28 luglio 2010

Perché non possiamo pensare alla vita come se fosse una partita a scacchi

Mio padre mi ha insegnato a giocare a scacchi quando ero bambino. All'inizio, naturalmente, perdevo sempre. Poi, piano piano, ho cominciato a migliorare fino alla fatidica partita in cui sono riuscito a batterlo. Nel periodo in cui stavo sensibilmente migliorando (quell'estate, ricordo, lessi L'idiota di Dostoevskij) a un certo punto mi sono reso conto di una cosa. Se riuscivo a formulare un "piano di gioco", una strategia per arrivare alla vittoria o anche solo per guadagnare un pezzo, spesso capitava che le mosse fatte per realizzare quella strategia, mosse di attacco, fossero a mia insaputa anche mosse difensive che andavano a parare suoi piani di attacco nei miei confronti. Giocando sempre con in mente un "piano" (che andava costantemente rivisto, aggiornato, riaggiustato) prevenivo possibili pericoli anche ignorandoli. Ciò confermava quanto avevo letto nelle indicazioni preliminari di un antico manuale di scacchi (che sempre mio padre mi aveva messo in mano): l'autore raccomandava "Mai una mossa senza scopo!" (seguivano subito dopo considerazioni sul fatto che mosse casuali quasi certamente indeboliscono la propria posizione e costituiscono perdite di tempo di cui l'avversario può avvantaggiarsi). Questa regola mi aveva subito affascinato, e avevo cominciato a pensare se fosse una regola che potesse valere anche per la vita in generale. In quel periodo, da ragazzo, ero ossessionato dal problema di individuare regole generali da seguire per vivere nel modo migliore. La regola di vivere perseguendo un progetto o più semplicemente ponendosi degli obiettivi è certamente una regola degna di attenzione per chi sia alla ricerca di "formule" per un buon vivere. Volendo seguire l'analogia con il gioco degli scacchi potremmo dire che se perseguiamo un progetto, se ci poniamo degli obiettivi e agiamo di conseguenza, le nostre azioni porteranno a uno sviluppo del nostro essere che potrà essere utile a rispondere anche a situazioni impreviste. Molti anni dopo le prime esperienze scacchistiche di cui parlavo all'inizio, studiando filosofia e imbattendomi nelle teorie sull'azione (G.H. von Wright, Habermas, Bubner...) tornai a interessarmi della questione. Aristotele definisce un'azione come un comportamento finalizzato a raggiungere un certo scopo. Secondo von Wright agire significa provocare intenzionalmente un mutamento nel mondo. Avere un'intenzione, un fine, sembra essere parte del concetto stesso di azione, e si può valutare un'azione in base all'efficacia con la quale riesce a realizzare il proprio scopo, oppure in base alla razionalità dello scopo rispetto a fini ulteriori (si apre qui tutto il discorso sulla razionalità pratica e sull'etica...). Un'azione è razionale se realizza efficacemente il proprio scopo. Uno scopo è razionale se è coerente con fini generali, cioè se rientra in un piano coerente di miglioramento delle proprie condizioni (e, meglio ancora, delle condizioni di tutto ciò che ci circonda...). Ma chiediamoci: fino a che punto può essere utile agire sempre in modo razionale? Si può applicare la regola generale degli scacchi "Mai una mossa senza scopo!" alla propria vita, trasformandola in "Mai un'azione senza scopo!"?? A volte non ci è chiaro lo scopo per cui stiamo facendo qualcosa, ma è meglio così. In certi contesti lasciarsi "guidare dall'istinto" o "dall'intuizione" può essere meglio che farsi guidare dalla ragione. Quali sono questi contesti? Pensiamo a cosa succederebbe se facendo l'amore pretendessimo di sapere esattamente perché facciamo una cosa piuttosto che un'altra. Un altro contesto nel quale l'agire razionalmente può essere bloccante o controproducente è quello di una rilassata e intima conversazione tra amici o tra partner, dove il bello è proprio il "lasciarsi portare" dalle associazioni mentali, avendo anche la capacità di seguire quelle dell'altro (come del resto anche nel fare l'amore il bello non è solo il seguire i propri desideri ma anche il riuscire a sentire e seguire quelli del partner). Qualcosa di analogo accade nella comunicazione fra paziente e terapeuta in una psicoterapia a orientamento psicoanalitico o più semplicemente nel cosiddetto "ascolto attivo" proprio di tutte le relazioni d'aiuto. C'è poi tutto un ambito di situazioni nelle quali avere un obiettivo preciso può essere controproducente. Penso alla creazione artistica, ma anche in certa misura alla ricerca scientifica. In questi contesti, per quel che ne sappiamo, si parte spesso con idee vaghe, intuizioni, problemi da risolvere di cui non si conosce la soluzione. Si lavora proprio su questa vaghezza, sull'idea di qualcosa che vogliamo comunicare ma che non è a noi stessi chiaro, su un enigma che ci tormenta, su un nodo che non riusciamo a sciogliere. La soluzione, l'opera compiuta, la si costruisce strada facendo, senza sapere prima esattamente dove ci condurrà il nostro lavoro (l'aveva già teorizzato Platone quando si era posto il problema di rispondere alla questione sofistica sulla impossibilità della ricerca di conoscenza: se so già non ho bisogno di conoscere, se non so non so nemmeno cosa cercare, e aveva risposto con la sua teoria del conoscere come ricordare...). Un ultimo (ma non per questo meno importante!) contesto è quello del dialogo euristico, così definito da Franca D'Agostini in Verità avvelenata: "si ha un dialogo euristico quando A sostiene p e B sostiene non-p, e A e B sono interessati all'accertamento della verità, dunque si confrontano non tanto per avere ragione quanto per sapere chi ha ragione, e qual è la ragione migliore". Tale tipo di dialogo è essenziale quando sono in gioco dispute sui valori, differenze culturali che portano a confronti fra culture. Sono temi tipici delle teorie sulla gestione nonviolenta dei conflitti (Gandhi, Capitini, Galtung, Patfoort e altri) ma anche della tradizione ermeneutica (della quale sempre Franca D'Agostini ha "distillato" alcune regole fondamentali nel suo recente Verità avvelenata)
Forse allora potremmo tornare alla questione della regola "Mai una mossa senza scopo!" e dire che se vogliamo mantenerla per applicarla alla vita dobbiamo trasformarla in "Mai un'azione senza consapevolezza del senso!". Nei rapporti liberi e creativi con gli altri, nei contesti dove esercitiamo la nostra libertà e creatività possiamo (dobbiamo) abbandonare l'idea di uno scopo prefissato, di un chiaro piano d'azione, e accettare l'idea di un'azione senza scopo, o con uno scopo non chiaro, pur avendo però ben chiaro il senso di quello che stiamo facendo, anche proprio per distinguerlo dai contesti nei quali invece uno scopo preciso e un'azione razionale rispetto ad esso sono fondamentali. Più in generale quindi è importante cercare sempre di riconoscere le esperienze che si stanno vivendo: l'essere presenti, dentro le situazioni, in sintonia o in contrasto con il contesto, ma essere comunque in rapporto con ciò che ci circonda e con noi stessi.

