11 marzo 2019

Husserl, Idee I: brani e riflessioni







(Introduzione, p. 9 ed. Einaudi 1981:)

la fenomenologia pura o trascendentale verrà fondata non come scienza di dati di fatto, ma come scienza di essenze (...); come una scienza che intende stabilire esclusivamente conoscenze di essenze e  nessun dato di fatto. (...)
In secondo luogo i fenomeni della fenomenologia trascendentale vengono caratterizzati come irreali.
(...)
è necessaria una distinzione tra l'essere reale e l'essere individuale (semplicemente temporale). L'ascesa alla pura essenza ci dà da una parte la conoscenza essenziale del reale, dall'altra parte quella dell'irreale. Si vedrà inoltre che tutti gli Erlebnisse trascendentalmente purificati sono delle *irrealtà* poste fuori da ogni inglobamento nel mondo reale. Appunto queste irrealtà ricerca la fenomenologia, ma non come singolarità particolari, bensì nell'essenza.

Tutta questa insistenza sull'irrealtà mi affascina, anche se probabilmente la valenza che dò io al concetto di "irrealtà" è diversa da quella che intende Husserl qui. A me il concetto di irrealtà fa subito pensare al regno dell'immaginazione, mentre Husserl intende, più o meno, la dimensione inafferrabile ("dal di fuori") dei vissuti, degli Erlebnisse, che non sono "fatti" in quanto non condivisibili, esperibili solo dal soggetto che li vive. Irreali, quindi, se presupponiamo un concetto di realtà modellato sulla cosa naturale, percepibile da tutti, toccabile, misurabile eccetera. Certo, all'interno di questa dimensione dell'esperienza fenomenologica, ci sono anche fenomeni più squisitamente "irreali", come gli oggetti prodotti dall'immaginazione o dal pensiero...


(Capitolo primo, § 2. Dato di fatto. Inseparabilità di dato di fatto ed essenza. :)

Le scienze dell'esperienza nel senso usuale sono scienze di dati di fatto. Gli atti costitutivi dell'esperire pongono il reale individualmente, come esistente nel tempo e nello spazio, come qualcosa che è in questo punto del tempo ed ha questa durata, e questo contenuto di realtà, ma che, considerato secondo la sua essenza [corsivo mio], sarebbe potuto essere in un altro punto del tempo; e parimenti come qualcosa che è in questo luogo e con questa figura fisica (...), ma, considerato secondo la sua essenza, sarebbe potuto essere in qualsiasi luogo e con qualsiasi figura, e parimenti sarebbe potuto variare, mentre di fatto è invariato, o sarebbe potuto variare in maniera diversa da come di fatto è variato. L'essere individuale di ogni specie è quindi, per esprimerci in modo del tutto generale, *casuale*. È così, ma per la sua stessa essenza sarebbe potuto essere diversamente.

Mi colpisce in questo passaggio come Husserl di fatto stia "fondando" la contingenza (in senso metafisico) di ciascuna realtà individuale attraverso il confronto fra tale realtà di fatto e la sua essenza. Una singola cosa è così com'è, ma avrebbe potuto essere diversa perché non tutto l'insieme delle sue proprietà appartengono alla sua essenza. Ma se l'essenza di una cosa è l'insieme delle sue proprietà che ne costituisce l'identità, allora una cosa è in parte necessariamente tale, in parte potrebbe essere diversa. Ad esempio una persona è in parte necessariamente tale in quanto appartiene al genere umano e quindi ha necessariamente alcune caratteristiche, ma avrebbe potuto essere una persona diversa, pur continuando ad essere appartenente al genere umano. Oppure, più in particolare, il singolo individuo X è in parte necessariamente tale (per le caratteristiche che ne costituiscono l'identità), ma potrebbe essere, qui e ora, diversamente collocato nello spazio, o potrebbe avere alcune caratteristiche diverse che non ne intaccano l'identità. Quindi il margine di contingenza (metafisica), e quindi anche il margine di libertà (metafisica) corrispondono a quell'insieme di proprietà (tra le quali anche le azioni) che pur variando non mutano l'identità del singolo individuo (o cosa individuale). Ma il problema allora si sposta su: chi stabilisce qual è l'insieme delle proprietà che definiscono una singola cosa o un singolo individuo? 
Qual è l'essenza di Faustino Tiraboschi, al di là di essere appartenente al genere umano?
In quanto essere umano avrebbe potuto essere diverso, in quanto italiano vivente nell'epoca XY avrebbe potuto essere diverso, in quanto figlio di XY avrebbe potuto essere diverso e così via, ma fino a che punto di specificità?
L'individuo X ha fatto l'azione p. Se avesse fatto q la sua identità individuale sarebbe cambiata?
Ragionando come Husserl, in relazione a questo paragrafo e in riferimento al tema del libero arbitrio, si potrebbe dire così:
Se l'individuo X ha fatto l'azione p e questa azione p rientra nelle sue caratteristiche essenziali, allora l'ha fatto necessariamente, se invece p non rientra nelle sue caratteristiche essenziali allora avrebbe anche potuto fare q.
Husserl considera questa compresenza di necessità e contingenza, infatti prosegue così:

