30 giugno 2011

L'omosessualità: una variante dello sviluppo


Nel 2007 insegnavo al Liceo Falcone e Borsellino di Arese. A un certo punto girava voce che un professore andasse dicendo in classe, agli studenti, che l'omosessualità è una malattia. Cominciammo a parlare, con un gruppo di colleghi, e decidemmo di fare qualcosa per contrastare l'azione dannosa di questo professore. Il risultato fu la stesura di un testo che venne pubblicato sul giornalino scolastico con le firme di tutti i professori che ne condividevano il contenuto:


Nel lavoro preparatorio per arrivare a questo testo andai a guardarmi la posizione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità riguardo all'omosessualità.

Un altro documento interessante è la risoluzione sulla parità di diritti per gli omosessuali  nella comunità, approvata dal Parlamento europeo neo 1994.


Di recente è uscito un libro nella collana Farsi un'idea del Mulino che fa il punto sulle concezioni più aggiornate e scientificamente fondate riguardo all'omosessualità. Lo segnalo al primo posto nella seguente lista di libri sull'argomento. 


Sono inoltre disponibili in rete tre testi molto chiari ed esaurienti, che trattano l'omosessualità, la varianza di genere e il dibattito sulla cosiddetta "teoria del gender", che ho segnalato in tre post successivi a questo:

Il "genere". Una guida orientativa
Gender. Che cos'è... e cosa non è (pensato per i giovani)
Sei sempre tu. Guida informativa per adulti su omosessualità e varianza di genere





22 giugno 2011

I giudizi morali: solo desideri? Si può essere insieme empiristi e deterministi? Borghini, Severino, Hume


In un articolo di Andrea Borghini, "Un mondo di possibilità. Realismo modale senza mondi possibili" (Rivista di estetica, n.s., 26 (2/2004)) il giovane filosofo argomenta a sostegno di una teoria sugli enti possibili (o possibilia) da lui chiamata "disposizionalismo". (Ho già scritto qualcosa partendo dal suo libro Che cos'è la possibilità: La filosofia come sistematica esplorazione delle possibilità e Non essere, possibilità, valore) Non intendo qui confrontarmi con  la teoria, ma solo riflettere su un passaggio delle sue argomentazioni che mi ha molto colpito.
    Discutendo dei "fictionisti", secondo i quali gli enti possibili sono storie, Borghini classifica tale posizione come atteggiamento scettico nei confronti dei possibilia (che riconduce a Hume) e poi prosegue:
Ora, potrebbe essere che i fictionisti, nel loro radicale empirismo, abbiano ragione. Potrebbe essere, cioè, che gli scenari possibili non siano che utili fictions e, di fatto, niente avrebbe potuto essere diverso da come è. Ma la mia fiducia nell'ontologia quale fondamento delle nostre credenze riguardo agli enti che ci circondano mi spinge a credere diversamente - almeno per le credenze che non siano morali, estetiche o legali. Nel caso dei giudizi morali, per esempio, abbiamo una buona ragione per assumere una posizione eliminativista: è più che plausibile sostenere che essi siano niente più che un modo per esprimere in tono più grave ciò che desideriamo. E lo stesso possiamo dire dei giudizi estetici e di quelli legali.
Quello che mi ha colpito è questa sorta di liquidazione en passant di etica, estetica e diritto.
Se, discutendo con un amico, mi lascio andare alla rabbia che in quel momento provo nei suoi confronti e gli dico una frase molto offensiva che lo ferisce, poi probabilmente mi pentirò e proverò un senso di colpa. Questo senso di colpa sarà accompagnato da un giudizio morale negativo verso me stesso. Mi dirò che sono stato stupido, che avrei dovuto controllarmi, che mi sono comportato male e che è il caso di scusarsi.
Secondo la posizione di Borghini sopra riportata questo giudizio morale verso me stesso non è altro che un modo di esprimere il mio desiderio attuale di non aver offeso l'amico. Il giudizio morale quindi non si baserebbe sul fatto che avrei potuto non offendere l'amico, non pronunciare la frase offensiva. 
Fatto possibile, ovviamente. Certamente non possiamo empiricamente constatare un fatto del genere. Potremmo forse sostenere che in casi analoghi (in altre discussioni con amici, ad esempio) io non ho offeso nessuno, quindi (per induzione, e ciò che ne segue è solo probabile) ho la capacità di non offendere mentre discuto. Ma in quel caso specifico?
Dietro a questa posizione empirista, che Borghini sembra difendere relativamente alle credenze morali, c'è la convinzione che tutto accada necessariamente. Del resto anche Borghini, nel brano sopra riportato, associa all'empirismo radicale verso gli scenari possibili una tesi deterministica ("niente avrebbe potuto essere diverso da come è").
La cosa strana dell'empirismo, su questo punto, è che assume una posizione deterministica senza rendersi conto che anche il determinismo è insostenibile, se si vuol essere empiristi radicali. Sulla base di quali esperienze, infatti, possiamo dire che le cose non avrebbero potuto andare diversamente? Non certo sostenendo un legame necessario, di tipo causale, fra un evento e gli eventi antecedenti: Hume stesso ha sostenuto che la necessità del nesso causale non è un'impressione (nella sua terminologia). La necessità non è un'esperienza, così come non lo è la contingenza. Quindi il determinismo è una posizione metafisica che un empirista radicale dovrebbe escludere come tale.
D'altra parte anche la libertà, intesa come libero arbitrio, non appare nell'esperienza. Su questo punto mi sembra molto forte il discorso che fa Emanuele Severino in Studi di filosofia della prassi (parte II: "Per la costruzione del concetto di libertà"), approfondendo la tesi kantiana secondo la quale "al libero arbitrio non può essere data nessuna intuizione corrispondente". In sostanza Severino sostiene che, per come è strutturata la nostra esperienza del tempo, il libero arbitrio non può mai essere dato nell'esperienza, quindi affermarlo è fare un'affermazione metafisica.
    In conclusione vorrei sostenere che sugli enti/eventi possibili non possiamo, se siamo empiristi radicali, né dire che esistono, né dire che non esistono: dobbiamo mantenere un atteggiamento problematico.
    Un empirista radicale che sostiene il determinismo (negando l'esistenza di eventi possibili) è come uno che dica: al di là dell'esperienza non possiamo sapere nulla, ma io so che al di là dell'esperienza non c'è nulla.
     Come se ci fosse andato, al di là, e avesse constatato che non c'è nulla!


