è sempre stato un sogno: la MIA vita non è che la manifestazione DELLA vita. La natura è quindi in realtà immortale. I cadaveri equivalgono a escrementi, materia espulsa provvisoriamente dal grande processo della vita ma destinata a ritornarci. Per Piana, in Schopenhauer la tragicità della morte va superata verso un naturalismo che mantiene ferma l'idea della perennità della vita. La vita non va concepita come emergenza tra due nulla: ciascuno di noi è TUTTA la natura, quindi condividiamo la sua vita perenne.

Arrivando alla famosa questione del pessimismo di Schopenhauer, la tesi di Piana è la seguente: il pessimismo, in realtà, non è il centro del pensiero di Schopenhauer (più precisamente: "il 'pessimismo' non è, per così dire, scritto dappertutto nella filosofia di S. e non è sempre una conseguenza logica di ogni sua presa di posizione. Ciò rende il suo pensiero ricco di tensioni interne che contribuiscono al suo interesse.") e, soprattutto, l'opposizione ottimismo/pessimismo è filosoficamente "assai poco produttiva". Sono consapevole che questa posizione sembrerà scandalosa a Piercarlo, ma spero che voglia provare a entrare in questo discorso e magari, incuriosito dalla mia sintesi, che voglia leggersi i commenti di Piana a Schopenhauer.

Occorre partire dal §56 del Mondo Ogni vivere è per essenza un patire.

Il nesso tra vita e dolore NON sta nei dolori fisici o morali che possono capitarci, riguarda piuttosto l'essenza stessa della Volontà. Già nei gradi inferiori dell'oggettivazione della Volontà vi sono tensioni, conflitti, azioni e reazioni, attrazioni e repulsioni; la Volontà è SFORZO, TENSIONE verso una realizzazione che si supera in una nuova tensione. La Volontà è STREBEN (tendere + pena della tensione) che appare tanto più nei fenomeni della vita organica: sforzo senza tregua, senza scopo, senza appagamento ultimo, senza riposo. E nella vita animale diventa BEGIERDE, desiderio, tensione verso l'appagamento, che riemerge dopo l'appagamento. Il dolore consiste nel desiderio perennemente inappagato, perché ogni tensione sorge da una mancanza ed è quindi sofferenza.

È da notare che dire questo è cosa diversa dal lamentarsi per i mali del mondo, e anche se S. scrive pagine di lamento, queste pagine sono da considerarsi "una sorta di concessione letteraria". Ma perché?

Perché ad ogni tentativo di enumerare i mali può essere contrapposto un tentativo di enumerare i beni, e chi vince? Vince chi ha più perseveranza? L'enumerazione dei mali e dei beni si risolve in un puro discorso retorico.

Ma anche seguendo la via della pura deduzione da principi sembra che non si riesca a superare l'inconsistenza filosofica dell'opposizione tra pessimismo e ottimismo. Si deduce il pessimismo (nel caso di Schopenhauer come abbiamo visto, da un'interpretazione dell'essenza della volontà) oppure si deduce l'ottimismo (da altri princìpi, come in Leibniz, dall'infinità dei mondi possibili e dalla bontà di Dio) ma entrambe le posizioni vengono sostenute comunque vadano le cose in realtà (o meglio in apparenza, secondo S.). Per gli uomini comuni, la realtà è quella che concretamente sperimentano, con i diversi casi, nel bene e nel male, che si avvicendano in essa. 

Da un lato, quindi è inconcludente l'elencazione empirica (e io qui aggiungerei anche che nell'esperienza concreta il desiderio sessuale sembra sfuggire all'interpretazione di Schopenhauer, perché è a tutti noto che la tensione sessuale, l'eccitazione, non è sofferenza, bensì il contrario... tant'è che molti cercano di prolungare il cosiddetto "piacere preliminare"...), ma è inconcludente anche la via che deduce da princìpi, perché possiamo sostenere sia il pessimismo, sia l'ottimismo (partendo da princìpi diversi) all'insegna del tanto peggio per la realtà.


10 novembre 2023

La sonata K126 di Domenico Scarlatti: interpretazioni diverse

 



"Questa sonata, struggente e capricciosa," scrive Christian Lorandin "esprime la profonda malinconia e l'incredibile fantasia, per non dire follia, di certi brani popolari spagnoli. È intriso di questo folklore. Acciaccature, rasgueado, modalità, modulazioni imprevedibili, tetracordo discendente, forniscono il materiale per questa pagina. La serie di arpeggi ricorrenti distribuiti tra le due mani che tessono uno spazio infinito, come la volta stellata delle calde notti andaluse che contempliamo, mentre il profumo degli aranci si mescola a qualche musica popolare che risuona in lontananza, aggiunge l'impressione di estrema solitudine e semplicità contemplativa avvertita fin dall'inizio dell'opera."

Possiamo immaginare che Scarlatti, trasferitosi in Portogallo nel 1719 e in Spagna nel 1729, abbia assistito alle prime forme di canti di origine andalusa/gitana che prenderanno poi il nome di flamenco.

In questa sonata il rimando a questo elemento culturale, a mio avviso, è evidente a partire dalla battuta n. 17, dove si introduce una melodia semplice ma estremamente sinuosa, con un intervallo di settima diminuita prima discendente e poi ascendente... 

Vi invito ad ascoltare per intero la sonata nella versione per clavicembalo di Scott Ross (qui presentata con lo spartito grazie a Miguel Fontes Meira)


Una versione alternativa a quella di Ross, sempre per clavicembalo, è quella di Frédérick Haas. Interessante, ma mi sembra che nello sforzo di essere più espressivo perde l'incalzare del ritmo, che invece Ross tiene magnificamente. 


Un altro clavicembalista che invece tiene il ritmo, ma con rallentandi espressivi efficaci, è David Louie:

 

Entriamo adesso nelle versioni per pianoforte, dove lo strumento consente di sottolineare la drammaticità della sonata. 

Ascoltiamo l'interpretazione di François Weigel, che gioca in modo (forse eccessivo! ma) divertente con le accelerazioni:


Ecco una versione per pianoforte di Andrea Molteni, che aggiunge molti "abbellimenti"...


Ed  ecco l'interpretazione di Lorandin, cha ha inserito in YouTube anche il brano descrittivo col quale abbiamo aperto questo post. Apprezzo lo sforzo drammatico di Lorandin... traspare tutta la sua ammirazione per questa sonata, che racchiude in un'apparente semplicità sentimenti profondi. Sono d'accordo con lui...  vi sono in questa sonata sia una forte sensualità sia un forte senso di solitudine malinconica.



Ma ritornerei, da ultimo, ad ascoltare la versione per cembalo di Scott Ross, che alla luce delle precedenti scorribande interpretative risplende per il suo solare equilibrio ritmico ed espressivo:


1 novembre 2023

La storia della logica in 24 video di Odifreddi

 



Per comodità riporto qui il link col quale è possibile accedere alla lista completa delle lezioni di Odifreddi sulla storia della logica.


PIERGIORGIO ODIFREDDI - STORIA DELLA LOGICA

22 ottobre 2023

Per la STORIA del METAVERSO (the history of the metaverse) #1: come inizia ad apparire in SNOW CRASH (how it begins to be created: in SNOW CRASH)

 



L'idea del METAVERSO (vedi in italiano: METAVERSOvedi anche questo articolo breve ma efficace) nasce nella mente di uno scrittore di fantascienza: Neal Stephenson. La prima concretizzazione di questa idea avviene in un suo romanzo: SNOW CRASH, pubblicato nel 1992.

(Ma prima? Non c'era stato già qualche antecedente? Per saperne di più, oltre ai link già indicati, vedi anche questo e History and Evolution of the Metaverse Concept di Benjamin Talin!!

Su eXistenZ, uno dei film in cui il metaverso viene sviluppato narrativamente, ho scritto qualcosa in questo post)

Riporto di seguito i brani più significativi di questo romanzo riguardo alla descrizione del Metaverso e a riflessioni circa la sua natura. Certo, è strano voler scrivere la storia di qualcosa che propriamente – come qualcosa di unico, unificato – non esiste (ancora). È possibile però già accedere ad alcuni metaversi...  ma quello di Meta è un work in progress...

