18 agosto 2022

MOMENTI INTENSI DI VITA INFANTILE di Gabriella Sacchetti

 






La prima neve

È il pomeriggio del giorno che ho visto la neve per la prima volta. Sono nella cucina della nonna.

L’eccitazione di prima, quando toccavo la neve mentre il nonno ci fotografava, si è un po’ attutita ed ora guardo dalla finestra il giardino, il grande albero di noce con intorno piccoli alberelli toccati leggermente dalla neve che scende con movimento continuo leggero, regolare, mentre la luce diminuisce a poco a poco. Sono commossa da questa scena e mi sento invasa da un piacere. È il movimento regolare, silenzioso, che mi piace tanto? È un'emozione estetica a 7 anni? Ancora adesso che ne ho 90, mi capita di rivedere quella scena  che mi trasmette pace e ho potuto riviverla intensamente come allora più volte nella mia vita.



Fuga da Gaeta

Fuggiamo da Gaeta perché “la montagna spaccata” si sta incendiando, e tutti scappano dalle spiagge e dalle case. In un grande trambusto la mamma trova finalmente un tassista che ci porta via nella sua macchina. Andiamo dai nonni a Isoletta. Io ho 5 anni. La strada è dritta e dal finestrino posteriore vedo due monti con dentro una grande fiamma. Io continuo a guardare i due monti con la fiamma e guardo, guardo. Questa visione dura molto  e lentamente cambia: a poco a poco si rimpiccioliscono, ma ci sono per molto tempo; io non stacco lo sguardo, e vedo il loro colore  che diventa più scuro, ma la fiamma è sempre molto rossa. Trovo bella questa scena, forse perché c’è  movimento e  cambiamento. Sento una emozione che mi dà piacere. Ancora posso rivedere quelle immagini molto precise e rievocarle mi incanta, anche ora che ho 90 anni.



Rospo di sera

Nelle serate estive all’imbrunire noi bambini ci sedevamo con la mamma sui quattro scalini davanti alla porta di casa, per prendere il fresco e chiacchierare. Ogni tanto  sbucava fuori un rospo. Allora smettevamo subito di parlare e lo osservavamo mentre grosso, marrone con puntini, si faceva  un giretto con un suo ritmo lento ma regolare, e poi tornava verso di noi, forse infilandosi sotto gli scalini. Era una presenza magica e misteriosa. Certe volte tardava a venire, e noi lo aspettavamo.



Margherite

Un giorno mia sorella Ida e la mamma mi portano delle margherite che hanno colto sulla via Appia antica.

Mi entusiasmano subito: non sono le margherite che vedo nei prati vicino a casa.

Queste hanno il gambo molto lungo, esagerato, che splendore!

Eppure sono flosce, colte da un’ora, non figurerebbero in una vetrina di un fioraio.

Ma quel gambo così lungo mi inebria, e, quando ho bisogno di rallegrarmi con qualcosa di molto bello, le rivedo, precise.

9 agosto 2022

Paradosso minore di Harari (l'affermazione della "realtà immaginata") e altre considerazioni critiche sulla sua ontologia

 




Stiamo leggendo Sapiens. Nel capitolo 2 (cuore della Parte prima, sulla Rivoluzione cognitiva), alle pp. 46-47 leggiamo:

I tipi di cose che la gente crea attraverso questa rete di storie vengono chiamate, nei circoli accademici, "costrutti sociali"o "realtà immaginate". Una realtà immaginata non è una bugia. (...) A differenza della menzogna, la realtà immaginata è qualcosa in cui tutti credono [corsivo mio]; e, fintantoché questa credenza comune persiste, esercita un'influenza sul mondo. (...)  Alcuni stregoni sono ciarlatani, ma in gran parte credono davvero nell'esistenza di dèi e demoni. Molti milionari credono sinceramente nell'esistenza di del denaro e delle società a responsabilità limitata. Molti attivisti credono sinceramente nell'esistenza dei diritti umani. Nessuno mentiva quando, nel 2011, le Nazioni Unite richiesero che il governo libico rispettasse i diritti umani dei suoi cittadini, anche se le Nazioni Unite, la Libia e i diritti umani sono invenzioni della nostra fervida immaginazione.

Dall'inizio della Rivoluzione cognitiva Homo sapiens ha dunque vissuto una realtà duale. Da un lato, la realtà oggettiva di fiumi, alberi e leoni; dall'altra, la realtà immaginata di dèi, nazioni e società per azioni. Col passare del tempo, la realtà immaginata è diventata via via sempre più potente, di modo che oggi la sopravvivenza stessa di fiumi, alberi e leoni dipende dalla benevolenza di entità quali gli dèi, le nazioni e le società per azioni.