(...) Ma il senso di questa causalità, che è caratteristica della fatticità, trova il suo limite in quanto si riferisce correlativamente ad una *necessità*, che non significa il semplice sussistere fattizio di una regola valida per un ordinamento di dati di fatto spazio-temporali, ma ha il carattere della necessito essenziale ed è con ciò connessa con la universalità essenziale. Dicendo: ogni dato di fatto potrebbe «per essenza» essere diverso da quello che è, lasciammo già intendere che al senso di ogni essere casuale si conviene di avere appunto un'essenza, un eidos afferrabile a priori, e che questa essenza si inserisce in una gerarchia di verità essenziali di diverso grado di generalità. Un oggetto individuale non è qualcosa di semplicemente individuale, un effimero «questo qui», ma, in quanto è «in se stesso» così e così costituito, possiede come propria caratteristica dei predicati essenziali che necessariamente [corsivo mio] gli competono (competono cioè all'ente «come è in sé stesso»), oltre ai quali può ricevere poi altre determinazioni secondarie e casuali.






1 marzo 2019

Possibile estendere gli "Elementi di una dottrina dell'esperienza"? Una risposta di Giovanni Piana









Milano, 18 giugno 2000

Gentile prof. Piana,

le scrivo per sottoporre alla sua attenzione un progetto di ricerca che avrebbe come punto di partenza Elementi di una dottrina dell'esperienza. Le chiedo:
1) se abbia senso intraprendere una siffatta ricerca (o se si tratti di un progetto troppo ambizioso, o male impostato...)
2) eventuali consigli in merito.

Provo a esporle subito il titolo e l'indice di questo possibile lavoro:

RICCHEZZA E INTENSITÀ
Elementi per una disciplina dell'esperienza

Parte prima: i piani dell'esperienza
Percezione
Emozione
Ricordo
Immaginazione
Desiderio/Volontà
Pensiero
Azione
[ In un successivo progetto ho poi rielaborato questo "elenco" in nel modo seguente ordinando i piani dell'esperienza da quelli più vicini al soggetto a quelli più vicini all'oggetto:
    bisogno
           desiderio / volontà / intenzione
                  immaginazione
                         pensiero
                                 ricordo
                                         emozione
                                                 percezione
                                                              azione]

Parte seconda: ricchezza e intensità dell'esperienza
Norme particolari
Norme generali
Senso e orientamento: la dialettica fra intensità e ricchezza

Nella prima parte si tratterebbe di riprendere ed ampliare la trattazione di Elementi di una dottrina dell'esperienza, usando lo stesso metodo (lo strutturalismo fenomenologico) per la caratterizzazione di altri piani dell'esperienza che là non sono stati affrontati, con l'obiettivo di esibire una mappa completa del campo dei "modi dell'intendere". I tre piani mancanti sarebbero quindi l'emozione, il desiderio/volontà, l'azione.
È d'accordo che questi tre campi saturerebbero la completezza delle modalità fondamentali dell'esperienza?
Sul piano dell'azione tenderei ad utilizzare, almeno in parte, le analisi di von Wright. L'azione sarebbe intesa come quell'esperienza nella quale il soggetto provoca una modificazione dell'oggetto percepito. [...] Secondo lei è corretta l'impostazione, che deriva ancora da von Wright, secondo la quale le esperienze di volontà siano comunque connesse al desiderio? Inoltre è vero, secondo lei, che l'oggetto voluto, desiderato, è sempre un'azione, un'emozione, una percezione...? (cioè non è mai un semplice oggetto; per esempio : desidero un gatto. In realtà desidero accarezzare un gatto, coccolare un gatto, amare un gatto, essere amato da un gatto, guardare un gatto...).
Nella seconda parte si tratterebbe di dare indicazioni sul piano pratico-orientativo, che siano però strettamente connesse col piano teoretico. Si tratterebbe di passare a considerare il piano del "valore" delle esperienze. Per esempio: un'esperienza confusa vale meno di un'esperienza chiara. Partendo dal fatto che le esperienze hanno una struttura, si può sostenere che vanno vissute con metodo, con disciplina, ovvero cercando di valorizzarle, e le due direzioni fondamentali, antitetiche ma non incompatibili, sono (questa sarebbe la tesi di fondo) l'intensità e la ricchezza. Come rendere le esperienze più intense? (cioè più concentrate, focalizzate, mirate...). Come rendere le esperienze più ricche? (cioè più complesse, ampie, contestualizzate, panoramiche, molteplici...)
[...]
La ringrazio per l'attenzione
Giulio Napoleoni.