[Cap. 2:]

 Il deliverator sporge dal finestrino fracassato il braccio avvolto nell'uniforme nera. Un rettangolo bianco brilla nella luce fioca del giardino: è un biglietto da visita. Al successivo passaggio, il corriere glielo strappa dalle mani e lo legge. C'è scritto:

HIRO PROTAGONIST

Ultimo hacker freelance Supremo manipolatore di spade da samurai Agente della Central Intelligence Corporation Specializzato in informazioni riservate nel campo del software (musica, film e microcodici)

Sul retro segni impronunciabile che spiegano come contattarlo: un numero di telefono. Un codice di reperibilità universale via segreteria telefonica. Una casella postale. Indirizzo in una mezza dozzina di reti di comunicazione elettroniche. Un recapito nel Metaverso.


[Cap. 3:]

Hiro (...) indossa occhialoni a specchio che gli coprono metà della testa, dotati, all'estremità delle stanghette, di auricolari che vengono infilati nella cavità più estrema delle orecchie. (...)

Gli occhialoni gettano una leggera foschia davanti ai suoi occhi e riflettono una vista grandangolare e distorta di un viale illuminato da luci brillanti che si perde in un'oscurità infinita. Il viale non esiste veramente: è la veduta di un posto immaginario creata dal computer. (...)

La faccia superiore del computer è tutta liscia, eccetto la lente con obiettivo fisheye, una semisfera di vetro ben pulito coperta da un rivestimento ottico violaceo. Ogni volta che Hiro usa la macchina, la lente si solleva e si sistema al suo posto e la base si accende insieme alla superficie del computer, che riflette, capovolto e incurvato, il loglo del quartiere. (...)

Dentro il computer ci sono dei laser, uno rosso, uno verde e uno blu. Sono abbastanza potenti da emettere una luce brillante, ma non da bruciargli la papilla ottica, cuocergli i cervello, friggergli le ossa frontali e fondergli i lobi. Come si impara alle elementari, le luci di questi tre colori possono essere combinate a diverse intensità per produrre tutte le tinte che Hiro è in grado di vedere. 

In tal modo, dall'interno del computer, può essere emesso, attraverso la lente fisheye, un piccolo raggio del colore desiderato, in qualsiasi direzione. Gli specchietti elettronici collocati dentro la macchina fanno schizzare il raggio avanti e indietro sulle lenti degli occhialoni di Hiro, proprio come un raggio elettronico all'interno di un televisore colora la superficie interna del Tubo eponimo. L'immagine che ne risulteresti sospesa nello spazio tra Hiro e la Realtà.

Disegnando un'immagine leggermente diversa di fronte a ognuno degli occhi è possibile creare un effetto tridimensionale. Cambiando l'immagine settantadue volte al secondassi genera l'impressione del movimento. Disegnando l'immagine tridimensionale in movimento a una risoluzione di 2k pixel per lato si raggiunge il massimo grado di nitidezza percepibile a occhio nudo e pompando il suono di uno stereo digitale nei piccoli auricolari è possibile dotare le immagini tridimensionali in movimento di una perfetta colonna sonora.

Quindi, Hiro non è affatto lì dove si trova, bensì in un universo generato dal computer che la macchina sta disegnando sui suoi occhialoni e pompando negli auricolari. Nel gergo del settore, questo luogo immaginario viene chiamato Metaverso. Hiro trascorre molto tempo nel Metaverso. Lo aiuta a dimenticare la vita di merda del D-Posit.

Hiro sta per arrivare sulla Strada – la Broadway, gli Champs-Élysées del Metaverso. È il viale che si vede riflesso, in miniatura e al contrario, sulle lenti dei suoi occhialoni. Non esiste in realtà. Ma in questo preciso istante, milioni di persone lontano percorrendo avanti e indietro. (...)

Come un qualsiasi luogo della Realtà, la Strada è soggetta all'espansione edilizia. Gli imprenditori edili possono costruire piccole strade provate che si dipartono dalla via principale. Possono costruire case, parchi, segnali e persino altre cose che non esistono nella Realtà, come per esempio giganteschi spettacoli di luci sospese in alto, speciali zone edilizie in cui vengono ignorate le regole dello spazio-tempo tridimensionale e aree di libero combattimento dove ci si può inseguire ed ammazzare a volontà.

L'unica differenza (...) è che nessuna di queste cose è stata costruita fisicamente. Si tratta piuttosto di un software messo a disposizione del pubblico su tutta la rete a fibre ottiche globale. Quando Hiro va nel Metaverso e vede la Strada e i segnali elettrici che si estendono nell'oscurità fino a perdersi dietro la curva del globo, in realtà sta osservando delle rappresentazioni grafiche, le interfacce-utente, di una miriade di software diversi, progettati dalle imprese più importanti. (...)

Il cielo e il suolo sono neri, come uno schermo di computer su cui non sia stato ancora disegnato nulla; è sempre notte nel Metaverso e, con le sue luci brillanti, la Strada rifulge come una Las Vegas libera dai vincoli della fisica e della finanza.


[Cap. 5:]

Avvicinandosi sulla Strada, Hiro vede due giovani coppie, che probabilmente stanno usando il computer dei loro genitori per un doppio appuntamento nel Metaverso, scendere alla fermata di Porto Zero – luogo d'accesso della zona e capolinea della Monorotaia.

Naturalmente, non sta vedendo persone reali. È solo una parte dell'immagine disegnata dal suo computer, in base ai dati provenienti dal cavo a fibre ottiche. Le persone sono pezzi di software detti avatar. Si tratta di corpi audiovisivi che la gente usa per interagire nel Metaverso. (...)

Il tuo avatar può avere l'aspetto che preferisci, nei limiti dati dagli strumenti di cui disponi. Se sei brutto, puoi avere un avatar bellissimo. Se sei appena sceso dal letto, il tuo avatar può essere vestito e truccato perfettamente. Nel Metaverso puoi avere l'aspetto di un gorilla, di un drago o di un gigantesco pene parlante. Provate a camminare per cinque minuti su e giù per la Strada e ne vedrete delle belle. (...)

Nel Metaverso non puoi materializzarti ovunque ti salti in mente, come il capitano Kirk che scende dall'astronave col trasportatore. Ciò creerebbe confusione e irritazione tra la gente lì intorno. Sarebbe la fine della metafora. (...) Oggigiorno, gli avatar sono perlopiù anatomicamente corretti, e nudi come bambini al momento della loro creazione, quindi devi comunque renderti presentabile prima di apparire sulla Strada. (...) Se sei una specie di peone senza Casa, per esempio una persona che si collega da un terminale pubblico, ti materializzi in un Porto. Ci sono 256 Porti Express sulla Strada, distribuiti sulla sua circonferenza a intervalli regolari di 256 chilometri. (...)

Se questi avatar fossero persone vere su una strada vera, Hiro non riuscirebbe a raggiungere l'entrata. Ce n'è una marea. Ma il sistema del computer che controlla la Strada ha ben altro da fare che seguire ogni singolo individuo tra i milioni di persone che girano in questo posto., per evitare che si scontrino l'uno con l'altro. Non prova neanche a risolvere un problema così difficile. Sulla Strada gli avatar si trapassano tranquillamente. Dunque, quando Hiro fende la folla per raggiungere l'entrata, la fende nel vero senso della parola.


[Cap. 7:]

(...) 

Non serve a niente avere un nell'avatar sulla aStrada, dove ce n'è talmente tanti da doversi fondere e fluire uno nell'altro. Ma il Sole Nero è un prodotto software molto più di classe. Al suo interno gli avatar non possono urtarsi. Ci può entrare solo un certo numero di persone alla volta e queste non possono trapassarsi. Ogni cosa è solida e opaca e realistica. E la clientela ha molta più classe – qui i peni parlanti non entrano. Gli avatar sembrano persone vere.

13 settembre 2023

Invito all'ascolto: Nothing Else Matters

 



A volte la pubblicità mi consente di scoprire brani musicali interessanti o addirittura autori importanti che conosco poco o del tutto a me sconosciuti.

E' quanto mi è successo di recente con la pubblicità della Renault Austral (nell'immagine sopra).

L'atmosfera misteriosa e concentrata del brano corale che si sente mi ha attratto, e una breve ricerca su Google mi ha consentito di scoprire che si trattava di una cover per coro di un brano dei Metallica...

Propongo l'ascolto partendo dal brano originale dei Metallica, per arrivare alla versione di Scala & Kolacny Brothers.