1) Entriamo innanzitutto in una questione logica. L'affermazione che ho evidenziato in corsivo è paradossale, in senso stretto autocontraddittoria. Mi spiego: se io affermo «la realtà immaginata è qualcosa in cui tutti credono» anche io, che la sto affermando, dovrei crederci. Ma Harari ha appena poco sopra sostenuto che dèi, nazioni, denaro e diritti umani non esistono, quindi almeno lui sembrerebbe non credere nella "realtà immaginata". L'affermazione allora si potrebbe correggere, per togliere la contraddizione, trasformandola in «la realtà immaginata è qualcosa in cui quasi tutte le persone tranne l'autore di questo libro, alcuni filosofi e forse anche i lettori di questo libro, credono». In questo modo, però, l'affermazione si depotenzia non poco, soprattutto se pensiamo che i libri di Harari sono diventati bestsellers di livello mondiale...

2) Seconda questione: a me sembra che il senso in cui si può affermare l'inesistenza degli dèi sia diverso dal senso in cui si può affermare l'inesistenza del denaro e l'inesistenza dei diritti umani. Non sono ancora in grado di spiegare bene le differenze, ma arriverei a dire che per ogni affermazione di inesistenza occorre fare un caso a sé...

3) Il fatto che la realtà immaginata sia diventata sempre più potente (cosa che rispetto agli dèi è forse discutibile, tenendo conto del fenomeno della secolarizzazione...) sembrerebbe mettere in dubbio l'affermazione dell'inesistenza delle cose di cui tale realtà si compone, stando a un principio ontologico piuttosto condiviso in filosofia, per il quale se la cosa x produce effetti, ha conseguenze causali, allora x esiste.

4) Non si capisce bene se l'ultima frase citata sia una battuta o una tesi da approfondire; in ogni caso questa sorta di "dualismo ontologico" tra realtà naturale e realtà immaginata sembra configurarsi anche come una sorta di manicheismo per cui il bene starebbe dalla parte della realtà naturale e il male dalla parte della realtà immaginata?


Il paradosso di Harari: la "VERA storia" e la cooperazione globale umana: nuova fondazione o precipizio? (aggiornato il 25 agosto)

 



Nell'universo non esistono dèi, non esistono nazioni né denaro né diritti umani né leggi, e non esiste alcuna giustizia che non sia nell'immaginazione comune degli esseri umani

Y. N. Harari, Sapiens, ed. it,  p. 41


C'è un paradosso fondamentale, nel discorso di Harari, che sostanzialmente corrisponde al paradosso del nichilismo (quindi a tutto il problema delle conseguenze, indagate da Nietzsche, della cosiddetta "morte di Dio"... del passaggio da nichilismo passivo a nichilismo attivo eccetera) e quindi non è una novità assoluta in filosofia, ma nel discorso di Harari emerge in modo particolarmente chiaro e stridente.

Da una parte Harari ci dice (Cap. 2, pag. 35-36), parlando della Rivoluzione cognitiva, che uno dei presupposti delle teorie che spiegano l'origine del linguaggio umano è che Homo sapiens sia innanzitutto un animale sociale: "La cooperazione sociale è la nostra chiave per la sopravvivenza e la riproduzione. Agli individui, uomini o donne che siano, non basta sapere dove ci sono i leoni o i bisonti. Molto più importante per loro è sapere, riguardo al proprio gruppo, chi odia chi, chi dorme con chi, chi è onesto e chi è un imbroglione. [...] Di solito, infatti il gossip s'incentra sulle malefatte. Il vero quarto potere sono le malelingue e i cronisti, che tengono informata la società e così la proteggono dagli imbroglioni e dai parassiti". 

Dall'altra parte, Harari ci rivela che questa capacità cooperativa si fonda sulla credenza condivisa nell'esistenza di cose che in realtà non esistono affatto! "Tuttavia la caratteristica davvero unica del nostro linguaggio non è la capacità di trasmettere informazioni su uomini e leoni. È piuttosto la capacità di trasmettere informazioni su cose che non esistono affatto. Per quanto ne sappiamo, solo i Sapiens sono in grado di parlare di intere categorie di cose che non hanno mai visto, toccato o odorato. Leggende, miti, dei e religioni comparvero per la prima volta con la Rivoluzione cognitiva. [...] Tale capacità di parlare di fantasie inventate è il tratto più esclusivo del linguaggio sapiens. [...] Il punto è che la finzione ci ha consentito non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente. Possiamo intessere miti condivisi come quelli della storia biblica della creazione, quelli su Tempo del Sogno elaborati dagli aborigeni australiani e quelli nazionalisti degli stati moderni. Questi miti conferiscono ai Sapiens la capacità senza precedenti di cooperare in maniera flessibile e in comunità formate da moltissimi individui [...] I Sapiens sono in grado di cooperare in modi estremamente flessibili con un numero indefinito di estranei".