Cfr anche, in questo blog
L'esistenza del possibile
L'inoltrepassabile






16 giugno 2011

La questione non è "quanti mondi?" ma piuttosto "Che cosa c'è?" (risposta di Franca D'Agostini alla lettera aperta del post precedente)

Caro Giulio,
grazie mille delle tue domande. In effetti riguardano questioni essenziali, rimaste sullo sfondo di Introduzione alla verità, e mi fa molto piacere parlarne. Provo a chiarire.
Premesse: 
1) il concetto di verità è un concetto di uso prevalentemente critico, discussivo, ispettivo: in una parola: scettico, visto che compare nel contesto di una skepsis, una ricerca. Tu mi dai un pugno, io ti denuncio, e si tratta di stabilire se è vero che mi hai dato un pugno, se tu neghi di averlo fatto.
2) si vede bene allora che V (è vero) significa banalmente: le cose stanno così come le mie parole dicono; 'costui mi ha dato un pugno' è vero perché effettivamente mi hai dato un pugno.
3) per usare sensatamente V in questo modo occorre postulare che ci sia un fatto (pugno) e ci siano parole che ne riferiscono fedelmente o meno. Diversamente non si capisce che senso abbia usarlo
4) postulare l'esistenza di fatti e parole non è un grande impegno metafisico: non è necessario pensare che le parole, essendo distinte dai fatti, non esistano o non possano essere fatti a loro volta, esattamente come per dire: 'Maria mi ha dato un bacio' non è necessario postulare l'esistenza di baci come entità ontologiche determinate.
Risposte alle domande:
5) le proposizioni sono fatti? le proposizioni (nel senso di Frege) sono certamente 'fatti', per un uso libero (non nietzscheano) della parola 'fatti': il fatto-proposizione 'costui mi ha dato un pugno' (parole, suono, pensiero) è però distinto dal fatto di cui la proposizione parla: il fatto appunto che mi hai dato un pugno
6) realtà e linguaggio sono distinti? realtà e linguaggio sono (da considerarsi come) distinti, visto che abbiamo due parole diverse per designare l'una e l'altro; ma non c'è nessun problema a distinguerli, visto che le due parole in questione funzionano molto bene, in molte occorrenze. Il problema nasce quando realtà e linguaggio, fatti e parole, si pensano come dei 'piani' veri e propri, come gli scaffali di una libreria, e si mettono in relazione esclusiva-esaustiva (cioè si dice: reale se e solo se non linguistico): ma che necessità abbiamo di pensare la realtà come una libreria fatta di due soli scaffali, in cui per giunta non ci possa essere alcuna comunicazione o intersezione tra il primo e il secondo? A mio avviso nessuna.
7) non commento il Tractatus perché a mio parere è un brogliaccio piuttosto geniale, che contiene molte intuizioni buone, ma anche proposizioni semplicemente false (a meno che non si usino le parole in modi strani): es. 2.18.
8) Dici: Platone: due mondi; Aristotele: un solo mondo; e dici di preferire Aristotele (dando a me della platonica, presumo). In realtà, forse direi piuttosto: Platone (una parte di Platone) prevedeva un solo mondo, quello delle idee-concetti, ma infinitamente complesso e movimentato; Aristotele: un solo mondo (quello dell'essere) ma estremamente variegato, con tante stratificazioni (sensibile, soprasensibile, mobile, immobile, ecc.), e in un certo senso anche inclusivo del non essere.