Propongo infine una bellissima versione per chitarra:

5 marzo 2023

Due conseguenze di una fantasia

 






Un giorno, molti anni fa, ho immaginato che in futuro si potesse inventare una macchina in grado di misurare il grado di libertà delle nostre scelte.

Da questa fantasia ho sviluppato due cose:

1) un racconto fantascientifico (o "fantafilosofico", se vogliamo provare a usare questo termine)

La macchina del libero arbitrio (parte I e parte II)

2) un saggio breve, in veste accademica, con note e bibliografia, destinato a un pubblico più ristretto ma scritto, spero, con un linguaggio sufficientemente chiaro per poter essere letto anche dai "non specialisti":

Sulla coesistenza consistente di necessità e contingenza. Saggio sul libero arbitrio

4 marzo 2023

Sulla coesistenza consistente di necessità e contingenza. Saggio sul libero arbitrio

 




0. Introduzione

1. Libero arbitrio = autodeterminazione + contingenza

2. La macchina del libero arbitrio

    2.1 Necessità completa: autodeterminazione senza contingenza

    2.2 Contingenza completa: cade l’autodeterminazione

    2.3 Necessità e contingenza moderate e coesistenti

    2.4 Il limite del libero arbitrio

3. L’autodeterminazione come dato fenomenico e fenomenologico

4. Il libero arbitrio come potenzialità da realizzare e accrescere

5. Libero arbitrio, moralità, politica



0. Introduzione


La questione del libero arbitrio si può formulare, in modo semplice, con una domanda:


“È vero che gli esseri umani siano in grado di compiere delle scelte libere?”


Libere sia nel senso che non siano determinate da fattori che sfuggano al loro controllo, ma anche nel senso che, pur essendo state compiute, si possa sostenere che il soggetto avrebbe potuto scegliere altrimenti”.


Il problema del libero arbitrio è un esempio classico di problema filosofico che attraversa le epoche storiche e si ripresenta ogni volta in forme nuove, pur conservando un nucleo problematico che pare eterno e forse irrisolvibile. Anche altri problemi filosofici hanno queste caratteristiche, ma questo problema, io sostengo, ha un primato e insieme occupa una posizione singolare, strana, nel campo filosofico. 

Alcuni filosofi sono “ossessionati” (o più bonariamente potremmo dire “appassionati”) da questo problema, mentre altri lo considerano del tutto marginale e irrilevante. Non si capisce bene, guardando da fuori il campo filosofico, quanto sia realmente importante. 

      Altri problemi filosofici, invece, sono indubbiamente importanti e centrali. Faccio solo alcuni esempi in proposito: il problema della conoscenza e il problema dell'essere. Sono sicuramente importanti, anzi fondamentali, e questo è testimoniato dal fatto che  ciascuno ha dato origine a un’intera (o addirittura a due) disciplina filosofica: il problema della conoscenza alla gnoseologia e all’epistemologia, il problema dell’essere alla metafisica e all’ontologia. Così l’etica ha alla base il problema del bene e la logica il problema della verità.

       Ma esiste una disciplina filosofica che abbia alla base il problema del libero arbitrio? Si direbbe di no.

Ha a che fare con la natura umana, ma si radica prima ancora in questioni che riguardano la conoscenza della natura e la conoscenza in generale. Ha una vocazione intrinsecamente teoretica, ma si pone perfettamente a cavallo tra lo sguardo teorico e la spinta all’azione. È nell'agire che noi ci sentiamo liberi, ma il problema più propriamente si colloca nello scegliere cosa fare, quando pensiamo in vista dell’azione. Forse si potrebbe dire che la disciplina filosofica alla quale appartiene il problema del libero arbitrio è la “filosofia dell’azione", ma non è del tutto vero nemmeno questo, perché il problema contiene in sé il rimando a ipotesi deterministiche o fatalistiche che poco hanno a che fare con lo studio dell’uomo. La questione è proprio che i motivi che generano il problema stanno nello scontro fra modelli di pensiero che sorgono nella riflessione sulla natura, o meglio sulla conoscenza della realtà in generale, e modelli che sorgono quando ci si occupa dell’uomo e in particolare del suo comportamento e del suo pensiero in vista del comportamento.

      Quindi è un problema di confine, di limite fra modelli, e direi che i campi che vengono chiamati in causa dal problema sono il campo soggettivo e il campo oggettivo. Il problema del libero arbitrio sorge quando il punto di vista soggettivo si scontra con lo sforzo di raggiungere un punto di vista oggettivo (cioè quando si scontra con le “scienze”, o meglio con l’interpretazione dominante del paradigma esplicativo delle “scienze”).

      In questo senso, io ritengo che il problema sia realmente importante, anzi ritengo che sia veramente centrale nel campo filosofico, per il fatto che “contiene” e rimanda a tutta la problematica relativa all’uomo, e in definitiva riguarda la questione della dignità umana, del valore dell’uomo, di ciò che lo contraddistingue, e d’altra parte “contiene” e rimanda a tutta la problematica gnoseologico-epistemologica, perché le istanze di negazione del libero arbitrio vengono proprio da punti di vista “esterni” all’uomo stesso, oppure che guardano all’uomo come a un ente naturale che deve sottostare a “leggi di natura”.


In questo breve saggio intendo approfondire la struttura concettuale dell’idea di libero arbitrio, propongo un esperimento mentale che serve a chiarire e sviluppare i nessi concettuali fra le componenti del concetto di libero arbitrio, e, collegando i risultati di questo esperimento mentale con un’analisi fenomenologica, argomentare una presa di posizione riguardo alla classica questione del libero arbitrio. Anticipando in breve la tesi, il libero arbitrio si compone di due concetti: l’autodeterminazione e la contingenza. Mentre la contingenza ha una natura controfattuale, che tende quindi a collocare i discorsi sul libero arbitrio nell’ambito metafisico, l’autodeterminazione ha una natura fenomenica, rilevabile o empiricamente (“dall’esterno”) o fenomenologicamente (“dall’interno”). Ciò consente di considerare la questione classica come una questione solo parzialmente metafisica (legata oggi alla disputa fra deterministi e indeterministi, così come a quella fra “compatibilisti” e “incompatibilisti” nel campo dei deterministi), e consente di proporre un’idea di libero arbitrio come potenzialità la cui realizzazione, mai assoluta, in gradi variabili su un continuum, e in misure diverse a seconda delle persone, è almeno parzialmente verificabile


Come abbiamo già detto, la questione classica è riassumibile nella domanda: “è vero che gli esseri umani siano in grado di compiere delle scelte libere?”. Va subito precisato che la vera questione non riguarda la libertà di fare ciò che si vuole (una libertà accertabile empiricamente senza troppe difficoltà) bensì la libertà del volere stesso, che viene da più parti negata, soprattutto da chi assume una generale visione deterministica rispetto agli accadimenti naturali. Possiamo realmente scegliere cosa volere? (Non quindi: “possiamo fare ciò che vogliamo?”, anche perché la libertà di fare ciò che si vuole dipende molto dalle circostanze concrete in cui ci si trova e da quali siano i contenuti del nostro volere.)

Anche senza assumere il punto di vista che considera l’uomo come un ente naturale, in una prospettiva metafisica di tipo deterministico, si può comunque esemplificare il problema con una breve riflessione. Poniamo che alla base di una mia scelta, che ritengo libera, ci sia una certa volizione, e che questa volizione sia motivata da un desiderio, un desiderio che sento inequivocabilmente come mio. Ebbene, posso forse dire di aver scelto di avere quel desiderio? I desideri, come anche i bisogni, sembrano indicarci che perfino nel nucleo più intimo del nostro essere personale esistono elementi che non dipendono da noi stessi. D’altra parte qualcosa ci impedisce di abbandonare l’idea del libero arbitrio, ed è la convinzione che nel libero arbitrio risieda il nucleo fondante del valore dell’essere umano, in altri termini ciò che caratterizza l’essere umano rispetto agli altri animali.

Troviamo una sintesi di questa situazione problematica nell’apertura del quarto capitolo di Spiegazioni filosofiche di Robert Nozick (1981), il capitolo dedicato appunto al libero arbitrio:


Senza libero arbitrio noi sembriamo come diminuiti, semplici trastulli di forze esterne. Ma allora come possiamo conservare un’idea elevata di noi stessi? Il determinismo sembra invalidare la dignità umana, sembra distruggere il nostro valore.



