30 marzo 2014

Rovelli, capitolo 1: Grani. Dai concetti alla realtà. L'infinito attuale nel ragionamento di Democrito. Scienza, etica ed estetica unite insieme nell'atomismo antico.

Proseguo il commento a C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose.
(precedente commento: La scienza è fonte di valori?)



Nel primo capitolo Rovelli spiega come la teoria della gravità quantistica abbia una radice filosofica nella teoria dell'atomismo antico, di Leucippo e Democrito. In particolare, riporta il ragionamento filosofico con il quale Democrito, insieme ad altri argomenti, è arrivato all'idea che tutte le cose sono fatte di atomi (è l'argomento riferito da Aristotele nel De generazione et corruptione). 
Immaginiamo che la materia sia divisibile all'infinito, e immaginiamo di poter suddividere un pezzo di materia infinite volte. Cosa ne resterebbe? Particelle con dimensione estesa? No, perché se così fosse non potremmo dire di aver diviso all'infinito (quelle particelle, se estese, possono ancora essere suddivise). Dovrebbero allora restare solo punti senza estensione. Ma anche questo esito è contraddittorio, poiché aggregando punti senza estensione non otterremo mai il pezzo da cui siamo partiti. Per uscire dal paradosso dobbiamo pensare che la materia non sia divisibile all'infinito, cioè che sia composta da particelle estese non ulteriormente divisibili (gli atomi, appunto).

Le cose che voglio dire su questo sono due:

1.  Democrito, usando concetti (infinito/finito; divisibile/indivisibile ecc.), il principio di non contraddizione e il ragionamento, capisce cose vere sulla realtà. In altri termini: facendo un esperimento mentale, usando l'immaginazione e i concetti linguistici, coglie la natura profonda della materia. Come è possibile questo? Certamente, e Rovelli lo ricorda, Democrito usava anche argomenti basati sull'osservazione, ma quello che colpisce è come la metafisica possa anticipare la fisica di molti secoli. Già Popper aveva riflettuto su questo rapporto filosofia-scienza, e proprio sull'esempio dell'atomismo antico. Ora mi chiedo: questo esempio non mostra che la ragione può spingersi anche oltre i limiti dell'esperienza ed ottenere risultati positivi? Questa domanda la farei a Kant... Certamente solo la ragione e solo esperimenti mentali non bastano. L'osservazione è indispensabile, per ottenere conoscenza che si approssimi alla verità. Ma la forza dei concetti e dei ragionamenti è innegabile e conserva qualcosa di misterioso anche a distanza di secoli. Forse la spiegazione di come sia possibile questo potere conoscitivo del linguaggio e della ragione è che i concetti si sono formati proprio partendo dall'esperienza, o meglio dall'incontro fra la nostra mente e la realtà. Il linguaggio consente un accesso alla realtà che sembra a volte scavalcare l'esperienza, ma il linguaggio non si è creato nel vuoto mentale, si è creato nel continuo rapportarsi delle menti umane con la realtà, quindi potremmo dire che il linguaggio è intriso di esperienza già di per sé, e quindi usandolo correttamente, facendone un uso immaginativo e razionale insieme (come anche nella matematica), possiamo fare ipotesi veritiere sulla realtà.

2.  Nel ragionamento di Democrito si fa uso dell'infinito attuale: si immagina di aver già diviso un pezzo di materia infinite volte. Se invece Democrito avesse immaginato lo stesso caso ma basandosi sull'infinito potenziale, avrebbe potuto giungere a conclusioni diverse. Avrebbe potuto pensare a una materia continua (non granulare, o "discreta") nella quale ad ogni ulteriore suddivisione si ottengono parti estese, le quali però sono ulteriormente divisibili, e questo si può fare ogni volta senza mai fermarsi. (Un po' come accade nei video che simulano l'ingrandimento di un frattale, dove è chiaro che si può continuare all'infinito, nel senso che si potrebbe non smettere mai di ingrandire e troveremmo sempre la stessa struttura).

