12 novembre 2010

Spazio e tempo nell'ontologia di Ferraris





Nel volume Documentalità. Perché è necessario lasciare tracce (Laterza 2009) Maurizio Ferraris espone sostanzialmente una ontologia sociale, cioè una teoria filosofica sugli "oggetti sociali" ovvero una teoria del mondo sociale. (Inizia così: "In questo libro parlo di oggetti sociali, cioè di cose come i soldi e le opere d'arte, i matrimoni, i divorzi e gli affidi congiunti, gli anni di galera e i mutui, il costo del petrolio e i codici fiscali, il Tribunale di Norimberga e l'Accademia delle scienze di Stoccolma, e poi ancora le crisi economiche, i progetti di ricerca, le lezioni, le lauree, gli studenti, i monsignori, le assunzioni, le elezioni, le rivoluzioni, i licenziamenti, i sindacati, i parlamenti, le società per azioni, i ristoranti, i giochi, gli avvocati, le guerre, le missioni umanitarie, le tasse, i weekend, i cavalieri medioevali e i cavalieri della Repubblica.")
Premetto che questa non è una vera recensione (anche se la etichetterò come tale in questo blog), perché non ho qui la pretesa né di riassumere il testo né di darne un resoconto critico globale. Mi limiterò a un rilievo critico su un punto specifico, osservando il testo nella prospettiva di un lettore appassionato da anni alla filosofia e interessato ultimamente all'ontologia in quanto settore fondamentale della filosofia e densissimo di problemi.
Ferraris infatti inquadra la sua ontologia sociale in una ontologia: la prima parte del libro si intitola Catalogo del mondo ed è una sorta di ontologia in miniatura, nella quale Ferraris traccia le coordinate della propria impostazione in sede ontologica (ma potremmo anche dire più semplicemente che qui Ferraris espone i fondamenti della sua filosofia).
Sfruttando il riassunto che Ferraris stesso fa nell'Epilogo finale possiamo dire che la filosofia di Ferraris è una metafisica descrittiva di impianto realistico, che utilizza il modello del catalogo, e per la quale il mondo è la totalità degli individui. Ogni individuo è "esemplare": può valere sia come principio di classificazione sia come elemento di una classe (ma le classi non preesistono agli individui). Gli esemplari (gli individui) si dividono in soggetti e oggetti. I soggetti hanno rappresentazioni, gli oggetti no. Gli oggetti si dividono in tre classi: naturali, ideali, sociali. "Gli oggetti naturali stanno nello spazio e nel tempo indipendentemente da soggetti; gli oggetti ideali stanno fuori dello spazio e del tempo indipendentemente da soggetti; gli oggetti sociali stanno nello spazio e nel tempo dipendentemente da soggetti." Inoltre i soggetti "sono anche un tipo di oggetti naturali (ne sono una sottocategoria), in quanto entità biologiche, e (se inseriti in una società) sono anche oggetti sociali".
Nella prima parte del libro, subito dopo aver enunciato la sua tripartizione degli oggetti in naturali, ideali e sociali Ferraris scrive: "Sullo spazio-tempo è necessaria una precisazione. E' solo per comodità di espressione che affermo che gli oggetti naturali e sociali sono nello spazio e nel tempo, e gli oggetti ideali sono fuori dello spazio e del tempo. Questa formulazione ha un sapore un po' kantiano, e fa pensare all'esistenza di due forme pure dell'intuizione e, da ultimo, all'assorbimento degli oggetti nei soggetti, come di fatto avviene in Kant. Per essere precisi bisognerebbe dunque dire che gli oggetti naturali e sociali sono spaziotemporali, mentre quelli ideali non lo sono; ma sospetto che risulterebbe meno chiaro, per cui mi limito a questa osservazione, a scanso di equivoci."(pag. 32)
Resta il fatto che qui non si capisce se per Ferraris lo spazio e il tempo, o lo spaziotempo, siano oggetti o no, e, se sì, se siano naturali o ideali. Se non sono oggetti cosa sono, nel quadro metafisico delineato da Ferraris?
A pagina 8 Ferraris scrive: "se, come ho detto, il mondo è la totalità degli individui e delle loro relazioni, cioè appunto l'insieme degli esemplari, spazio e tempo non sono due forme pure dell'intuizione bensì, leibnizianamente, l'ordine della compresenza e della successione degli individui."
Ferraris sarebbe quindi, come Leibniz, un relazionista riguardo alla natura dello spazio e del tempo (per la distinzione fra sostanzialismo e relazionismo in rapporto al problema della natura di spazio e tempo rimando in questo blog a Spazio e tempo). Quindi spazio e tempo sono per Ferraris relazioni. Ma cosa sono le relazioni per Ferraris? Nella parte dedicata agli oggetti ideali scrive: "Le relazioni sono rapporti ideali che sussistono tra oggetti, ideali e non : (...) sono oggetti ideali spuri, perché dipendono da stati di cose, e non sono semplici, appunto perché si relazionano a stati di cose".
Possiamo allora, forse (cioè se abbiamo bene interpretato il suo pensiero), concludere che lo spazio e il tempo sono per Ferraris oggetti ideali. Ma allora ci troviamo nella strana situazione per cui spazio e tempo, in quanto oggetti ideali, non sono spaziotemporali.
Inoltre c'è un altro problema, direi più sostanziale: Ferraris usa la nozione di "spaziotemporalità" per tracciare una distinzione fondamentale fra oggetti naturali e sociali da una parte e oggetti ideali dall'altra, usa in pratica spazio e tempo per definire cosa sono gli oggetti ideali dicendo che essi si trovano fuori dello spaziotempo, ma contemporaneamente colloca lo spaziotempo all'interno degli oggetti ideali.