Pur rinunciando al compito di rendere conto del dibattito contemporaneo vorrei preliminarmente richiamare l’attenzione del lettore sulla connessione esistente fra il problema classico sopra ricordato e il problema del rapporto fra “scienze della natura” e “scienze dell’uomo”.

Vi sono due diversi punti di vista dai quali è possibile osservare e conoscere la realtà umana: il punto di vista che considera l’uomo come uno fra i tanti enti naturali, e che applica quindi (per esempio nella conoscenza del cervello e delle sue “prestazioni”) i modelli tipici delle scienze “dure”, e il punto di vista che considera l’uomo come un ente con una sua peculiarità, che lo rende irriducibile ai modelli conoscitivi delle scienze naturali e che richiede l’utilizzo di modelli e linguaggi diversi, modelli e linguaggi che si basino sul modo in cui l’uomo si “auto-percepisce”, nel suo rapporto con se stesso e con gli altri esseri umani. Questi due punti di vista spesso faticano a convivere, e un aspetto  di queste difficoltà è stata la frattura, in filosofia, fra analitici e continentali. Anche se oggi per molti aspetti la frattura sembra superata, io credo che in realtà resista, pur manifestandosi in forme diverse da quelle originarie (ricordo ad esempio la forte polemica interna al Dipartimento di Filosofia della Statale di Milano nel 2015), perché sotto a tale frattura c’è il problema, persistente, del libero arbitrio, che tuttora frammenta il campo filosofico, così come vi è, fortissima, la frattura attuale (anch’essa collegata) fra chi continua a considerare l’etica e i valori alla maniera di Hume, sostenendo forme di convenzionalismo e soggettivismo, e chi sostiene un approccio realista-oggettivista. Manca soprattutto, in filosofia, una posizione condivisa sulla natura umana, in particolare sul tema se l’agire umano sia determinato sostanzialmente da ragionamenti o sostanzialmente da pulsioni/tendenze biologiche.



1. Libero arbitrio = autodeterminazione + contingenza

L’autore nel cui lavoro il concetto filosofico di libero arbitrio viene elaborato per la prima volta nel modo più compiuto è Agostino (354-430 d.C.).

Nel suo pensiero emergono in modo chiaro due componenti concettuali che sono essenziali per il significato completo di “libero arbitrio”: la contingenza e l’autodeterminazione. Agostino vuole sostenere che non possiamo ritenere Dio responsabile delle azioni malvagie compiute dall’uomo (a cominciare dal peccato originale). Le azioni malvagie dell’uomo, infatti, sono il frutto di scelte libere. Il che significa due cose:

1) solo chi fa la scelta, non Dio, ne è il vero autore. In questo troviamo l’origine del concetto di autodeterminazione, come componente essenziale del libero arbitrio.

2) chi sceglie di compiere un’azione malvagia avrebbe potuto non farlo, nel senso che si trattava di una genuina scelta, non necessitata né dall’onniscienza (o prescienza) divina, né da un’eventuale predestinazione legata all’onnipotenza divina. In questo troviamo l’origine del concetto di contingenza, come componente essenziale del libero arbitrio.

Il concetto di libero arbitrio viene elaborato, nel contesto della problematica sul male in relazione alla responsabilità divina, come una qualità delle scelte umane. Queste scelte non dipendono da una decisione antecedente di Dio: ciò significa che dipendono solo dall’uomo (autodeterminazione) e che non sono necessitate in alcun modo da Dio (contingenza).

In seguito, con l’Umanesimo, il concetto di libero arbitrio viene assunto come base per chiarire e sostenere il valore dell’essere umano in quanto tale. La dignità umana, rispetto alle cose naturali in generale, consiste proprio nella sua facoltà di scegliere cosa fare, nelle singole azioni, ma più in generale nel suo poter decidere cosa essere, in che direzione orientare la propria vita. L’uomo, dice Pico della Mirandola, non ha una sua natura già definita (come invece le altre creature), ma deve scegliere se tendere verso il divino e la ragione o verso la terra e i sensi, e in questa sua libertà consiste la sua dignità.

Nel passaggio sopra citato Robert Nozick, chiamando in causa il determinismo come “avversario” del libero arbitrio, semplifica un percorso storico partito già nell’antichità, con filosofi (soprattutto in ambito stoico) che, richiamandosi all’idea del Fato o del Destino, avevano messo in dubbio o sostanzialmente negato la possibilità umana di scegliere liberamente, anche prima che questa possibilità venisse esplicitamente elaborata e sostenuta da Agostino (prima di Agostino già Aristotele aveva tematizzato la libertà del volere). Dalla Rivoluzione scientifica in poi il libero arbitrio si scontra con il fatto che gli eventi naturali, e quindi anche le azioni umane, si possano e si debbano spiegare con leggi di natura e siano quindi necessari. Il paradigma meccanicistico, e più in generale deterministico, diventa dominante nell’approccio scientifico e i filosofi moderni si dividono su come inquadrare l’essere umano e le sue scelte in questa prospettiva: Cartesio e Leibniz difendono il libero arbitrio, mentre Hobbes, Spinoza e Hume lo negano.

Kant riformula la questione ponendola fra le antinomie della ragione pura e, “congelando” la sua solvibilità teoretica, la proietta sul piano pratico: dobbiamo credere di essere liberi perché il libero arbitrio è un presupposto dell’imperativo categorico, la legge morale che ciascuno trova, già pronta e saldamente radicata, dentro di sé. Nel compiere questa operazione, Kant mette in primo piano il fatto che la questione dell’esistenza o inesistenza del libero arbitrio, rispetto alla generale determinazione causale degli eventi naturali, è questione che va oltre i limiti dell’esperienza umana: non possiamo risolvere la questione ricorrendo alle nostre esperienze. Questo impossibile oltrepassamento dell’esperienza, che sarebbe necessario per risolvere “scientificamente” la questione, viene approfondito da Emanuele Severino nel suo scritto Studi di filosofia della prassi (Adelphi, Milano 1984, Parte II: “Per la costruzione del concetto di libertà”).

Severino sostiene che non può darsi una soluzione empirica del problema, in quanto non può darsi un’esperienza della libertà stessa: il libero arbitrio non si dà mai come un vissuto, non si dà mai come un fenomeno di cui possiamo fare esperienza. Ma non solo: non può darsi mai come vissuto, come esperienza. Ma perché non può?

Abbiamo visto sopra che il concetto di libero arbitrio contiene il concetto di contingenza: nell’istante T ho scelto X, ma avrei potuto, in quello stesso istante, scegliere non-X o Y. La contingenza è uno dei quattro concetti fondamentali studiati dalla logica modale: necessità, possibilità, contingenza, impossibilità. Utilizzando la possibilità e la negazione come concetti-base possiamo dare queste semplici definizioni (in analogia con il quadrato modale nel De Interpretazione di Aristotele):



Possibilità = qualcosa può essere

Contingenza = qualcosa può non essere

Necessità = qualcosa non può non essere

Impossibilità = qualcosa non può essere


In genere, quando si parla di libero arbitrio, ci si concentra più sulla modalità della contingenza che su quella della possibilità, per il fatto che se una scelta è stata compiuta (ho scelto X) allora era certamente possibile, ma si tratta di capire se il passaggio dalla possibilità alla realtà sia avvenuto in modo contingente (la possibilità che scegliessi X si è realizzata ma avrebbe potuto non realizzarsi) o in modo necessario (la possibilità che scegliessi X non avrebbe potuto non realizzarsi).

Qualcosa che non esiste ora potrà realizzarsi in futuro? Se sì, allora è possibile la sua realizzazione. Una cosa si è realizzata (quindi era possibile la sua realizzazione), ma avrebbe potuto non realizzarsi? Se sì, allora era (possibile e) contingente la sua realizzazione. Se invece non avrebbe potuto non realizzarsi allora era (possibile e) necessaria la sua realizzazione. 