Ora, la questione è questa: l'umanità, la specie Sapiens, ha sempre più bisogno, di fronte soprattutto al micidiale problema del surriscaldamento planetario, di una forma di cooperazione finora inedita: una cooperazione di specie, su scala globale. Ma NON sembriamo possedere le immagini (le storie condivise, le credenze condivise) giuste a supportare questa forma di cooperazione. Quali potrebbero essere le immagini giuste, le storie giuste, condivisibili da tutta l'umanità, per arrivare alla cooperazione globale?

Harari, con il suo libro e poi la trilogia, non va, in fondo, in direzione contraria? Svelando l'inesistenza dei miti di condivisione (religioni, nazionalismi, ma addirittura diritti umani) non sottrae definitivamente la possibilità di costruire un nuovo mito condiviso che fondi la cooperazione globale? 

Harari sembra puntare tutto, in realtà, sulla proposta della VERA storia dell'umanità. Dire in modo aperto, e sulla base di una visione scientifica (e, direi, ontologicamente fisicalista, ovvero che ritiene che le cose realmente esistenti siano unicamente le cose di cui parla la fisica)[1], che gli oggetti delle grandi credenze condivise IN REALTÀ NON ESISTONO, creare questa consapevolezza condivisa, può fare, credo pensi Harari, da base per un "nuovo mito" che possa unire la specie in cooperazioni su scala globale. Questo "nuovo mito", la VERA STORIA, sarebbe però in sostanza l'assenza di miti, sarebbe LA VERITÀ (certamente la verità scientifica, quindi sempre rivedibile e migliorabile, quindi non assoluta, definitiva e incontrovertibile, ma sempre aperta alla revisione critica...)

Se la capacità di credere collettivamente è sempre stata basata sulla finzione, come si può pensare che adesso sia la verità scientifico-filosofica a fare da base? 

Il "paradosso di Harari" consiste quindi in questo nodo, tipico della situazione contemporanea dell'umanità: da una parte la necessità di fondare un discorso che abbia la capacità di coinvolgere globalmente alla cooperazione, e la consapevolezza che finora le cooperazioni (per grandi gruppi culturali, per nazioni) si sono basate su finzioni. Dall'altra la decisione di distruggere definitivamente ogni mito, ogni credenza basata su finzioni e proporre un discorso vero, il risultato delle conoscenze scientifiche attuali, divulgato in modo eccellente con una STORIA, come possibile nuova base per una cooperazione ancora maggiore di quelle tradizionali, su scale globale. 

Non c'è il rischio che questa operazione di svelamento sia controproducente? Perché in fondo anche i valori su cui si basano le società liberal-democratiche (libertà, uguaglianza) sono COSE CHE NON ESISTONO (se è valido il presupposto fisicalista...). Quindi perché dovremmo crederci, se non esistono?

Forse la scommessa di Harari (e prima di lui di tanti altri, risalendo almeno fino a Spinoza, ma senza passare da Schopenhauer!) è che guardando le cose in faccia, per quello che sono veramente, realmente, scatti una passione, un amore, un sentimento di gratitudine per il fatto stesso che le cose naturali esistano e noi viventi, noi umani, esistiamo, e di conseguenza la voglia di preservare le meraviglie della natura e di noi stessi. L'immensità e complessità dell'universo (fonte inesauribile di desiderio di conoscenza), ma soprattutto lo straordinario equilibrio di condizioni che ha consentito lo svilupparsi della vita sul pianeta Terra, la straordinaria condizione dell'essere vivi, quindi di avere una coscienza, e in particolare una mente in grado di pensare e immaginare, sono cose reali che dovrebbero, se ben comprese, suscitare un sentimento e quindi generare valori e credenze condivise, questa volta da tutti gli esseri umani.

Resta però aperta un'altra possibilità, ovvero che raccontare la verità generi sconforto, dolore, sofferenza, perché la verità può essere anche molto dolorosa e difficile da accettare. La storia vera è fatta anche di sopraffazione, di sfruttamento, di guerre, e la vita è anche violenza, malattia, dolore (qui Schopenhauer docet, almeno nelle descrizioni minuziose degli "orrori" della natura)... E lo sconfinato e immenso universo potrebbe anche provocare un sentimento di annullamento, di vuoto, di totale e irrimediabile mancanza di senso.