Newton ha scritto «lo spazio ha il suo modo di esistere, che non si attaglia né a quello della sostanza, né a quello degli accidenti» (rimando ancora al mio post segnalato sopra, in particolare all'Approfondimento 1 in esso contenuto). Lo spazio e il tempo o lo spaziotempo (secondo una terminologia aggiornata alla teoria della relatività) sono certamente nozioni altamente problematiche sulle quali difficilmente oggi un filosofo può indagare senza confrontarsi con la fisica contemporanea. Parlando degli oggetti naturali Ferraris dichiara onestamente: "Non c'è altro. Che io parli così poco di oggetti naturali dipende del tutto prevedibilmente dal fatto che non ho molto da dirne. Non sono un fisico né un biologo (...)". Non intendo certamente rimproverare a Ferraris di non essersi interessato alla fisica, ma noto che spazio e tempo giocano un ruolo importante nella sua impostazione ontologica generale quali nozioni di riferimento per definire ambiti ontologici e non corrisponde a questa importanza una riflessione su come collocare tali nozioni nel suo Catalogo del mondo, quasi come se spazio e tempo fossero appunto qualcosa che non ha bisogno di essere catalogato.

Per chi fosse interessato a una vera recensione al testo di Ferraris rimando a quella di Stefano Vaselli, in APhEx n. 2