La tesi di Severino è che né la contingenza, né la necessità si possono constatare nell’esperienza o attraverso l’esperienza, data la loro natura controfattuale: la scelta X è avvenuta nell’istante T, e di quell’istante non posso avere che una singola esperienza. Una singola esperienza di ciò che avviene in un singolo istante non dà, o meglio non può dare, alcuna base fenomenica né alla contingenza né alla necessità della singola scelta X. Da un istante ad un altro quello che avviene nel mio campo motivazionale e nella situazione circostante cambia, impercettibilmente o notevolmente. Quindi l’esperienza di scelte da me compiute in istanti diversi, anche se riguardanti lo stesso caso o casi analoghi, non può mai valere come fatto, o vissuto, della libertà di X. 

Per avere esperienza della contingenza di X dovrei poter ritornare all’istante T e constatare di aver compiuto, in questa “ripetizione” dell’istante T, la scelta non-X o Y. E se invece, in questa immaginaria ripetizione, dovessi constatare di aver rifatto la scelta X? Potrei arguirne la necessità di questa scelta?

Ho voluto esplorare a fondo queste domande elaborando un esperimento mentale, e ho provato a trarne conseguenze sul piano concettuale.


2. La macchina del libero arbitrio

Immaginiamo che esista una macchina in grado di riportarci indietro nel tempo, alle esatte condizioni materiali e psichiche di un certo istante T nel quale abbiamo compiuto la scelta X, e senza che in noi vi sia memoria alcuna della scelta già compiuta. La macchina ha inoltre la capacità di registrare le scelte avvenute nelle  molteplici ripetizioni dello stesso istante.

Utilizzando questa macchina possiamo quindi ripetere, quante volte vogliamo, la situazione nella quale abbiamo compiuto la scelta X in condizioni di assoluta identità con l’istante T, e la macchina registrerà la scelta compiuta in questa ripetizione dello stesso istante. Nel momento della ripetizione della scelta, invece, nessuna memoria del lavoro fatto sarà presente in noi, ma solo le identiche condizioni situazionali e motivazionali dell’istante T. 

Innanzitutto dobbiamo renderci conto che, avendo a disposizione una macchina con queste caratteristiche, verificare la libertà di una scelta con un solo esperimento non avrebbe senso. 

Infatti, proviamo a pensare cosa succederebbe se, avendo nella realtà effettuato la scelta X, il primo esperimento con la macchina desse come esito non-X. Da una parte, potremmo considerare questo esperimento una prova della contingenza di X ragionando come Popper: per verificare un asserto universale occorrono infiniti esperimenti, ma per falsificarlo ne basta uno solo. Qui si potrebbe dire: per verificare la necessità di X occorrono infinite ripetizioni di X, ma per verificarne la contingenza basta un solo caso di non-X. 

D’altra parte, se questo primo esperimento non-X fosse l’unico caso non-X di una serie numerosissima tutta di ripetizioni di X, la faccenda apparirebbe diversa. Immaginate. Per verificare la scelta X compio 100.000 esperimenti e il risultato è che la prima volta scelgo non-X, ma poi scelgo X per 99.999 volte. Vi sentireste di dire che la scelta di X era veramente libera (nel senso di contingente)? 

Analogamente, se il primo esperimento desse come esito X sarebbe estremamente incauto concludere subito che si trattava di una scelta necessaria. Infatti, potremmo ritrovarci in seguito con una serie di 99.999 esperimenti con esito non-X. Sarebbe difficile definire la modalità della scelta X alla luce di questo risultato, ma certamente non ci sentiremmo di dire che si trattava di una scelta necessaria. 

Proviamo quindi ad immaginare gli esiti possibili di una procedura di verifica della libertà o illibertà di X con una base “sperimentale” di 100.000 ripetizioni. Esamineremo di seguito alcuni casi paradigmatici.



2.1 Necessità completa: autodeterminazione senza contingenza

Immaginiamo di constatare che la scelta X si ripete identica per tutte le 100.000 volte. Possiamo in questo caso sostenere con buone ragioni, anche se non abbiamo la certezza totale (che richiederebbe una ripetizione infinita dell’esperimento, con esito sempre uguale), che la scelta reale in T fosse necessaria, determinata. 

Questo però, almeno in linea di principio, non esclude l’autodeterminazione del soggetto, la sua autonomia, o anche – seguendo una formulazione kantiana – la sua capacità di iniziare da sé uno stato. Infatti si potrebbe ragionare in questo modo: la ripetizione identica della scelta X può essere dovuta non alla forza necessitante di leggi di natura (leggi neurobiologiche o leggi psico-comportamentali), bensì alla forza necessitante dell’io stesso, al fatto che il soggetto della scelta, l’io, è l’unico vero responsabile della scelta. Allora il fatto che io abbia scelto “ancora” X per 100.000 volte significa che la scelta dipendeva solo da me e io, essendo sempre identico in ogni ripetizione dell’istante T, ho “ribadito” la mia scelta. Una rigorosa autodeterminazione, ragionando in questo modo, sembrerebbe addirittura richiedere l’annullamento della contingenza (specularmente,  una rigorosa contingenza sembra richiedere l’annullamento dell’autodeterminazione: si veda, a questo proposito, il caso successivo esposto in 2.2).

D’altra parte, occorrerebbe chiedersi se l’autodeterminazione, da sola, garantisca quel concetto di libertà di scelta che stiamo indagando. Di fronte a una scelta autodeterminata ma necessaria, cosa ne è del nostro concetto di libero arbitrio? Si tratterebbe infatti di una scelta proprio mia, ma necessaria. Autodeterminata, ma inevitabilmente, sulla base della natura del mio io. Se consideriamo attentamente l’idea di una scelta senza reali alternative (la possibilità di scegliere non-X si è rivelata irrealizzabile, data la necessità di X) ci rendiamo conto che è proprio il concetto di “scelta” che viene compromesso, e con esso viene anche meno il concetto di libero arbitrio: una scelta senza reali alternative non è una vera scelta.


2.2 Contingenza completa: cade l’autodeterminazione

Se posso tornare indietro nel tempo e rivivere l’istante T nelle identiche condizioni, e compio una scelta opposta a quella realmente compiuta, abbiamo una prova “empirica” che la scelta originaria era contingente, cioè poteva non realizzarsi. Se inoltre questa prova viene confermata dalla esatta equinumerosità dei due insiemi di ripetizioni (50% di scelta X e 50% di scelta non-X), allora abbiamo un decisivo rafforzamento della nostra convinzione in merito alla contingenza di X. 

Questo caso lascia però aperti seri dubbi sulla libertà del soggetto: se l’io è sempre identico e sempre identiche sono le motivazioni e la situazione concreta del vissuto, come si spiega una oscillazione così radicale della scelta? Da cosa dipende, realmente, la scelta? La contingenza confermata getta un’ombra sulla reale autodeterminazione del soggetto della scelta: io ero identico, ma ho compiuto nella esatta metà dei casi una scelta diversa, quindi sembra essere in gioco qualche altro fattore che non dipende da me! Sembra esserci una vera causa, misteriosa, della contingenza, o una sorta di indeterminazione inspiegabile. L’esito complessivo, X 50% e non-X 50%, si potrebbe anche interpretare come se la scelta, per il soggetto, fosse assolutamente indifferente. Ma non sembrano questi i veri significati del libero arbitrio, quando ne parliamo come della facoltà che rappresenta la dignità dell’uomo. La contingenza, senza autodeterminazione, diventa pura indeterminazione, caso, e scivola lontano dall’idea di libertà. 




2.3 Necessità e contingenza moderate e coesistenti

Abbiamo quindi visto che nei due casi estremi (necessità “confermata” “controfattualmente” attraverso la ripetizione della identica scelta nel 100% dei casi, e contingenza confermata “controfattualmente” attraverso l’esatto equilibrio tra ripetizione e non-ripetizione della identica scelta) si produce una scissione concettuale delle due componenti del libero arbitrio, e si perde in entrambi i casi qualcosa di essenziale. Le due componenti, autodeterminazione e contingenza, se prese in modo assoluto, rigido, tendono ad annullarsi reciprocamente. 

Nel prossimo caso avremo invece a che fare con un “ammorbidimento” concettuale, e scopriremo che tale ammorbidimento porta ad una maggiore coesione e sensatezza dell’idea di libero arbitrio.

Consideriamo il caso in cui, ripetendo con la macchina del libero arbitrio per 100.000 volte la scelta all’istante T, si abbia come risultato il 75% di X e il 25% di non-X o Y. Come interpretare questo risultato?