Aggiungo infine che il progetto di Harari mi sembra andare sostanzialmente nella direzione giusta, ma richiederebbe secondo me una ontologia più permissiva, ovvero: ci sono diversi modi di esistere, diversi tipi di "oggettività" (esistono oggetti fisici, oggetti biologici, ma esistono anche valori...). La direzione giusta è quella di diffondere una visione scientifica del mondo e dell'uomo, che possa fare da fondamento condiviso su scala globale da tutti gli esseri umani. Anche qui, però, nella visione scientifica occorrerebbe integrare non solo fisica, chimica e biologia, ma anche psicologia, scienze umane in generale e filosofia. Il problema però è che nelle scienze umane, per non dire nella filosofia, non c'è una visione unitaria, condivisa... sono discipline nelle quali sembra inevitabile il pluralismo dei punti di vista. Rimando, per un approfondimento di questa prospettiva, a un mio vecchio progetto di "sistema": Progetto PICO. Per un sistema filosofico 2.0


[1] Forse sarebbe più corretto dire che il presupposto ontologico di Harari è una forma di naturalismo, a p. 46 infatti leggiamo: "Provate solo a immaginare quanto sarebbe stato difficile creare stati, chiese o sistemi giuridici se avessimo potuto parlare soltanto delle cose che esistono veramente, come i fiumi, gli alberi e i leoni". Pe naturalismo, grosso modo, si intende la concezione filosofica che ritiene esistenti le cose di cui parlano le scienze naturali. Per un approfondimento del concetto di naturalismo rimando a Il migliore dei naturalismi possibili, di Mario De Caro e Alberto Voltolini


Questo post si inserisce in un progetto lanciato in un precedente post.

5 agosto 2022

"Perversioni" nelle relazioni interpersonali (versione aggiornata 26 novembre 2022)

 



Nel primo dei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) Freud propone un concetto di “perversione” basato sull’indagine di tutte le forme di interazione sessuale che si discostano dall’atto che porta alla riproduzione e che avviene dopo la pubertà. In questo senso, anche il semplice bacio è una “perversione”, concetto che quindi di per sé non implica un’accezione patologizzante. “Perversioni” è quindi usato quasi come sinonimo di “varianti”.

In questa stessa accezione freudiana vorrei qui usare il concetto di perversione prendendo però come riferimento di base la classica forma del legame di coppia monogamico tra gli esseri umani.


Si tratta di quella tipica forma di relazione nella quale si è sostanzialmente coetanei, si convive, ci si ama reciprocamente, vi è la fedeltà amorosa, vi è l’esclusività nei rapporti sessuali, vi sono il sostegno reciproco, la confidenza, la complicità e, probabilmente, uno o più interessi/progetti in comune, le amicizie tendono a coincidere e ad essere vissute in condivisione.


Nella coppia tradizionale, quindi, i fenomeni corrispondenti ai tre concetti che nel linguaggio comune usiamo per descrivere e distinguere le relazioni interpersonali – sesso, amicizia, amore – sono compresenti e tendono sostanzialmente a intrecciarsi, al punto che a livello concettuale può essere difficile distinguere se alcune esperienze siano da attribuire a un concetto piuttosto che a un altro. Faccio solo un esempio: l’esperienza dell’impulso (o dell’impegno) all’aiuto reciproco è attribuibile all’amicizia o all’amore? Nel caso della coppia tradizionale siamo abituati ad attribuirla all’amore, ma in sé è un aspetto che può essere presente anche in relazioni puramente amicali.



Non mi occupo qui di tutte le variazioni che derivano dall’orientamento sessuale dei partner (del resto il lettore avrà notato che nella definizione del “modello” di partenza non ho scritto “si appartiene a sessi opposti”), né delle varie combinazioni che possono scaturire tenendo anche conto delle variazioni di genere, ma certamente questi aspetti sono importantissimi, e costituiscono al momento una delle maggiori fonti di proliferazione di modalità alternative a quella tradizionale.


Cerco allora di tracciare una breve mappa delle “perversioni” rispetto al legame di coppia monogamico, con ancora due premesse. Una è quella che non prendo in considerazione la poligamia “istituzionalizzata”, o in culture diverse da quella occidentale, o in epoche storiche differenti da quella attuale. La seconda premessa è che non mi occupo di stabilire se e in che misura le variazioni che descriverò siano state già presenti nel passato della storia umana. Alcune di esse sembrerebbero più marcatamente caratteristiche dell’età contemporanea, ma non è affatto detto (anzi, in alcuni casi è certo) che, in forme magari più “larvate”, non fossero già presenti in epoche precedenti.