19 ottobre 2010

Cosa divide Quine e Meinong e come metterli in relazione

Emilio Sanfilippo, nel suo post La strategia ontologica di Quine spiega la famosa frase di Quine "essere è essere il valore di una variabile vincolata" dicendo che secondo Quine il modo migliore per stabilire che cosa esiste è partire da una buona teoria sul mondo (possiamo intendere: una teoria scientifica) e stabilire quali sono i presupposti ontologici di tale teoria. Associa poi tale idea di Quine con la teoria dell'oggetto di Meinong, che voleva costruire una scienza di tutti gli oggetti, libera dal pregiudizio a favore del reale, che potesse occuparsi anche degli oggetti possibili, pensabili, irreali. Ci sarebbe del relativismo sia in Quine (definiamo ciò che è sempre in relazione a una specifica teoria sul mondo...) sia in Meinong (definiamo che cosa è oggetto sempre all'interno di singoli contesti o domini). Io continuo a vedere (come tutti, in generale) una profonda frattura fra Quine e Meinong, bene evidenziata nel libro di Berto L'esistenza non è logica (ma anche Sanfilippo fa notare la questione cruciale degli oggetti inesistenti...), e ritengo che la frattura sia da far risalire alla divaricazione fra metodo fenomenologico e metodo analitico: la prospettiva di Quine riflette la grande attenzione riservata dalla filosofia analitica ai risultati delle scienze naturali ed esatte, mentre la prospettiva di Meinong riflette l'interesse prioritario della fenomenologia per i vissuti e la loro classificazione, ed è attenta ai prodotti dell'immaginazione, quindi proiettata verso l'arte. L'ontologia attuale è quindi attraversata da questa scissione, che può rivelarsi però feconda se si prende coscienza della storia e delle motivazioni che stanno alla base delle due diverse prospettive filosofiche, quella fenomenologica e quella analitica, e soprattutto se si cerca di metterle in comunicazione e in rapporto di scambio considerando la loro comune radice nelle finalità più ampie della filosofia in generale.

6 ottobre 2010

FILOSOFIE NEL MONDO e Filosofia analitica

Questo video mostra l'intervento di Franca D'Agostini al 64° Convegno del Centro Studi Filosofici di Gallarate dal titolo FILOSOFIE NEL MONDO tenuto nel settembre del 2009. D'Agostini introduce alla filosofia analitica (in questo risiede anche l'interesse di questa lezione) distinguendo innanzitutto fra Tradizione analitica e Filosofia analitica, ripercorrendo la questione della distinzione "analitici e continentali" e mostrando infine la vitalità della filosofia analitica in Australia. Focalizza il suo intervento su tre questioni che mi sembrano molto importanti: 1) Tutte le filosofie nel mondo "non occidentale" sembrano essere filosofie "continentali", mentre la filosofia analitica ha delle mire imperialistiche, vuole porsi come "La Filosofia". Ma allora? Vuol dire che non ci riesce? Se ci riesce, come e in che senso ci riesce (visto che nel mondo "non occidentale" si va in direzioni diverse)? 2) Il rapporto con l'Occidente di tutte le filosofie "non occidentali" è problematico perché l'Occidente è in realtà diviso, l'Occidente in realtà non sta in occidente... 3) Nelle diverse lingue ci sono diverse metafisiche? La "nostra" metafisica viene dalla nostra lingua; c'è una stretta connesione tra linguaggio e metafisica e forse questo è un problema in quanto la metafisica insita nel nostro linguaggio potrebbe impedirci di vedere le altre metafisiche, le altre filosofie "non occidentali". Dallo stesso link è possibile accedere agli altri interventi del Convegno, nell'ordine: Filosofia latinoamericana - Pio Colonnello Filosofia islamica - Stefano Minetti La Scuola di Kyoto - Brian Schroeder La "Sindrome antimetafisica cinese" - Mario Cadonna Filosofia russa - Chiara Cantelli Filosofia africana - Lidia Procesi Filosofia analitica nel mondo - Franca D'Agostini Philosophia occidentalis - Ugo Perone

14 settembre 2010

Varzi e Berti: metafisica analitica e metafisica classica


Due lezioni tenute alla Cattolica nel 2007 nelle quali i due filosofi mostrano soprattutto le convergenze fra la tradizione aristotelica e la ricerca attuale in ambito analitico. Interessante in particolare la conclusione della lezione di Varzi nella quale viene presentato l'asse realismo/convenzionalismo, intorno al quale è organizzato anche il discorso del suo volume recente Il mondo messo a fuoco.