Rovelli afferma anche che probabilmente Leucippo aveva intuito che ci fosse un limite inferiore alla divisibilità ragionando su come risolvere i paradossi di Zenone di Elea.

Rovelli racconta poi che fino a fine Ottocento l'ipotesi atomica era rimasta tale, pur raccogliendo molti indizi, soprattutto dalla chimica. Molti, cioè, non credevano che gli atomi esistessero veramente. La prova definitiva è arrivata nel 1905, con un articolo di Einstein che parte dall'osservazione del moto browniano, cioè dal movimento fluttuante di granelli minimi di materia in un fluido (per esempio l'aria). 

Rovelli ricostruisce poi la storia dell'atomismo, esaltandone il naturalismo, il razionalismo, il materialismo. 
"Purtroppo," scrive a pagina 32 "ci è rimasto tutto Aristotele, sul quale si è poi ricostruito il pensiero occidentale, e niente Democrito. Forse, se ci fosse rimasto tutto Democrito e niente Aristotele, la storia intellettuale della nostra civiltà sarebbe stata migliore. Ma secoli di pensiero unico dominante monoteista non hanno permesso la sopravvivenza del naturalismo razionalistico e materialistico di Democrito (...) Platone e Aristotele, pagani che credevano nell'immortalità dell'anima, potevano essere tollerati da un Cristianesimo trionfante, non Democrito."

Nell'ultima frase Rovelli commette un errore: Aristotele non credeva nell'immortalità dell'anima...

Nell'ultima parte del capitolo Rovelli esalta il De rerum natura di Lucrezio come testo che conserva lo spirito dell'atomismo democriteo, e ne descrive alcuni tratti: il senso di meraviglia, di profonda unità delle cose (noi siamo fatti della stessa sostanza delle stelle...), la calma luminosa legata all'assenza di dèi capricciosi, l'accettazione profonda della vita e della morte, "amore profondo per la natura, immersione serena in essa, riconoscimento che ne siamo profondamente parte (...) tasselli organici di un tutto meraviglioso e senza gerarchie".
Cita Democrito, che dice: "Ogni terra è aperta al sapiente, perché la patria di un'anima virtuosa è l'intero universo".

Quello che mi sembra più interessante di questo discorso è il mostrare come nelle radici filosofiche del pensiero scientifico, purtroppo in buona parte perdute, ci fossero insieme conoscenza della natura e valori, mentre oggi si tende a pensare che la scienza non possa, o non debba, fare discorsi anche valoriali.






27 marzo 2014

Risposta alle obiezioni di Italo Nobile

Dopo la pubblicazione del post Traiettoria finita della freccia del tempo, Italo Nobile ha pubblicato sulla mia pagina Facebook alcune osservazioni critiche che riporto qui di seguito:

Non sono d'accordo in quanto la quantità di cose esprimibili non è infinita se e solo se il tempo non è infinito e se e solo se la lunghezza delle stringhe che costituiscono i termini designanti oggetti sia finita.

Tu accetti come premesse una certa interpretazione della biblioteca (ad es. in quella di Lasswitz ci sono anche le opere letterarie che attualmente non significano niente, ma nessuno può dire che non significhino qualcosa) e soprattutto neghi che ci possono essere serie infinite di segni a designare oggetti. In realtà con i segni a nostra disposizione possiamo designare infiniti oggetti dal momento che abbiamo i numeri

Questa tesi parte dal numero finito di segni e al numero finito di pagine di un libro per inferire qualcosa sull'universo. Ma ciò significa mettere il carro davanti ai buoi. L'unica cosa che potremmo dire è che, nel caso di universo infinito (o con un numero infinito di oggetti) ad un certo punto ci potremmo trovare nella situazione per cui dobbiamo considerare degli oggetti nuovi come copie di oggetti già visti

Provo a rispondere, o comunque a commentare a mia volta quanto dice Italo.
Sulla prima osservazione, che ipotizza un tempo infinito nel quale si possano esprimere cose infinite, direi questo: se partiamo dall'ipotesi di un tempo infinito nel quale esista una produzione infinita di testi significanti, resta il fatto che a un certo punto, esaurite le combinazioni possibili di tutti i segni entro un certo formato (numero di caratteri per pagina, numero di pagine per testo) siamo destinati a ripetere le stesse cose, quindi per quanto infinita la Biblioteca sarà ripetitiva, modulare...