12 luglio 2010

Non essere, possibilità, valore: Nozick, Borghini, Piana, Musil

Altro motivo (mi riferisco al post precedente) per sostenere la plurivocità del non-essere: sembra abbastanza evidente che oggetti/eventi possibili e oggetti/eventi impossibili non esistono in sensi diversi! Forse a scuola andrebbe formato, coltivato ed educato, accanto al senso della realtà, il senso della possibilità nell'accezione di Musil che Borghini cita all'inizio del suo Che cos'è la possibilità: "Chi lo possiede (...) immagina: qui potrebbe , o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com'è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è". Dico questo perché, come ben spiega Borghini nella sua Introduzione, c'è un forte nesso tra realtà e possibilità: l'identità di qualcosa si definisce anche in relazione alle sue possibilità, capacità, potenzialità, "in tutto ciò che è, in tutto quel che succede ci sono i germi di ciò che potrà essere e che sarà, di ciò che potrà accadere e che accadrà", e soprattutto la sfera dei valori, fortemente connessa con quella delle emozioni (cfr. sempre Borghini; Nozick ha fatto di questo nesso uno dei perni del suo libro La vita pensata), non può essere indagata, trasmessa e posseduta se non viene coltivato il senso della possibilità, riferito non solo al futuro, ma anche al presente (cosa possiamo fare) e al passato (cosa sarebbe potuto accadere). Occorre dare la giusta importanza a ciò che non è ma che potrebbe essere, anche solo per capire l'importanza delle regole, delle norme, delle leggi, cioè di ciò che serve a tracciare confini nel campo delle possibilità umane. Rispetto alla questione dell'istruzione e dell'educazione penso quindi al peso maggiore che andrebbe dato al rafforzamento dell'immaginazione, intendendo sia la capacità di spaziare nel fantastico, sia quella di esplorare l'immaginoso, ma anche quella di ragionare sul possibile (saper condurre "esperimenti mentali"). Sulla distinzione tra fantastico e immaginoso rimando ancora a Piana: Elementi di una dottrina dell'esperienza e Le regole dell'immaginazione.

5 luglio 2010

Plurivocità del non-essere e orientamento verso il valore. Il concetto di "realtà" in Nozick