Dovremmo innanzitutto pensare a una “necessità moderata” della scelta originaria in T. Come nel primo caso estremo (cfr. 2.1), consideriamo la possibilità di interpretare questa necessità come dovuta alla forza dell’io e non a forze “esterne” di tipo neurobiologico o psico-comportamentale. In questo caso, però, abbiamo anche un 25% di ripetizioni con scelta contraria o diversa, quindi abbiamo una reale apertura della contingenza: non possiamo più dire né che la scelta originaria fosse completamente necessaria, né che fosse completamente contingente. La necessità (espressa nella ripetizione della identica scelta nello stesso istante) è qui in equilibrio con la contingenza (espressa con la variazione della scelta nello stesso istante), ma quello che più ci interessa è che in questo caso dovremmo ammettere che i due concetti (opposti e contraddittori nel quadrato logico delle modalità) possono coesistere. Il carattere necessitato/auto-determinato e quello contingente possono insieme, nel nostro esperimento mentale, variare per gradi su un continuum.

       Resta aperto il problema di come interpretare la determinazione: come autonomia o come l’essere “trastulli di forze esterne”, o ancora, come sicuramente è più probabile, come una via di mezzo variabile fra le due possibilità estreme.


2.4 Il limite del libero arbitrio

Abbiamo visto che nel caso di una contingenza piena si produce una sorta di annullamento del concetto di autodeterminazione. Abbiamo considerato come corrispondente alla piena e confermata contingenza un esito dell’esperimento mentale con il 50% di X e il 50% di non-X o Y. 

Ma come dobbiamo considerare un esito nel quale la ripetizione di X avvenga al 25% e la scelta contraria o diversa avvenga nel 75% dei casi? 

Qui emerge un ulteriore aspetto della questione. Per poter parlare di libertà di una scelta, infatti, dobbiamo ammettere che la scelta avrebbe potuto essere diversa, ma non così diversa da annullare completamente la permanenza dell’identità del soggetto della scelta stessa. A questo proposito è utile richiamare un passaggio del testo di Severino già considerato, nel quale la questione viene esplorata in dettaglio Cfr. Severino 1984, pp. 255-264): 


si deve dire certamente che, se io non volessi questo oggetto e tutti gli oggetti che ho voluto e che vorrò nella mia vita, io non sarei io, la mia coscienza non sarebbe la mia coscienza, ma quella di un altro; giacché la mia coscienza è proprio ciò che vuole questo e non altro, in questo modo e non in altro. Si deve dire cioè che è impossibile che la mia vita sarebbe potuta o potrebbe essere diversa da quella che è stata o che sarà; o che, se questa diversità viene ammessa, ciò che si ammette non è che io avrei potuto vivere diversamente, ma che un altro avrebbe potuto vivere in vece mia. (...) Se dunque non si tiene ferma l’identità permanente nel processo, l’affermazione che io avrei potuto non volere ciò che voglio di fatto è immediatamente autocontraddittoria (...). Se dunque la proposizione: “Io sono libero” ha un significato, e cioè non è immediatamente autocontraddittoria, dev’essere possibile affermare che il termine “io” indichi un contenuto processuale, in cui un’identità determinata va differenziandosi, e che è appunto ciò che permarrebbe qualora io agissi diversamente da come agisco di fatto. (...) Affermare dunque che in una certa situazione la mia decisione è libera, significa affermare che almeno una, o almeno un certo settore delle convinzioni, che si realizzano in quella certa situazione, permarrebbe anche qualora io avessi deciso diversamente da come ho deciso. È possibile, sì, che, per decidermi diversamente, avrei dovuto lasciar cadere la maggior parte delle mie convinzioni, ma, se la mia decisione è libera, è necessario affermare che, qualora io avessi diversamente deciso, sarebbe rimasta una parte delle convinzioni che accompagnano la decisione effettivamente presa.


Il caso per noi ora in esame non riguarda la vastità dei contenuti caratterizzanti il soggetto che sarebbero messi in discussione dalla ipotesi di una scelta diversa da quella realmente avvenuta, bensì riguarda una “sovrabbondanza” della variabilità della scelta, superiore anche al concetto stesso di contingenza. Il tipo di problematica è comunque simile: oltre un certo punto, la variabilità della scelta interferisce con il concetto di identità del soggetto agente.


3. L’autodeterminazione come dato fenomenico e fenomenologico

Severino scrive: «Se per “spontaneità” si intende appunto “la facoltà di incominciare da sé uno stato”, la spontaneità è un dato di esperienza, cioè è qualcosa di rilevabile fenomenologicamente; ma non altrettanto si può dire del “libero arbitrio” o della libertà in senso proprio, la cui esistenza, pertanto, dal punto di vista fenomenologico resta un problema.» (Severino 1984, p. 178). Severino quindi ritiene che la nozione di libero arbitrio sia sufficientemente caratterizzata dal concetto di contingenza, riconduce il concetto di autodeterminazione a quello di spontaneità nell’accezione kantiana e ritiene che la spontaneità sia un dato di esperienza basandosi su una sua versione del “metodo fenomenologico” (cfr. qui, nota 7)

   A questo dedica un’intera sezione del testo che abbiamo preso in esame, la sezione 2 del Capitolo Primo (intitolata: La spontaneità come forma del divenire fenomenologico). Qui Severino ripropone qualcosa di analogo alla critica di Hume al nesso di causa: «l’attività di qualcosa su qualcos’altro e la passività di qualcosa rispetto a qualcos’altro non sono sperimentabili, ossia non sono dei contenuti immediatamente presenti. (...) Se così stanno le cose, ne viene che ogni divenire, ogni variazione del contenuto fenomenologicamente accertabile si presenta come un “incominciare da sé” il nuovo stato e dunque come spontaneità: se ogni variazione è presente non come effetto dell’azione di qualcosa su qualcos’altro, ciò significa che essa è presente nel suo puro incominciare, e quindi come spontaneità.» (op. cit. p. 182-183).

Ma a questo modo di riproporre le critiche humeane alla causalità io contrappongo un altro modo di intendere l’analisi fenomenologica, quello di Giovanni Piana, che in Piana 1979 scrive: «Che cosa sia per noi un metodo fenomenologico in rapporto alla tematica dell’esperienza lo si può dire veramente in due parole: esso è un metodo di caratterizzazione degli atti di esperienza attraverso l’esibizione di differenze di struttura.» (p. 10). In base a questo metodo, è chiaro che il movimento di una palla che rotola contro un ostacolo e rimbalza presenta una struttura differente dal movimento di una formica che, arrivata di fronte allo stesso ostacolo, lo aggira per proseguire verso il suo formicaio. I due movimenti non si possono descrivere, fenomenologicamente, come ugualmente spontanei. Ma evidentemente il modo di intendere il metodo fenomenologico di Severino finisce per frantumare i fenomeni nel pulviscolo humeano, come si vede anche in una frase successiva: «La distinzione comune tra mutazioni “spontanee” (per esempio il prendere in mano una penna per scrivere) e “necessitate” (per esempio il movimento di un corpo urtato da un cert’altro corpo), che ha la massima importanza dal punto di vista pragmatico, è pertanto, dal punto di vista fenomenologico, solo una distinzione interna all’orizzonte della spontaneità vera e propria, e sta a indicare le mutazioni che, rispettivamente, non avvengono o avvengono in concomitanza a certe altre mutazioni». (p. 183).

Secondo me sono fenomenologicamente visibili e sperimentabili gradi diversi di autonomia (o “spontaneità”): il movimento di un corpo inerte, non vivente, è diverso dal movimento di un corpo vivente; il movimento, seppur lentissimo, di una pianta (crescita dei rami, sbocciare di un fiore…) è strutturalmente diverso dal movimento di un animale; il movimento di un cane di fronte al proprio padrone che prende il guinzaglio con l’intenzione di portarlo fuori casa è strutturalmente diverso dal movimento di un uomo che, per soddisfare la richiesta di sua moglie – “Caro, ti ricordi che domani è il compleanno di Maria? Potresti uscire e comprare un regalino da portarle, visto che dobbiamo incontrarla alla cena dai Rossi?” – si ritrova prima a dialogare con la moglie (per stabilire quali possibili regali potrebbero fra piacere a Maria), poi a pensare (magari stilando una lista e poi depennando progressivamente) per scegliere cosa acquistare, poi uscire di casa e interagire con un negoziante per ottenere quello che gli serve.