7 settembre 2010

Fiori da "Rosso Floyd" di Michele Mari




"Pur trattando prevalentemente di personaggi storici e di fatti reali questo romanzo è da intendersi come opera di fantasia in ogni sua parte. La confabulazione delle voci, appartenenti di volta in volta a individui realmente vissuti o viventi, a personaggi inventati, a esseri fantastici, obbedisce a una retorica strutturale e linguistica, e non vuole in alcun modo avere un valore documentario. Anche se non venisse inficiata da una discreta quantità di di 'falsi', infatti, la precisione onomastica, cronologica e topografica dei riferimenti è strettamente funzionale alla finzione, proprio come si dà nei sogni.

...
Tutto ciò che è fonte di angoscia è oggetto di repressione: uscito dal suo muro privato, forte della sua falsa identità, Pink manda i deboli e i diversi ad essere fucilati contro il muro, ma quando l'angoscia sarà di nuovo libera la prima cosa ad esserne investita sarà proprio quel muro, che crollerà: ma si tratterà di una liberazione, o della definitiva condanna di chi, come Pink, rimane schiacciato?
L'arte, dunque, non salva: ma tutto questo può essere detto solo in forma artistica.
...
... Syd era un cantastorie con il gusto dell'assurdo, e la sua psichedelia era la stessa di Lewis Carroll... Le prime canzoni dei Pink Floyd sono nate così: lui canticchiava ossessivamente frasi senza senso, per giorni interi alle volte, finché Roger o Rick, rintronati da quell'ecolalia demenziale, dovevano ricavarne una canzone... Delirii verbali così gliene ho sentiti uscire di bocca a migliaia dieci anni prima che si inventasse i Pink Floyd, e se devo credere a sua sorella non ha mai smesso di produrne... desemantizzare il mondo per dare un senso al mondo, è così che la vedo...
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...la musica ha a che fare con se stessa, le parole con il mondo...
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Il 20 ottobre di quest'anno si è spento a Tallahassee (Florida) Paul Dirac, il poeta dell'antimateria. Come definire altrimenti un genio che con una fantasia pari solo al suo rigore teorico ha immaginato l'esistenza di mondi alternativi rivoluzionando per sempre la nostra percezione dell'Essere? Anticipando di due anni la scoperta di Carl Anderson, Dirac dimostrò infatti l'esistenza del positrone, un anti-elettrone con carica positiva ed energia negativa: da qui l'ipotesi di un mondo separato dal nostro (il cosiddetto 'mare di Dirac') interamente formato da anti-particelle. Una simile intuizione ci sembra appartenere al sogno e alla poesia più che alle scienze esatte: lo conferma l'insistenza di Dirac sul concetto eterodosso di 'bellezza matematica', e la sua convinzione che una teoria caratterizzata dalla bellezza formale e dall'eleganza abbia più probabilità di essere giusta.
...
...è facile vedere le cose dalla fine, ti sembra che il destino sia evidente sin dall'inizio, scolpito a lettere di fuoco nella pietra, così i prescelti hanno sùbito una luce speciale, e chi si ferma per strada ti sembra un poveretto, un suicida: come, sei sulla barca della gloria e scendi? ... Si crea un film altamente drammatico, un film dove tutto è fatale, un incontro, una parola detta per caso... Così chi arriva alla gloria ci arriva perché doveva, perché era speciale, e noi giù ad adorare... Il pensiero che qualcosa poteva andare diversamente non ci sfiora, se ci sfiora lo respingiamo indignati...
...
Per abito mentale gli storici non credono al caso, lo sanno tutti..."

Michele Mari, Rosso Floyd, Einaudi 2010

Che cos'è il nichilismo?

Riporto qui, per orientare la risposta alla domanda posta nel titolo, alcune tesi di base del testo Logica del nichilismo di Franca D'Agostini (Laterza 2000).

L'autrice ritiene che il termine "nichilismo" abbia due significati principali, collegati fra loro. Il primo è l'idea dell'esigenza di un trascendimento della dimensione in cui ci si trova (linguaggio, pensiero, mondo, storia, ragione...) ma accompagnata dall'impossibilità di compierlo realmente; la difficoltà di stare dentro a una certa dimensione ma insieme il non riuscire ad uscirne (da Kant in poi). Il secondo è il pluralismo, il primato della differenza, l'idea che non vi siano ordini generali né gerarchie di valore e di senso perché non si può (più) fare riferimento alla totalità, all'insieme, al tutto (Nietzsche: "il tutto non è più tutto") e hanno primato la singolarità, la parte, il particolare.