16 luglio 2000

Caro Giulio Napoleoni,

rispondere alla sua lettera non è per nulla una cosa facile! Il progetto di estendere la ricerca in direzione della vita volitiva ed emotiva in genere, tenendo fermo un punto di vista fenomenologico-strutturale è naturalmente sensatissima. Ma anche molto complicata... È superfluo che io le dica che avevo sperimentato questa possibilità percorrendone alcuni brevi tratti (partendo dal tema del bisogno, si perviene facilmente a quello del desiderio, e di qui a tutta la tematica dei vissuti emotivi. Inoltre il bisogno è legato alla prassi, all'azione... Ho fatto molto tempo fa delle lezioni su questi argomenti). Ciò che mi aveva spaventato è la più che probabile necessità di misurarsi con la psicoanalisi. Certo, si può anche sostenere che la via fenomenologia è profondamente diversa e può anche permettersi di passare a lato delle problematiche psicoanalitiche; ma la produzione psicoanalitica in questo campo è troppo imponente per non dirne nulla. Occupandosi di questi temi si rischia di finirci dentro fino al collo - come è accaduto ad Alfredo Civita. E d'altra parte vi è anche una tendenza fenomenologia in questo campo (Binswanger), ed ancora più indietro vi è Scheler, ed anche per certi aspetti Heidegger... C'è di che ritrarsene un po' spaventati. Nulla tuttavia è indominabile, e non dobbiamo essere costretti a leggere intere biblioteche per scrivere un buon libro. Quindi non intendo affatto scoraggiarla. Il mio unico consiglio è quello di cercare di fare il massimo sforzo per evitare di sovradimensionare il lavoro, altrimenti potrebbe proprio diventare impraticabile.

Proprio l'unico! Mi fa un sacco piacere, in realtà, vedere che a distanza di molti anni il mio lavoro è ancora presso qualcuno; ed ancor più, che si pensi di poterne sviluppare le linee e portarlo oltre il punto in cui io l'ho portato. Ma mi sembra impossibile dare consigli e suggerimenti, proporre letture e fornire indicazioni. Ho pensato questo proprio leggendo le domande che lei mi rivolge nella sua lettera. Rispondere realmente ad esse significherebbe mettersi al lavoro proprio sui temi generali di cui mi parla. Senza contare che ciascuno ha i propri orientamenti mentali e i propri percorsi - come è giusto che sia. Ed a me personalmente risulta difficilissimo, anzi sostanzialmente impossibile, tentare di portare l'attenzione su argomenti che non sono quelli di cui mi occupo attualmente.

Posso aggiungere soltanto che il suo progetto mi sembra meglio definito nella parte prima piuttosto che nella parte seconda. La faccenda dell'intensità e della ricchezza mi sembra porsi su un terreno abbastanza diverso da quello su cui ci si attiene nella prima parte (e mi convince anche un po' meno).

Insomma, la ringrazio molto per avermi messo a parte di questo suo progetto - ma la prego di non implicarmi in esso!


L'addio a Giovanni Piana di Roberta De Monticelli









Oggi, 1 marzo 2019, Roberta De Monticelli pubblica sul Manifesto un articolo su Giovanni Piana, "fino a oggi il più grande e vivo maestro della fenomenologia italiana".

Lo riporto qui di seguito e aggiungo solo che in un successivo post pubblicherò un breve scambio epistolare nel quale sottoponevo a Piana un progetto di ampliamento del suo Elementi per una dottrina dell'esperienza e lui, con eleganza, si ritraeva fornendo però alcune indicazioni, o meglio, chiarendo i motivi per cui aveva limitato il campo dell'esperienza, nel suo testo, a quattro piani: percezione, ricordo, immaginazione e pensiero.