Sulla "lunghezza delle stringhe" dei termini designanti mi vengono in mente i numeri irrazionali... Cosa analoga Italo dice più sotto quando ipotizza "serie infinite di segni a designare oggetti", e "con i segni a nostra disposizione possiamo designare infiniti oggetti dal momento che abbiamo i numeri."
In effetti qui mi pare che Italo colga un punto cruciale: nel paradosso della Biblioteca di Babele i numeri non sono considerati, ed è vero che i numeri sono di per sé intrisi di infinito, infinito stratificato, fra l'altro, a diversi livelli di potenzialità (come Cantor ci ha rivelato con la sua teoria dei numeri transfiniti). Resta il fatto che il linguaggio matematico ha un modo diverso di rapportarsi con la realtà rispetto al linguaggio verbale, e forse addirittura si potrebbe dire che il linguaggio matematico descrive, direttamente, oggetti "di altro tipo" rispetto alle cose fisiche, anche se ovviamente è fondamentale per la conoscenza del mondo fisico nel senso che descrive indirettamente situazioni e rapporti fra cose fisiche... Per ora non mi sento di dire altro ma ci penserò ancora.

E' vero che parto da una certa interpretazione della Biblioteca, ma ci tengo a chiarire bene un punto sul quale ho riflettuto molto. Il fatto che si ipotizzi un numero finito di segni grafici, che corrispondono a un numero finito di fonemi (e parliamo di linguaggio verbale) si fonda sulla realtà dei linguaggi naturali e anche sulla struttura dell'apparato vocale umano. Non possiamo produrre infiniti tipi di suoni. Il fatto che si prenda in considerazione un numero finito di righe/pagine di un testo non implica che si metta un limite fisso alla lunghezza di un testo, infatti un testo può essere espresso in più volumi della Biblioteca, ma significa che si considerano, nel paradosso, testi di senso compiuto, cioè testi finiti, per quanto lunghi possano essere.
(Resta il problema di considerare la possibilità di un testo infinito. Bisognerebbe considerare innanzitutto se infinito potenzialmente o infinito in atto...)

Infine, all'obiezione di "mettere il carro davanti ai buoi" se partiamo da considerazioni sul linguaggio per arrivare a tesi sulla realtà, rispondo che è un procedimento tipico della filosofia, nelle sue aspirazioni metafisiche. Da Platone e Aristotele fino a Wittgenstein... non abbiamo sempre fatto così? (Del resto il linguaggio è esso stesso un "pezzo" di realtà. Una proposizione è un fatto che esprime un altro fatto...)

25 marzo 2014

La scienza è fonte di valori?




Carlo Rovelli, ordinario di fisica teorica in Francia, saggista e collaboratore del Sole24Ore per il supplemento culturale, ha pubblicato di recente un libro dal titolo La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose (Raffaello Cortina 2014). Riporto qualche passaggio della Premessa di questo volume, per poi fare un breve commento.
"L'umanità è come un bimbo che cresce e scopre con stupore che il mondo non è solo la sua stanzetta e il suo campo giochi, ma è vasto, ci sono mille cose da scoprire e idee da conoscere diverse da quelle fra le quali è cresciuto. L'Universo è multiforme e sconfinato, e continuiamo a scoprirne nuovi aspetti. Più impariamo sul mondo, più ci stupiamo della sua varietà, bellezza e semplicità. (...) Il mondo è sterminato e iridescente; vogliamo andarlo a vedere. Siamo immersi nel suo mistero e nella sua bellezza, e oltre la collina ci sono territori ancora inesplorati. L'incertezza in cui siamo immersi, la nostra precarietà, sospesa sull'abisso dell'immensità di ciò che non sappiamo, non rende la vita insensata: la rende preziosa."