9) Come vedi in sostanza siamo tutti d'accordo: tu e io, e Platone e Aristotele (salvo che Platone non amava molto la sfera della sensibilità e il mondo fisico). Ma, NB: la tesi su cui siamo d'accordo non è: 'c'è un solo mondo' bensì 'c'è una realtà (fatta di molte cose e casi e mondi diversi) che rende vero - può rendere vero - ciò che diciamo'.
10) è proprio vero che il concetto di verità ci obbliga a pensare che esistano più mondi (la realtà, il linguaggio, la zona intermedia fra i due precedenti)? In realtà nessun concetto da solo obbliga a pensare in un modo piuttosto che in un altro. Piuttosto, il significato del concetto V mette in gioco la differenza e la relazione tra fatti e discorsi (nel senso sopra indicato), nel senso che quando tu dici 'è vero' entri automaticamente in una struttura di quel genere. Ma tu puoi benissimo usare V anche senza postulare la libreria con i due scaffali 'fatti' e 'discorsi'. Possiamo mettere la questione così: perché 'costui mi ha dato un pugno' sia vero deve esistere (essere esistito) qualcosa che lo rende tale, e questa è l'unica necessità a cui ci vincola l'uso sensato di V, poi non è necessario stabilire come sia fatto il fatto che ha reso vero l'enunciato, e se sia un fatto-fatto, o un fatto-discorso, o un fatto-interpretazione. Per esempio: 'esiste la radice di due' è un enunciato vero, anche se la radice di due come tale non sta nello scaffale fatti (inteso nel senso nietzscheano).
Spero di aver chiarito. Un saluto e a presto F

PS in realtà la questione non è "quanti mondi?" ma piuttosto "che cosa c'è?", e più in particolare: "ci sono le cose che sembrano non esistere?". A questo riguardo, a me piace abbastanza la soluzione di Graham Priest (Towards Non-Being): ci sono tutti gli oggetti, in tutti i mondi, salvo che alcuni oggetti esistono solo in alcuni mondi.

C'è un solo mondo? (lettera aperta a Franca D'Agostini)



Cara Franca,

tu dici: "V è un predicato di enunciati dichiarativi, o proposizioni (o credenze) dunque non di 'fatti', né di oggetti o entità di vario tipo" (p. 101).
Ma le proposizioni non sono fatti?

Sono d'accordo con te che il concetto di verità, inaggirabile e importantissimo, ci costringe a considerare realtà e linguaggio come piani ontologici distinti. Ma sono veramente distinti?

Tu dici: "con V non parlo solo del linguaggio, ma anche del mondo, e anzi postulo una zona intermedia fra l'uno e l'altro, che è appunto la zona in cui si colloca l'invisibile proprietà V". (pp. 315-316)
Ma il linguaggio non è comunque una parte del mondo? Una proposizione è un fatto che ha la capacità di rappresentare altri fatti, tant'è che il linguaggio può rappresentare se stesso! Con le parole posso parlare delle parole stesse. La situazione sembra essere dunque che c'è la realtà, nella quale esistono alcune sue parti (i soggetti, con il loro linguaggio) che possono riflettere e rappresentare altre sue parti o anche se stesse.