In un post dell'ottobre 2008, Ontologia come valorizzazione, sostenevo: "ciò che esiste è sicuramente più importante di ciò che non esiste. Se una cosa non c'è non conta nulla, non dobbiamo tenerne conto, non può influenzarci, condizionarci eccetera". Alla luce di considerazioni per me recenti, tuttavia, sono costretto a rivedere questa posizione, o quantomeno a sollevare un dubbio in proposito. Se fra le cose che non esistono mettiamo (oppure, in termini quiniani-varziani, "se ammettiamo che non esistono") gli oggetti/eventi "finzionali", gli oggetti/eventi passati e gli oggetti/eventi futuri, è molto difficile dire che queste cose non contano nulla. Un personaggio letterario può essere più influente e famoso di una persona reale; non parliamo di quanto possa influenzarci e condizionarci il passato. Quanto al futuro, a volte una previsione o un'attesa può essere di gran lunga più importante per noi di quello che stiamo vivendo nel presente. Ma una delle ipotesi che vorrei proporre in questo post è la seguente: accanto a una plurivocità dell'essere (tesi che non mi voglio impegnare qui a sostenere ma che altrove ho suggerito con qualche argomentazione) si può sostenere una plurivocità del non-essere. Il senso in cui non esiste Sherlock Holmes è diverso dal senso in cui non esiste (più) Napoleone! Anche tra oggetti/eventi passati ed oggetti/eventi futuri c'è differenza: quelli passati non sono più modificabili, quelli futuri (probabilmente) sì! Resta invece ancora valida l'idea, per me, che uno dei risultati di una futura "ontologia per tutti" sia proprio quello di orientare e far capire ciò che è importante e ciò che non lo è. Qualcosa del genere nel pensiero contemporaneo, una sorta di ontologia (basata sul concetto di realtà) che però al tempo stesso è anche una mappa dei valori la si può trovare nel libro di Robert Nozick (il filosofo ritratto nella foto) La vita pensata. Ovviamente Platone resta l'esempio fondamentale. Traccio di seguito un percorso di citazioni nel testo La vita pensata (The Examined Life, 1989), in modo da dare un'idea dei concetti fondamentali che utilizza e di come ha impostato il suo discorso. "Certe volte una persona sente di essere più reale. Voi ... quando vi sentite più reali?... Qualcuno potrebbe pensare che la domanda è confusa. In tutti i momenti in cui la persona esiste, esiste, e quindi deve essere reale. ... possiamo però distinguere vari gradi di realtà. Consideriamo anzitutto i personaggi letterari. Alcuni sono più reali di altri. Pensiamo ad Amleto, Sherlock Holmes, Lear, Antigone, Don Chisciotte, Raskolnikov. Nessuno di loro esiste, eppure sembrano addirittura più reali di certe persone che conosciamo e che esistono. ... La loro realtà consiste nella loro vivacità e incisività, nella coerenza con cui sono mossi o afflitti da un determinato fine. ... Le caratteristiche che esibiscono ne fanno nuclei più concentrati di organizzazione psicologica. Simili personaggi letterari diventano simboli, paradigmi, modelli, epitomi. Sono fette estremamente concentrate di realtà. ... Opere d'arte, dipinti, pezzi musicali o poesie spesso sembrano fortemente reali. ... forse è che esse, proprio per le loro qualità, trattengono e ripagano più durevolmente l'attenzione che dedichiamo loro. In ogni caso le percepiamo più equilibrate e più nitide; le percepiamo più vividamente. Anche altre caratteristiche diverse dalla bellezza, come l'intensità, la potenza e la profondità, danno luogo a questa vivezza di percezione. ... Anche i matematici delineano oggetti e strutture in cui proprietà molto nette si intrecciano in una rete fittamente stratificata di possibilità, relazioni, implicazioni combinatorie. Chiedere: 'Le entità matematiche esistono?' - la domanda che fanno i filosofi della matematica - non coglie il senso della loro vivida realtà- ... Stando alla tradizione, Platone riteneva che le Forme - che secondo le sue teorie erano le entità più reali - fossero (come) numeri. La sfera della matematica, con la sua chiarezza, attira la nostra attenzione per questa sua realtà. Così come alcuni personaggi letterari sono più reali, lo sono anche alcune persone. Socrate, Buddha, Mosè, Gandhi, Gesù... ... Anche noi, però, siamo più reali in certi momenti che in altri, più quando siamo in un certo modo piuttosto che in un altro. Sovente le persone dicono di sentirsi più reali quando stanno lavorando con molta concentrazione e attenzione... si sentono più reali quando si sentono più creative. Alcune dicono durante l'eccitazione sessuale, altre quando sono lucide e imparano cose nuove. Siamo più reali quando tutte le nostre energie sono focalizzate, la nostra attenzione è concentrata, quando siamo attenti, nel pieno dell'efficienza, e usiamo i nostri (positivi) poteri. Concentrandoci intensamente mettiamo più a fuoco anche noi stessi. ... La sfera del reale, di ciò che possiede più di un certo grado di realtà, non coincide con ciò che esiste. I personaggi letterari possono essere reali pur non esistendo; le cose esistenti possono avere solo il grado minimo di realtà richiesto per esistere. E' possibile situare il limite inferiore della realtà al livello dell'esistenza; niente di ciò che è meno vivido e nitido di ciò che esiste potrà essere definito reale. Ma la realtà ha diversi gradi, e la realtà che qui ci interessa particolarmente sta al di sopra di questo limite inferiore minimo. ... La "realtà" è la categoria valutativa fondamentale, oppure ce n'è un'altra ancora più fondamentale che serve a comprendere e valutarla? La categoria più basilare, per come la vedo io, è quella della realtà."