A) Un primo aspetto è quello che vede relazioni nelle quali si tende unicamente al rapporto sessuale. Ciò può avvenire in due forme: o si tratta di rapporti puramente occasionali, o si tratta di una relazione che, pur essendo di tipo solo sessuale, assume una certa continuità e frequenza nel tempo.

A1 – Nella prima forma, ciò può avvenire o utilizzando applicazioni dedicate (chat come Tinder o Grindr) per poi incontrarsi a casa di uno dei due soggetti, oppure può avvenire direttamente in locali dedicati (club privati, certo tipo di saune, certo tipo di discoteche, cruising bar eccetera).

A2 – Nel secondo caso, invece, gli incontri di pura sessualità assumono una frequenza regolare ma non fiorisce una comunicazione che precede o segue il rapporto, non si crea amicizia (né tanto meno amore): vi è solo la complicità del ritrovarsi per darsi reciproca soddisfazione sessuale. È una forma che, nel linguaggio volgare contemporaneo, ma a mio avviso impropriamente, viene definita come l’avere un trombamico o uno scopamico.

A3 – Perché dico “impropriamente”? Perché esiste anche una terza forma, che si potrebbe anche considerare come una tipologia a sé stante, che tende a combinare il sesso e l’amicizia (e per questo meriterebbe casomai quelle etichette che abbiamo sopra ricordato, se non suonassero così male) e sembra mettere in dubbio la classica distinzione concettuale tra amicizia e amore, basata sull’idea che nell’amicizia non sia presente la sessualità, mentre nell’amore sì (si parla, in questo contesto – ovviamente –, di amore di coppia, non di un concetto più ampio di amore).

Si tratta di incontri, che avvengono con una certa continuità e frequenza nel tempo, dove vi è quasi sempre al centro l’interazione sessuale reciprocamente soddisfacente, ma accanto alla quale fiorisce uno scambio culturale, una conoscenza personale reciproca, il coinvolgimento in esperienze condivise basate su interessi comuni. Si potrebbe definire come un’amicizia intessuta su rapporti sessuali, nella quale però l’aspetto amoroso non si sviluppa, viene tenuto a freno, o viene intenzionalmente e programmaticamente negato in partenza (perché le persone coinvolte, con  gradi di consapevolezza magari diversi, non desiderano impegnarsi in una relazione di coppia).

Un esempio tipico di questo primo gruppo sono i casi di persone gay che "investono" tutta la loro energia affettivo-amorosa in un rapporto privilegiato con una donna (che è "ufficialmente" amica, ma che sarebbe più appropriato, forse, definire come l'amica del cuore) e mantengono separata la sfera sessuale, che si vivono con partner maschili.


B) Un secondo aspetto è quello che tende a risolvere tutto l’aspetto relazionale nell’amicizia. Si tratta in questo caso di persone che scelgono, o si ritrovano di fatto a vivere in questo modo, di rinunciare all’amore in cambio di una moltiplicazione delle amicizie, costruendo nel tempo una fitta rete di relazioni amicali (senza mescolarle con la sessualità o con l’amore) tale per cui la solitudine viene completamente trascesa, si è single ma non si è mai, di fatto, soli.


C) Ci sono poi tutta una serie di mescolanze, se guardiamo alle impostazioni della vita relazionale, tra gli aspetti sopra indicati: persone che vivono un rapporto di coppia tradizionale ma tendono a “divertirsi”, senza rivelarlo al partner, con qualche rapporto occasionale di puro sesso; o che tendono a sovrapporre, sempre di nascosto, al rapporto di coppia tradizionale rapporti di pura sessualità ma con continuità nel tempo e sempre con la stessa persona (anche con sconfinamenti verso l’amicizia o verso l’amore… e qui pensiamo al classico caso della persona sposata che ha l’amante); persone che vivono da sole e hanno sia una fitta rete amicale sia rapporti di pura sessualità occasionale, o di pura sessualità con continuità, o rapporti di sesso+amicizia.


D) C’è infine un importante gruppo di “perversioni”, nel quale le persone scelgono il rapporto di coppia tradizionale, ma se ne discostano solo per certi aspetti, introducendo tutta una serie di varianti.

Facciamo solo qualche esempio (ciascuno dei quali meriterebbe di essere approfondito):

D1 – persone che pur stando in coppia tradizionalmente, mantengono amicizie “separate”, che frequentano separatamente.

D2 – coppie tradizionali che non "consumano" mai sessualmente l'unione, o che, dopo lunghi periodi di sessualità consumata, perdono il desiderio reciproco ma restano pur sempre legate da una forte affettività, solidarietà ecc.