Inoltre, come già detto, ritengo che le due componenti, contingenza e autodeterminazione, siano entrambe essenziali alla nozione di libero arbitrio. Quest’ultima tesi è già presente in De Caro 2004 e prima ancora in Capizzi 1963, che evidenzia anche gli aspetti contraddittori delle due componenti.


4. Il libero arbitrio come potenzialità da realizzare e accrescere

La mia idea è che sia ragionevole sostenere una visione metafisica nella quale prendiamo come paradigmatiche le situazioni esposte nelle sezioni 2.3 e 2.4: ciò che accade nel mondo, comprese le azioni umane, non è né completamente necessitato né completamente contingente. Nel mondo vi è una mescolanza di necessità e di contingenza, e probabilmente i nostri concetti di necessità e di contingenza sono inadeguati, per la loro opposizione logica, a descrivere la reale modalità nella quale avvengono gli eventi naturali e le azioni umane. Mentre il totale determinismo e il totale indeterminismo sono solo due posizioni metafisiche, estreme e contrapposte, vi sono innumerevoli posizioni intermedie fra esse, lungo un continuum con proporzioni gradualmente variabili, e quindi vi sono molte più probabilità che la verità si collochi in un punto intermedio, a sua volta variabile a seconda dei contesti spazio-temporali. Al di là di questa considerazione puramente formale, vi sono poi anche elementi epistemologici che vanno interpretati come orientati argomentativamente in questa direzione, cioè la direzione di un superamento dell’opposizione tra necessità e contingenza nell’interpretazione dello svolgersi temporale degli eventi. La presenza della componente deterministica è connaturata al modello esplicativo della scienze naturali stesse; la presenza della modalità contingente (o indeterministica) è affermata in almeno alcune delle teorie fondamentali che appartengono alla fisica, ma soprattutto è affermata sia in importanti interpretazioni delle teorie biologiche (si veda per esempio Gould 1990), sia in tutte le scienze umane – in primo luogo la storia – dove si indaga la dimensione storica e e si studiano eventi collettivi, ovvero che eventi che riguardano l’interazione di molteplici soggetti. Quello che voglio sostenere è che i modelli esplicativi presenti di fatto nei discorsi scientifici (se intendiamo il termine “scienze” in un’accezione sufficientemente ampia e se non ci fissiamo su una singola disciplina prendendola come paradigma di tutte le discipline) convergono verso una compresenza/mescolanza di necessità e contingenza nelle modalità in cui si svolgono le successioni di eventi.

In questo quadro, come già accennato alla fine della sezione 2.3, anche il problema di come interpretare la determinazione, se come autodeterminazione o come eterodeterminazione, propongo di risolverlo dicendo che, a seconda delle persone e dei singoli casi, vi possono essere quote variabili di proporzione tra autodeterminazione ed eterodeterminazione: credo che la libertà del volere non vada concepita come una facoltà “monolitica”, che o c’è e appartiene all’essenza dell’uomo, oppure è totalmente assente e illusoria. Credo che il libero arbitrio sia una potenzialità insita in ogni essere umano, per il fatto stesso di appartenere alla specie dei Sapiens, e sia connesso soprattutto a due capacità che i Sapiens hanno: immaginare e pensare.

“Potenzialità” perché, come la capacità di imparare una lingua, se non viene adeguatamente stimolato, il “libero arbitrio” non si sviluppa. Per il resto, il grado di libertà di ciascuno o di ciascuna scelta di un singolo individuo dipende dal grado di cultura, dal livello di conoscenze acquisite, dalla misura in cui riesce a fermarsi e a pensare a quello che sta facendo, a immaginare modi alternativi di agire, e anche dalla misura in cui riesce a rendere coscienti le motivazioni profonde che agiscono in lui. Rendere coscienti tali motivazioni non significherà cancellarle, ma riuscire a padroneggiarle meglio, bilanciandole con altre ragioni e altri motivi. Il proprio “libero arbitrio”, quindi, ammessa l’ipotesi metafisica sopra formulata, non è già dato una volta per tutte, ma va conquistato ed esiste in gradi diversi

Quindi la mia posizione è questa: non si può dire semplicemente né


“il libero arbitrio esiste”



“il libero arbitrio non esiste”.


Non sono, come ha sostenuto Kant nella prima Critica, due tesi entrambe vere da due punti di vista diversi, corrispondenti a due “mondi” diversi, quello fenomenico e quello noumenico. Penso invece che la seconda tesi sia falsa, e la prima sia una mezza verità, che va chiarita così:


il libero arbitrio è una potenzialità che si realizza in misure diverse in individui diversi e, nello stesso individuo, diversamente in momenti diversi.


Storicamente, l’avvento dell’Illuminismo è stato, nella cultura occidentale, un momento fondamentale di crescita dell’umanità in direzione di un maggiore “libero arbitrio”, perché ha insegnato come tutti potessero informarsi, conoscere, studiare, usare la propria testa e pensare in modo critico. In particolare a partire da quel periodo storico, alcune azioni umane, alcuni comportamenti, sono finalizzati, così potremmo dire, ad aumentare la propria libertà. Possiamo cercare di rendere il nostro pensiero più efficace e più profondo, e la nostra immaginazione più ricca, leggendo romanzi, studiando saggi scientifici o libri di filosofia, seguendo i mezzi di informazione, osservando con più attenzione le cose e le persone che ci circondano, viaggiando. Possiamo decidere di “nutrire” la nostra mente attraverso esperienze nuove o cercando di vivere più intensamente esperienze abituali, o semplicemente provando a “ripetere” esperienze già fatte (come quando rileggiamo un libro per capirlo meglio). 

Ad alti livelli di consapevolezza, di grande compenetrazione fra pensiero e azione, o fra immaginazione e azione, le azioni umane producono opere che entrano a far parte della cultura umana e vengono tramandate, attraverso la formazione scolastica o lo studio personale. Non perdono il loro carattere necessario, sono sempre determinate da motivi, ragioni, finalità, ma è il tipo di necessità ad essere diverso, perché sarà una necessità molto più mediata, indiretta e complessa. Si tratterà di motivi, ragioni e finalità ideali, ispirate a valori che sono stati a loro volta assorbiti dalla tradizione o forse, in alcuni casi, valori nuovi, più adeguati al presente.

Una necessità più complessa corrisponde a una maggiore contingenza, che si accompagna a una maggiore autodeterminazione nella componente necessitata. In altri termini e usando un punto di vista interno e un linguaggio più psicologico: se una persona conosce più cose, pensa di più e immagina di più, di fatto si aprono di fronte ad essa più possibilità alternative di agire e le sue scelte saranno più autonome e consapevoli rispetto ai condizionamenti sociali, relazionali, inconsci.


5. Libero arbitrio, moralità, politica

Purtroppo, anche inteso in questo modo, il libero arbitrio realizzato “in media” dagli esseri umani (che mi azzarderei a giudicare di livello un po’ basso…) non è di per sé garanzia di un orientamento al bene. Pensiero e immaginazione, fino a una certa soglia che ipotizziamo esistere ma è ancora tutta da scoprire e definire, possono aumentare la possibilità di compiere azioni buone e giuste, ma possono altrettanto aumentare la possibilità di compiere azioni malvagie e ingiuste.

Nonostante l’uomo sia un animale sociale, molti sfruttano proprio alcune situazioni interpersonali/sociali/politiche e scelgono consapevolmente di perseguire la propria felicità e il proprio benessere a qualsiasi costo, calpestando il benessere e la felicità altrui. I ragionamenti che collegano il benessere individuale con quello interpersonale, sociale e collettivo, pur nella loro validità, non sono in grado di frenare questa forma di egoismo cieco, e costoro riescono a perseguire i propri scopi prima che le conseguenze negative delle loro azioni si ritorcano contro loro stessi. A quel punto (ma può anche darsi che questo punto non arrivi mai, come accade al protagonista di Crimini e misfatti di Woody Allen) capiranno che il male fatto ad altri arriva anche, in modi e tempi spesso tortuosi, a chi lo ha compiuto, ma sarà troppo tardi e il danno sarà già fatto. 