Quindi "nichilismo" = 1. la verità non esiste + 2. esistono molte possibili verità

6 settembre 2010

Gianni Vattimo e Franca D'Agostini discutono sulla verità




In questo divertente, intrigante, appassionante video in tre puntate Gianni Vattimo e Franca D'Agostini discutono intorno al concetto di verità.

Vattimo sostiene la necessità di dire addio alla verità come pura conformità della proposizione alla cosa, e sostiene che la verità è sempre anche frutto di un accordo all'interno di una comunità di riferimento. D'Agostini sostiene invece che non si possa fare a meno della concezione realistica della verità: la verità è "come le cose stanno".

La discussione a tratti è anche molto accesa (tenere sotto controllo le emozioni è difficile anche per autentici filosofi e anche se si tratta di questioni abbastanza astratte...!!!), e il punto cruciale della disputa che viene a un certo punto messo a fuoco (ma il nodo non viene sciolto e i due rimangono in disaccordo) riguarda la base argomentativa delle proposizioni valoriali/normative, in altri termini: esistono verità normative basate su fatti? Ci sono o no verità sui valori? Come si argomentano i valori? Con i fatti? Con le interpretazioni e il dialogo?

Vattimo rifiuta che possa essere la natura a costituire la base fattuale per discorsi valoriali, ma solo la cultura; D'Agostini sostiene che ad esempio la proposizione "non uccidere" si basa sul fatto che esiste un impulso naturale alla sopravvivenza.

Invito i lettori del blog a guardare il video (assolutamente da non perdere!!!) e a lasciare commenti prendendo posizione in merito: si tratta a mio parere (il fondamento dei valori) di uno dei nodi più difficili per la filosofia ma anche di una questione mai così attuale come nel mondo contemporaneo.

5 settembre 2010

Franca D'Agostini intervistata


Un buon modo per avere un'idea rapida della filosofia di Franca D'Agostini è vedersi questa intervista in cinque domande, fatta in occasione della sua partecipazione alle "vacances de l'esprit" insieme a Gianni Vattimo.


Allieva di Gianni Vattimo e formatasi nello studio della filosofia francese contemporanea, è approdata poi verso un orientamento filosofico di tipo analitico utilizzando anche la logica ma sempre mantenendosi ben ancorata alla grande tradizione classica della filosofia.
E' a mio avviso una pensatrice molto raffinata, estremamente attenta e aperta a cogliere ciò che di valido accade nel panorama filosofico attuale.
Il valore del suo lavoro consiste essenzialmente nella sua volontà di rilanciare la filosofia come chiarificazione ed elaborazione dei concetti fondamentali (verità, realtà, essere, bene, giustizia...), quindi la filosofia nel suo valore fondativo e orientativo.

Franca D'Agostini insegna Filosofia della scienza al Politecnico di Torino e Analisi del discorso politico all'Università del Piemonte orientale, collabora alla "Stampa" e al "manifesto".
Opere principali:
Analitici e continentali, Cortina 1997
Breve storia della filosofia nel Novecento, Einaudi 1999
Logica del nichilismo, Laterza 2000
Disavventure della verità, Einaudi 2002
Le ali del pensiero. Corso di logica elementare, Paravia 2003
Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza. Dieci lezioni sulla filosofia contemporanea, Carocci 2005
The Last Fumes. Nihilism and the Nature of Philosophical Concepts, Davies Group Publications 2008
Paradossi, Carocci 2009
Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri 2010
I mondi comunque possibili. Logica per la filosofia e per il senso comune, Bollati Boringhieri 2012
Menzogna, Bollati Boringhieri 2012
Realismo? Una questione non controversa, Bollati Boringhieri, Torino 2013