D3 – persone che stanno in coppia ma senza convivere. Qui si apre un ventaglio di possibilità, nel senso che ci possono essere coppie di persone che vivono in case diverse ma molto vicine fra loro, o nella stessa zona, o in quartieri diversi nella stessa città, o in città diverse nello stesso Stato, o addirittura in Stati diversi… ciò naturalmente comporta anche variazioni nelle frequenza delle interazioni (ci si vede più volte alla settimana; solo il fine settimana, una volta al mese, una volta all’anno…)

D4 – persone che scelgono il rapporto di coppia ma con partner decisamente più giovani/più maturi. Ciò implica facilmente relazioni asimmetriche dal punto di vista della gestione del tempo, struttura che può essere fonte di turbolenze. Altro fenomeno legato a questo tipo di relazioni è la tendenza a un progressivo travaso reciproco di esperienze culturali e sociali differenti.

D5 – persone che introducono nel rapporto di coppia, ma alla luce del sole e con accordo reciproco, anche ambiti di “libertà sessuale”, stando però attenti a preservare la fedeltà amorosa.


Naturalmente vi sono poi ulteriori varianti che scaturiscono dalla combinazione delle variazioni sopra elencate.


Non so quanto possa essere utile dal punto di vista “scientifico” questa mappatura (peraltro, come ho chiarito, consapevolmente incompleta), ma credo che se non altro possa servire a renderci tutti più consapevoli che le forme di relazioni interpersonali tra esseri umani sono sicuramente più numerose e varie rispetto a quelle più socialmente visibili e culturalmente accettate, che questa numerosità e varietà tenderà probabilmente ad aumentare e che i modelli culturali e sociali più diffusi dovranno prima o poi tenerne conto e renderne conto dal punto di vista anche storico-scientifico.


Milano, novembre 2022


Ringrazio Federico Ferrari e Maurizio Maravigna per aver letto una versione precedente di questo scritto, dandomi preziosi spunti di riflessione e approfondimento.

3 agosto 2022

Un racconto di Gabriella Sacchetti

 




Ospito nel mio blog un racconto recentissimamente scritto da mia mamma, Gabriella Sacchetti.

Ispirato dal titolo di un libro (in realtà una tetralogia: Le cronache dell'acero e del ciliegio) che Sara (sua nipote/mia figlia) le aveva chiesto di regalarle, il racconto è stato concepito e scritto come rivolto a Sara.




L’acero e il ciliegio




I due alberi erano molto vicini in un giardino un po’ disordinato, con molte erbacce. Le loro radici si toccavano, ed erano molto amici. Anche se nessuno se lo immaginava, loro ascoltavano quello che succedeva intorno, le persone, i loro gesti ed i discorsi. Il ciliegio raccontava  all’acero “ti ricordi quella bellissima ragazza con i capelli castani dai riflessi biondi, che coglieva le mie ciliegie con un leggero sorriso. Era sola, ma non si era accorta che un giovane dal giardino accanto la stava osservando e se ne stava innamorando. Lui aveva una testa ricciuta di folti capelli nerissimi. Sempre più spesso andava sul vialetto del villino accanto con la scusa di salutare sua zia, ma in realtà si metteva lì nel vialetto non  tanto per ammirare il giardino di sua zia così ben tenuto tutto ordinato con alberi esotici dai fiori profumatissimi come il calicantus e l’olea fragrans; guardava e riguardava quella ragazza bella. Io albero capivo i suoi pensieri dal suo atteggiamento. Lui pensava che non era come le altre, perché aveva quel sorriso misterioso pur essendo sola. 

Un giorno decise di rivolgerle la parola, Lei sembrava contenta perché il suo sorriso si allargò molto e diventò ancora più bella, come abbandonandosi del tutto alla simpatia per questo giovane sconosciuto. Lui rimase colpito e forse confrontava questo viso luminoso con quello di tante altre che, per sembrare più affascinanti, gonfiavano le labbra in una specie di broncio. Le sue labbra erano ben disegnate, ma non gonfie, i suoi occhi azzurrissimi partecipavano a questo moto di simpatia verso di lui.

Insomma era la prima volta che io ciliegio vedevo un colpo di fulmine”.



L’acero, che aveva ascoltato il ciliegio con interesse, ora aveva voglia di comunicare qualcosa delle sue impressioni. Così cominciò: “ti ricordi che quando tu avevi già perso le tue rossissime ciliegie, arrivò l’autunno, e poi cominciò l’inverno. Ormai la ragazza bionda ed il giovane dalla nera testa ricciuta erano molto innamorati e spesso venivano a scambiarsi carezze e baci sotto la mia chioma. A loro piacevano molto le mie foglie color rame e notavano che il sotto delle foglie era di colore molto diverso, contrastante, quasi un verde chiaro difficile da definire, perché non era proprio verde; il bello era la brillantezza; la stessa foglia era diversa vista da sopra e vista da sotto. Col vento, muovendosi, questi due colori si mischiavano e l’effetto era straordinario.