Le mie domande, rispetto a queste parole che mi hanno colpito, sono, oltre a quella che dà il titolo a questo post: cosa fa propendere una persona verso queste sensazioni di mistero, bellezza e preziosità della vita piuttosto che verso il nichilismo? Il progredire delle conoscenze scientifiche e quindi anche la progressiva consapevolezza umana di essere parte infinitesima di qualcosa di immenso e in gran parte ancora ignoto non può produrre anche l'effetto opposto, appunto la sensazione di mancanza di un senso complessivo della realtà? Da cosa dipende l'effetto valoriale vs nichilistico della conoscenza scientifica?

Traiettoria finita della freccia del tempo. L'impossibilità di una serie di eventi costantemente variante e infinita. Le conseguenze del paradosso della Biblioteca di Babele




Sostengo, in questo testo, che riguardo alla storia dell'universo sono possibili solo due ipotesi:
1) che abbia avuto un inizio e che avrà una fine,
2) che si ripeta ciclicamente.
Per un ragionamento ulteriore, che accenno alla fine di questo testo, ritengo poi molto più probabile la prima delle due ipotesi.
E' da escludersi, invece, secondo un ragionamento che parte dal paradosso della Biblioteca di Babele, che:
3) abbia avuto un inizio e che possa svolgersi in futuro in modo sempre diverso all'infinito,
4) che non abbia avuto un inizio e che si estenda all'infinito nelle due direzioni (all'indietro e in avanti) in modo costantemente variante.

L'argomento parte dall'idea, che dobbiamo a Borges (si veda l'analisi del racconto La biblioteca di Babele nel post sopra richiamato, pubblicato in questo blog nel giugno 2010), che la quantità di cose esprimibili non sia infinita. Non sono infinite, quindi, le possibili descrizioni vere che corrispondano agli eventi della storia dell'universo. Facciamo l'ipotesi che per ogni galassia esistano 24000 miliardi di volumi che ne descrivano in modo veritiero l'evoluzione, la storia, entrando nel dettaglio delle stelle e dei pianeti più significativi (nel caso in cui su uno o più pianeti si sia sviluppata la vita ammettiamo pure che vi sia un supplemento di 36000 miliardi di volumi per ciascun pianeta, nei quali vengono descritte le varie specie e la loro evoluzione, la storia delle loro civiltà e così via).
Per quanto sia enormemente grande il numero di questi volumi, sarà sempre un numero finito n (Certo, a meno che il numero delle galassie non sia infinito. Ciò aprirebbe un ulteriore paradosso rispetto alla finitezza delle cose esprimibili). Rispetto all'idea che la storia di ogni galassia possa essere più lunga rispetto a quanto narrato in quei 24000 miliardi di volumi vale il paradosso che abbiamo già esposto: ammettiamo che vada oltre, ma non sarà comunque descrivibile? Se è descrivibile rientrerà nel numero finito delle cose esprimibili. Quindi forse saranno necessari più volumi, ma non potranno mai essere infiniti volumi. Dal paradosso si esce quindi solo con due ipotesi: o la storia dell'universo è finita, o si ripete ciclicamente uguale (se fosse ciclica ma ogni volta diversa non sarebbe in realtà ciclica). Questa seconda ipotesi, però, appare altamente improbabile: lo studio dei fenomeni naturali mostra come la contingenza sia sovrana, quando si parla di successioni storiche, con un prima e un poi. Non resta dunque che l'ipotesi 1 come la più probabile.

Vedi anche il post, successivo a questo, Risposta alle obiezioni di Italo Nobile
Vedi anche il post Contro l'infinito