GIOVANNI PIANA, LA FILOSOFIA TENDE ALL'ELEMENTARE E NON HA FRETTA
Addio al maestro di molte generazioni di fenomenologi italiani. Lontano da definizioni scontate, si è riconosciuto in uno «strutturalismo fenomenologico» in cui a essere presenti sono influenze di Husserl, Wittgenstein e Bachelard

«Supponiamo che ci si pari dinanzi il grande edificio della Filosofia. Di fronte alla porta, il Guardiano della Filosofia ci interroga e ci chiede: – Perché mai desideri entrare qui? – Il fatto è che, giunto a questo punto della mia esistenza, non riesco più a raccapezzarmi. – Allora sta bene. Puoi entrare. Conclude il Guardiano. (L’edificio subito scompare)».
    Niente meglio della parentesi con cui si conclude questa favola quasi-kafkiana rende lo stile di pensiero di Giovanni Piana, fino a oggi il più grande e vivo maestro della fenomenologia italiana, scomparso improvvisamente a nemmeno 79 anni, nel pieno di una fase creativa che ha visto arricchirsi incessantemente le sue Opere Complete (raccolte nel sito del Dipartimento di filosofia dell’Università Statale che ne ospita l’Archivio: http://www.filosofia.unimi.it/piana/). Da qui, dal volume 13, Introduzione alla filosofia (2013), è tratta l’immagine di apertura.
    Deve essere tornata in mente a molti di noi quell’immagine, associata forse al ricordo del corridoio al quale si affacciava il suo studio, alla Statale di Milano, in via Festa del Perdono, dove Piana ha insegnato Filosofia Teoretica dal 1970 al 1999. Lì accanto, negli studi contigui, si discuteva molto animatamente di filosofia del linguaggio e di logica, di estetica e di psicologia e di filosofia della scienza – come se in ciascuno di quegli studi ogni rivolo del fiume in piena che era stato il pensiero di Enzo Paci (1911-1976) avesse trovato argine e ordine e la quiete vivace della discussione quotidiana, cioè della ricerca. Poteva davvero sembrare fosse lì, affacciato su uno dei chiostri del Bramante, «il grande edificio della Filosofia».
    A proposito di Paci: fa impressione oggi ritrovare nell’Archivio di Piana la grafia azzurrina, minuta e limpida, di una sua lettera del ’61 – l’anno di pubblicazione dell’edizione italiana della Crisi di Husserl – al giovanissimo allievo: «Io sono qui che scrivo, nella tarda notte, a un giovane che amo per quello che è, per quello che fa, per quello che può fare. Ti scrivo sapendo molto bene, molto più di te, con più certezza di te, che tu hai un compito da assolvere che mi supera, che tu assolverai meglio di me». Nel 1968 esce la limpidissima traduzione italiana di Piana delle Ricerche Logiche, su cui si sono formate molte generazioni di fenomenologi. Il ’68! Viene da pensare a un’altra frase di Piana: «Io credo che la filosofia abbia a che fare soprattutto con la confusione» – e con l’amore di chiarezza e distinzione che le risponde, accettando di soffrire dubbio e passione.
    È la cifra stessa della fenomenologia, che poggia sui due pilastri dell’esperienza vissuta e del rigore analitico. Anche se Piana non volle mai ridursi a un filosofo di scuola – egli stesso definisce il suo pensiero uno «strutturalismo fenomenologico» in cui sono presenti influenze di Husserl, Wittgenstein e Bachelard. In effetti dopo Esistenza e storia negli inediti di Husserl (1965) e I problemi della fenomenologia (1966) Piana scrive una Interpretazione del Tractatus di Wittgenstein (1973).
    Con la sua straordinaria esplorazione dell’intera vita cognitiva, Elementi di una dottrina dell’esperienza (1979) assume la misura di un piccolo classico: ma nel 1988 escono i quattro saggi (di cui due su Bachelard e Cassirer) de La notte dei lampi, fonte inesauribile per uno dei filoni di ricerca più tipici di Piana, le Immagini. L’altro, quello dei Suoni, vedrà una vera e propria esplosione creativa nell’ultimo ventennio. Perché il filosofo non ha mai lasciato solo il violinista: anzi nella familiarità con quella «cosa stessa» che è la musica si radica il filone forse più noto e internazionalmente apprezzato della ricerca fenomenologica di Piana, a partire da Filosofia della musica (2001).
     Suoni e Immagini: due passioni che confluiranno nell’Album per la teoria greca della musica (2010). Dal suo ritiro nella luce della Calabria, di fronte al mare, Piana ha contribuito ad animare il Seminario Permanente di Filosofia della Musica, di cui è espressione il giornale on line «De Musica», diretto da Carlo Serra.
    È in quella luce che è fiorita la maggior parte delle sue composizioni musicali – se ne trovano 35 nel suo archivio, io ne ricordo una struggente eppure infine rasserenata, dedicata all’amatissima compagna della sua vita, Marina, prematuramente scomparsa nel 2012. Ma tutte le immagini e i suoni che popolano il suo vivente Archivio resteranno con noi. «La vera filosofia tende all’elementare. E dunque non ha fretta di correre oltre, indugia in quei punti rispetto ai quali si potrebbe benissimo soprassedere. In certo senso si fa custode del ricordo di cose che si potrebbero facilmente dimenticare».