I due giovani trascorrevano molti momenti ad osservarmi ed ammirarmi, anche se ho le bacche e non frutti che si possono mangiare.  Passarono anni, e bimbi in carrozzina guardavano intensamente i movimenti delle mie foglie, come incantati, e chissà cosa pensavano, muovendo  vivacemente manine e piedini. Più tardi alcuni bambini quasi litigavano per dare un nome al colore delle mia chioma variata. 

– Sono color rame e verde!

– No, rosso e rosa

– No, arancione e rosso prugna!”



A questo punto il ciliegio interruppe per dire che quasi sicuramente si trattava dei bambini dei due innamorati. E continuò: “nel giardino accanto, a quello coi vialetti, c’era un ragazzetto coi pantaloni corti, che veniva spessissimo frustato dalla madre con una cinghia. So il suo nome, Renzo, perché la madre picchiandolo urlava: ‘Renzo, va a fare quello che devi fare!’. Il povero Renzo per trovare un po’ di pace, andava spesso in chiesa, dove c’era penombra e sussurri, e nessuno che urlava. Gli piacevano soprattutto i funerali di lusso, dove si sedeva fra i parenti eleganti e silenziosi. Questo lo aveva raccontato parlando piano alla vecchia padrona di casa che per lui era come una zia buona. Quando doveva fare i compiti, la madre mandava la sorellina a controllare se Renzo studiava, ma la bambina tornava dicendo: ‘Sta giocando con un chiodo’. Allora altre frustate e urli. Questa specie di zia buona spiegava al ragazzo che sua madre non era cattiva, ma siccome anche lei aveva subito frustate dai suoi genitori, nel paesino del Lazio da cui proveniva, pensava che si devono picchiare i figli per farli crescere bene”.



Il ciliegio ancora raccontò che quando le sue ciliegie erano ancora verdi, una ragazza ne aveva colta una, l’aveva aperta e ci aveva trovato un vermetto dello stesso colore verdognolo della ciliegia acerba. Aveva fatto un urletto, e allora un signore, nuovo abitante della casa con i vialetti, le aveva detto: “è la ciliegia stessa che fa il verme”. Evidentemente non sapeva che in natura nulla si crea e nulla si distrugge.

“Quando le mie ciliegie diventarono rosse, venivano tre ragazze a coglierle. Avevano 17 anni ed erano compagne di liceo. Parlavano molto della scuola, delle interrogazioni, ma soprattutto d’amore. Una era innamorata da due anni di un ragazzo più grande, che non la corrispondeva, e lei raccontava che parlava sempre con lui anche se lui non era lì. Diceva: ‘Sono sempre con lui’. Un’altra la criticava: ‘anche l’amore marcisce, smettila!’. La terza ragazza raccontava che le piaceva molto un ragazzo brutto, conosciuto in montagna. Le altre la prendevano in giro: ma come mai ti piace? E lei: mi piace perché è spiritoso, una volta mi ha detto guardando delle grandi ombre di una valle: ‘Ah, le ombre… un’altra volta mi ha detto: la musica mi dà delle sensazioni di gioia, e mentre diceva così, la sua testa ruotava, e tutto il suo corpo si muoveva ondeggiando’.

Le altre due rimanevano freddine a questa descrizione, però sempre amiche. Continuavano a chiacchierare e a mangiare le mie ciliegie”.



“Così noi alberi ascoltiamo le persone, simpatizziamo e ci commuoviamo. Ma le persone non lo sanno.”

1 agosto 2022

Un progetto di studio: Harari tra scienza e filosofia

 


Questo post ha il valore di una testimonianza su un progetto di studio (o potrei anche più pomposamente dire: un "progetto di ricerca" – sul quale peraltro ignoro se sia già presente in altre menti, se sia già stato perseguito o se sia in atto da parte di altri, e invito pertanto l'eventuale lettore informato a comunicarmelo scrivendo al mio indirizzo di posta elettronica napoleoni1964@gmail.com) che ha un carattere aperto: invito l'eventuale lettore interessato a condividerlo, e quindi a collaborare, a scrivermi e comunico qui che ho anche intenzione di renderne partecipi (volenti o nolenti) i miei studenti delle future quarte – la 4B e la 4D – del liceo scientifico dove insegno (ai quali ho assegnato il primo libro della trilogia di Harari come lettura estiva).