Wittgenstein, nel Tractatus:
2.1 Noi ci facciamo immagini dei fatti
2.12 L'immagine è un modello della realtà
2.141 L'immagine è un fatto.
2.16 Il fatto, per essere immagine, deve avere qualcosa in comune con il raffigurato.
2.18 Ciò che ogni immagine, di qualunque forma essa sia, deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare - correttamente o falsamente - è la forma logica, cioè la forma della realtà.
2.181 Se la forma della raffigurazione è la forma logica, l'immagine si chiama l'immagine logica.
2.182 Ogni immagine è anche un'immagine logica. (Invece, ad esempio, non ogni immagine è un'immagine spaziale.)
2.21 L'immagine concorda con la realtà o no; essa è corretta o scorretta, vera o falsa.
3. L'immagine logica dei fatti è il pensiero.
3.1 Nella proposizione il pensiero si esprime sensibilmente.
3.12 Il segno mediante il quale esprimiamo il pensiero, lo chiamo il segno proposizionale. E la proposizione è il segno proposizionale nella sua relazione di proiezione al mondo.
3.14 Il segno proposizionale consiste nell'essere i suoi elementi, le parole, in una determinata relazione l'uno all'altro. Il segno proposizionale è un fatto.

E' in fondo l'antica questione "Platone vs Aristotele": Aristotele sostiene che c'è un solo mondo, contro Platone che aveva sostenuto l'esistenza di (almeno) due mondi separati: il mondo delle idee e il mondo sensibile.
Il problema metafisico delle teorie che sostengono l'esistenza di più mondi (2, 3 o più) è: cosa esattamente li separa? Coesistono in uno "spazio" comune? Come possono, se non coesistono, essere collegati, in rapporto? (Lo stesso problema si pone in Kant, se interpretiamo "regime fenomenico" e "regime noumenico" come mondi distinti.)
E' molto più semplice pensare a un solo mondo, nel quale coesistono enti anche molto diversi fra loro, che intrattengono rapporti di vario genere. Per esempio ci sono cose che trasformano altre cose in se stesse (gli esseri viventi attraverso il metabolismo), e cose che producono altre cose le quali hanno il potere di rappresentare altre cose ancora o se stesse (gli uomini che parlano o scrivono).
Tu potrai dirmi: ma perché la realtà dev'essere semplice? Chi ci dice che non sia complicata?
Io però riformulo la questione così: è molto più semplice pensare a un solo mondo o è semplicemente più vero che esiste un solo mondo?

Dobbiamo porci le questioni metafisiche come questioni di verità, non come questioni di gusti.

E' proprio vero che il concetto di verità ci obbliga a pensare che esistano più mondi? (la realtà, il linguaggio, la zona intermedia fra i due precedenti)

Con affetto e stima

Giulio

1 giugno 2011

Un "nuovo inizio" della verità, per la rinascita della filosofia






E' in libreria il nuovo libro di Franca D'Agostini!
E' una specie di "summa" (con carattere sistematico, ripartito in quattro:  semantica, logica, epistemologia, pratica) delle tesi della filosofa, che intende rilanciare alla grande una concezione realistica della verità: "p è vera se e solo se le cose stanno così".
D'Agostini riconosce che "c'è una supermetafisica dietro a V.  (...) Non potremmo usare la funzione-verità se non potessimo concepire la grande semplificazione da cui proviene e a cui è legata l'idea di un mondo separato dall'esperienza umana. Questa semplificazione richiede che si fermi la realtà, l'essere, per farlo diventare eternamente il correlato dei nostri enunciati V; richiede che si isolino nel flusso degli eventi reali i fatti correlati agli enunciati; richiede che si considerino realtà e linguaggio come piani ontologici distinti, e capaci di fronteggiarsi e correlarsi."

Proprio sulla base di questo riconoscimento il libro contiene anche un forte invito ai filosofi contemporanei a tornare a pronunciarsi sulla realtà, perché la rinuncia a farlo non è stata la scomparsa della metafisica, bensì "la persistenza ostinata e implicita di una sua versione antica, settecentesca. Dunque il punto è che la metafisica, ossia la nostra concezione di 'fatto' e 'realtà', è rimasta molto indietro: al Settecento, o forse all'Ottocento, mentre alla luce delle nuove evidenze della scienza e della vita forse abbiamo altri 'fatti' con cui fare i conti. (...) ampliate la vostra ontologia, rendete duttile la vostra logica, e non avrete più molte ragioni di scetticismo riguardo alla verità." L'autrice, ricercando la radice delle questioni epistemologiche che hanno portato a questo blocco della riflessione metafisica propone una interpretazione corretta ed equilibrata della filosofia di Kant, vista come un semicostruzionismo derivante dalla volontà di combinare realismo ed empirismo. In questa luce la cosa in sé va intesa solo come indipendenza della realtà, non come sua inaccessibilità: "ci sono cose che non sappiamo/non vediamo (...) allora la tesi dell'in sé equivale a una ragionevole tesi di non-onniscienza: non sappiamo tutto (...)." ma "l'in sé non è inaccessibile".