Solo superata una certa soglia, superato un certo grado di libertà, pensiamo che si possano apprezzare e fare propri i discorsi che mostrano come il benessere del singolo sia collegato col benessere delle persone che sono intorno a lui e anche col benessere di tutta la comunità sociale, oggi sempre più globalizzata, in cui il singolo è inserito, e con il benessere della biosfera. Solo acquisito un certo grado di libertà è possibile “sentire” profondamente il legame che ci unisce alla società, allo stato, alla più ampia comunità politica a cui apparteniamo, alla specie umana e al grande insieme dei viventi su questo eccezionale pianeta che è la Terra. 

Ma quale sia questa soglia, questo grado di libertà, e come arrivarci, è ancora tutto da scoprire. Indubbiamente, però, la formazione (educazione e istruzione) gioca in questo campo un ruolo essenziale. 

Anche rispetto al tema politico, ipotizziamo vi sia una soglia media del libero arbitrio realizzato, sotto la quale un sistema democratico – nel quale probabilmente si raggiunge il massimo livello possibile di “libertà di fare” – non riesce a instaurarsi o non riesce più a funzionare nel caso si sia già instaurato. I cittadini di un sistema democratico devono avere sufficiente spirito critico sulle ragioni del proprio agire, e su quelle dell’agire altrui, per far funzionare il sistema stesso, altrimenti questo non si può instaurare o, se già instaurato, si trasformerà in regime totalitario, dittatoriale o autoritario. 

Un’ipotesi, tutta da approfondire e studiare, è che sia lo stesso grado di libero arbitrio realizzato in media a garantire sia l’orientamento morale verso il bene sia il funzionamento ottimale dei sistemi democratici. Quale sia poi questo grado, ammesso che esista, e come perseguirlo attraverso l’educazione e la formazione scolastica, è un problema la cui soluzione costituisce un compito affascinante e che sempre più si pone come importante e urgente nei nostri tempi di cambiamenti rapidissimi e travagliati.




NOTE


1 Riprendo qui alcune idee già proposte in un precedente lavoro (Napoleoni 2017), di cui il presente testo costituisce una sostanziale riscrittura, con tagli, aggiunte e modifiche sostanziali. Il presente testo intende sostituire il precedente che, purtroppo, insieme a qualcosa di buono conteneva una molteplicità di errori, confusioni, imprecisioni.


2 Una buona introduzione al dibattito contemporaneo, con ampi riferimenti anche storici, è De Caro 2004. L’autore propone anche una sua soluzione, che elabora a partire da G.H. von Wright, D. Davidson e J. Dupré. Per un breve riassunto della soluzione proposta da De Caro cfr. G. Napoleoni 2014, p. 605-606. Si veda anche, per un inquadramento della questione in contesti filosofici più ampi, De Caro 2008.


3 Si vedano D’Agostini 1997 e D’Agostini 2005.


4 Cfr. https://giulionapoleoni.blogspot.com/search?q=analitici+e+continentali+statale+milano, un post nel mio blog in cui ricostruisco la vicenda attraverso alcuni articoli di “Repubblica Milano”.


5 Si vedano principalmente il De libero arbitrio e il De gratia et libero arbitrio.


6 Si legga la celebre Oratio de hominis dignitate.


7 Non condivido le tesi metafisiche generali di Severino, ma il testo che ho preso qui in esame si colloca in una posizione particolare del suo percorso di ricerca e costruzione di un vasto “edificio metafisico”, edificio la cui austera maestosità spicca, come un isola su cui sia stato costruito un grattacielo, nel panorama della filosofia italiana contemporanea. Questo testo (Severino 1984) occupa una posizione particolare perché costituisce un discorso autonomo sia rispetto ai fondamenti del suo sistema sia rispetto agli sviluppi successivi del suo discorso principale. Nella sua autonomia, costituisce una gemma preziosa per la vastità dei riferimenti filosofici e per la profondità dell’analisi. Severino sostiene le tesi che ho qui riassunto partendo dalla Critica della ragion pura di Kant e applicando un suo “metodo fenomenologico” (che mi sembra, al di là della coincidenza terminologica, sensibilmente diverso dal metodo husserliano) che così definisce: “Il metodo di questa analisi [l’analisi fenomenologica] esige infatti, qualora sia autenticamente inteso, che siano affermati tutti quei contenuti che sono immediatamente presenti, e non già quei contenuti, di cui possono essere, anche immediatamente, convinte le varie forme di coscienza non filosofica. Il contenuto fenomenologico è tutto ciò che, nella coscienza filosofica (...), può essere posto come immediatamente presente; e non ciò di cui le varie forme di coscienza non filosofica possono essere immediatamente convinte”. (Severino 1984, p. 243)


8 Georg Henrik von Wright, nel testo Libertà e determinazione (von Wright 1984), propone accanto a una tesi concettuale (secondo la quale la libertà è concettualmente intrinseca al concetto stesso di azione, cha va distinto da quello di evento), anche una prospettiva basata sull’analisi empirica delle capacità dell’agente, confrontando il comportamento dello stesso agente in casi analoghi fra loro. Per una ricostruzione complessiva e sintetica delle tesi di von Wright in merito al libero arbitrio cfr. Napoleoni 2014.


9 Da questa idea ho tratto (a parte l’imbarazzante Napoleoni 2017 su cui cfr. nota 1) diversi anni fa un racconto filosofico, intitolato La macchina del libero arbitrio, pubblicato nell’ottobre 2008 sul mio blog (www.giulionapoleoni.blogspot.it). Unico altro luogo in cui esiste un esperimento mentale analogo, a mia conoscenza, è Rovelli 2015, che ne trae però conclusioni diverse dalle mie. 


10 Approfondisco questa nozione nella sezione 3.


11 Nell’Etica, Spinoza dà questa definizione della libertà: «Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e che è determinata ad agire soltanto da sé stessa; necessaria, o meglio, coatta, la cosa che è determinata da altro a esistere e a operare in una certa determinata maniera.». (Spinoza 1677, p. 788) Va notato che stando a questa definizione Spinoza può attribuire solo alla Sostanza (cioè la totalità dell’esistente, cioè “Dio”) una piena libertà, in quanto le singole cose, per quanto riescano ad autodeterminarsi, sono sempre inserite in una trama di relazioni con altre cose. Inoltre va rilevato che Spinoza rinuncia completamente, nel suo concetto di libertà, alla componente della contingenza, per motivi di coerenza complessiva del suo sistema. Bisogna anche aggiungere che in realtà Spinoza, per l’essere umano, costruisce un concetto di libertà connesso con la capacità di conoscere e riesce realmente a proporre un etica pur rinunciando al libero arbitrio. Fare luce su come riesca a farlo richiederebbe un discorso molto più lungo che una nota al piede.





Bibliografia 


A. Capizzi 1963 La difesa del libero arbitrio da Erasmo a Kant, La Nuova Italia, Firenze 1963

F. D’Agostini 1997         Analitici e continentali, Raffaello Cortina, Milano 1997

F. D’Agostini 2005         Nel chiuso di una stanza con la testa  in vacanza. Dieci lezioni sulla filosofia contemporanea, Carocci, Roma 2005

M. De Caro 2004 Il libero arbitrio. Una introduzione, Editori Laterza, Roma-Bari 2004

M. De Caro 2008 L’azione, Il Mulino, “Lessico della filosofia”, Bologna 2008

S.J. Gould 1990 La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia, trad. di Libero Sosio; ed. orig. Norton & Company, New York e Londono 1989)

G. Napoleoni 2014 G.H. von Wright, «APhEx», 9, Periodico On- line / ISSN 2036-9972, www.aphex.it 

G. Napoleoni 2017 Libero arbitrio: paradossi e nuove prospettive. L’esperimento mentale di centomila ripetizioni di una scelta, https://giulionapoleoni.blogspot.com/2018/03/libero-arbitrio-paradossi-e-nuove.html

G. Piana 1979         Elementi di una dottrina dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano; edizione elettronica in Archivio Piana, 1998, http:// www.filosofia.unimi.it/piana/ 

C. Rovelli 2015 Libero arbitrio e determinismo, in «MicroMega», 2/2015, “Almanacco di filosofia” 

E. Severino 1984 Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano.

B. Spinoza 1677 Etica, in Spinoza, Opere, Arnoldo Mondadori Editore, “I Meridiani”, 2007 

G. H. von Wright 1984 Libertà e determinazione, a cura di R. Simili, Pratiche Editrice, Parma 1984, trad. it di Freedom and Determination (ed. orig. 1980).