L'idea è quella di leggere (o rileggere) la trilogia di Harari come un'opera che si colloca decisamente sullo sfumato confine tra scienza (in questo caso la scienza storica, con tutti i suoi addentellati scientifici – dalla teoria dell'evoluzione all'antropologia, dalla psicologia all'economia –) e filosofia. Più chiaramente espresso: dall'idea preliminare che mi sono fatto da una prima lettura (peraltro parziale) della trilogia, ritengo che Yuval Noah Harari sia di fatto un filosofo, molto più di quanto lui stesso ammetta, e che come filosofo abbia anche espresso, in questi tre libri, delle idee degne di essere considerate molto seriamente dai cosiddetti "filosofi di professione".

Solo un esempio, tratto dalle prime pagine di Sapiens.

Scrive Harari (nel primo capitolo di Sapiens, intitolato "Un animale di nessuna importanza"):

«Fino a tempi molto recenti, la posizione di Homo nella catena alimentare è rimasta stabilmente su un punto mediano. Per milioni di anni gli umani hanno cacciato piccole creature raccolto quel che potevano, essendo intanto oggetto dell'attenzione di predatori più grandi. Fu solo 400.000 anni fa che alcune specie umane cominciarono a cacciare in pianta stabile selvaggina di grande taglia, e solo 100.000 anni fa – con la nascita di Homo sapiens – l'uomo si insediò in cima alla catena alimentare. Quel salto spettacolare dalla posizione mediana al vertice ebbe enormi conseguenze. Altri animali, come i leoni e gli squali, avevano guadagnato quella posizione molto gradualmente, impiegandoci milioni di anni. [...] Gli umani, invece, raggiunsero la vetta così in fretta che l'ecosistema non ebbe il tempo di equilibrare le cose. Per giunta, neppure gli stessi umani riuscirono ad adattarsi. I principali predatori del pianeta sono in gran parte creature maestose. Il fatto di aver dominato per milioni di anni ha infuso loro un'assoluta sicurezza. Al contrario, il Sapiens somiglia al dittatore di una repubblica delle banane. Essendo noi stati, fino a poco tempo fa, tra le schiappe della savana, siamo pieni di paure e di ansie circa la posizione che occupiamo, il che ci rende doppiamente crudeli e pericolosi. Molte calamità storiche, dalle guerre mortali alle catastrofi ecologiche, sono la conseguenza di questo salto oltremodo veloce.».

Nel paragrafo successivo Harari passa a descrivere l'addomesticamento del fuoco come tappa importante verso il raggiungimento della cima della catena alimentare. Ma il tema viene ripreso, in altri luoghi della trilogia. Il tema filosofico che a me qui sembra emergere è quello del classico problema .sull'origine del male. Perché il male? Perché il male esiste? (problema che presuppone di avere già dato una risposta positiva alla domanda se il male esista oggettivamente o sia solo una percezione soggettiva, una valutazione soggettiva... in ogni caso i due esempi che fa Harari sono molto evidenti al riguardo: le guerre e le catastrofi ecologiche provocate dall'uomo). La questione che mi pongo allora è la seguente.

Harari sta qui consapevolmente formulando una ipotesi teorica attendibile sull'origine del male? È, nel caso, la sua ipotesi teorica un'alternativa reale rispetto a un'altra teoria (sempre scientifico-filosofica, guarda caso!) importante (secondo Civita importante e ancora da considerare perché non ve ne sono in circolazione molte altre a disposizione e altrimenti il problema rimane insoluto... Civita lo scrive nel libro L'inconscio) sull'origine del male, ovvero la teoria di Freud sulla pulsione di morte?

Si tratterebbe di vedere se questa idea di Harari si possa elaborare meglio (o se ci siano altri luoghi nella produzione di Harari dove lui stesso lo abbia già fatto – qui confesso la mia ignoranza, uno dei motivi che mi ha anche spinto a uno studio sistematico della trilogia): in noi ci sarebbero delle paure e delle ansie ataviche legate al fatto che siamo diventati dominatori del mondo vivente in modo "troppo veloce" e tenderemmo a reagire a queste insicurezze di fondo con l'aggressività verso le altre specie, verso l'ambiente e verso i nostri stessi simili.

Oltre a questo esempio, se ne possono trovare molti altri nel corso della lettura, ma al di là di singoli esempi su singole tematiche – e almeno un'altro voglio citare di sfuggita, ovvero che molte delle cose che noi umani riteniamo importanti in realtà non esistano e siano solo il frutto di finzioni condivise – è tutta la trilogia che è intrisa di filosofia, nella misura in cui racconta una storia dell'umanità che è proprio una storia, dotata di un forte senso unitario, con una previsione sul futuro e un monito sul presente.