Nel libro vengono affrontate tutte le questioni importanti riguardo a scetticismo, nichilismo, relativismo (si discute e si argomenta sulla verità delle proposizioni normative). C'è una pagina magistrale sul famoso aforisma di Nietzsche "non ci sono fatti, solo interpretazioni": D'Agostini, in un dialogo virtuale con Nietzsche, gli risponde "è un fatto che non esistono fatti? Se non lo è, come mai dici che le cose stanno così? Inoltre, posto che non sia un fatto bensì un'interpretazione, è un fatto che è un'interpretazione? (...) E' chiaro che non ci intendiamo: usiamo 'fatto' in modi diversi. Più precisamente: io uso 'fatto' in modo mobile e leggero, per riferirmi a una qualsiasi occorrenza, evento, o azione e situazione. Nietzsche usa 'fatto' in modo molto pesante, presumibilmente per riferirsi a fattualità dure, nude e crude. Ma attenzione: io non ho preso nessuna decisione riguardo a come sono fatti i fatti: potrebbero essere interpretazioni o sciami di microparticelle, oggetti del senso comune o astrazioni. Invece si direbbe che Nietzsche abbia già preso questa decisione (se no non direbbe che 'non esistono') Visibilmente, Nietzsche usa qui una metafisica (una concezione della realtà) molto restrittiva, ed è nella luce di questa metafisica che preferisce i fatti-interpretazioni ai fatti-fatti. (...) occorre una metafisica per sbarazzarsi della metafisica".
E più sotto prosegue: "la 'rinuncia' alla metafisica è in verità l'adesione a una metafisica dogmatica, non problematizzata. E più propriamente (...) questa metafisica non problematizzata è (...) un kantismo interpretato in senso iperempirista, con relativo svilimento del realismo, e potenziale deriva costruzionista". Occorre quindi tornare a occuparsi attivamente di metafisica, cercando di portare alla luce quali nuove concezioni della realtà siano adeguate ai risultati odierni delle scienze e agli sviluppi recenti delle vicende umane.

Nell'ultima parte del libro D'Agostini si occupa dell'uso di "vero" nella sfera pubblica e nella vita individuale, proponendo una raffinata analisi di alcuni aspetti cruciali della realtà contemporanea, mostrando come la verità sia un'arma scettica contro i dogmatismi e gli autoritarismi, spiegando come l'epoca del nichilismo sia davvero finita con lo sviluppo dell'informatizzazione: "Nell'epoca che stava avvicinandosi al trionfo della democrazia, e dunque alla valorizzazione della libertà degli individui, usciti dallo 'stato di minorità', si registrava una sproporzione oggettiva tra gli strumenti individuali di reperimento delle informazioni e il cumulo di conoscenze che i settori specializzati andavano producendo. Proprio questa sfasatura a un certo punto si chiamò 'nichilismo', o comunque costituì un fattore di decisiva importanza nell'incoraggiare le tendenze nichilistiche della cultura moderna. (...) Qualcosa però cambiava, verso la metà del secolo successivo (...). A partire dal 1955 (data convenzionale di inizio della società 'informatizzata'), con lento processo, la sfasatura tra le facoltà individuali di reperimento delle informazioni e la complessità dei saperi specializzati iniziava a ridursi. (...) Sul Web c'è di tutto, e tutto risulta vero, e non c'è modo di segnalare come falso quel che è falso (...) ma sappiamo anche che da qualche parte il vero c'è (visto che c'è tutto, o quasi), e possiamo fare una grande quantità di confronti incrociati per reperirlo. (...) tutti hanno (potrebbero-dovrebbero avere) diritti, facoltà e risorse per mettere in discussione ciò che si presenta come vero".

Un'introduzione alla verità che vuol essere anche un invito a fare ancora filosofia in senso pieno, forte, socratico, come "democrazia della ragione".