Cfr. in questo blog:
Qualcosa esiste, ma come?
Capire Hegel
Tornare al sistema
Paradossi e creatività filosofica
Fuga dall'ontologia?
Perché non possiamo pensare alla vita come se fosse una partita a scacchi
Che cos'è il nichilismo?
Un "nuovo inizio" della verità, per la rinascita della filosofia (una quasi-recensione al libro Introduzione alla verità) 
C'è un solo mondo? (lettera aperta a Franca D'Agostini) 
La questione non è quanti mondi, ma piuttosto "Che cosa c'è?" (la risposta di F. D'A. alla precedente lettera aperta)
"C'è davvero una realtà in sé?" = "C'è Dio?"
Era ora, Franca!
 La verità è strumento del potere o il potere teme sempre la verità? (dibattito Vattimo/D'Agostini sulla verità)
Il diabattito Vattimo/D'Agostini prosegue su La Stampa 
L'ultimo libro di Franca D'Agostini (I mondi comunque possibili)
Sul realismo. Intervento di Franca D'Agostini in una discussione fra Stefano Vaselli e Giulio Napoleoni
D'Agostini intervista Priest
La vera "questione controversa": la metafisica. Riflessioni su "Realismo? Una questione non controversa"

Ho assegnato alle mie due classi del quarto anno (una di liceo scientifico una di liceo classico) come lettura estiva Verità avvelenata, e ho intenzione di lavorare con loro su questo testo anche nel corso dell'anno scolastico che sta per iniziare. Ritengo che la competenza argomentativa, compresa la capacità di riconoscere le fallacie, specialmente quelle presenti nel dibattito pubblico, sia uno degli obiettivi essenziali di un buon corso di filosofia.

Fiori da "La stiva e l'abisso" di Michele Mari


"- Sì, sì, lo so, ma vi degnerete di descrivere? di narrare partitamente? Il mio spirito è assetato di fatti, non capite? di dettagli, di frammenti colorati e corposi del mondo di fuori. Sono stanco di pensare, di ricordare, immaginare, sognare: io voglio vedere, e per questo devo rimettermi ai vostri occhi. Dunque?
...
Parole, parole, vuotissime parole che non significano nulla. Potessi averne di piene, che corrispondano ai fatti e ne serbino gli spigoli acuti, la pesantezza, la grana. Parole come ciottoli scabri che malta non leghi, sottratte all'ambiguità della frase e del tono, sode, polpute, non irretite dal petulante codazzo di congiunzioni ed avverbi! Ogni tanto penso come sarebbe bello se da quella porta entrasse il Segretario Fiorentino, o messer Dante, o Tacito, o il divino Omero, ah! Di loro mi fiderei, sì, mi lascerei portare dove vogliono loro, senza fare domande.
...
Sognare è... Sognare è vivere un'altra vita, altre vite
...
- E' a questo punto che noi... sì, noi... facciamo cose.
- Eh?
- Ci... ci amiamo, cioè no, sì, amoreggiamo.
- Mi aspettavo che dicessi una cosa del genere. Adesso dimmi delle storie.
- Ma sono queste, le storie.
...
'Se socchiudi la finestra vedi prima una striscia di luce, poi un pezzettino di paesaggio sempre un poco più grande, e anche se non finisci d'aprirla puoi immaginare come il paesaggio continua, il fiume continua a scorrere a valle, il cielo resta più o meno grigino, gli alberi ancora agitati dal vento: ma se tu ci sei, nel paesaggio? Se tu sei quel paesaggio? Cosa saprai allora? Cosa vedrai?Un altro dovrà farsi alla finestra per te, e vedere, e dirti'.
...
Scrivere è bello se lo fai nel tramonto, quando rientri nel tuo appartamento dopo una giornata operosa e assecondi l'impulso di ascoltarti in profondo, e allora ti cali dentro di te come in una miniera, e ne ritrai i minerali da scolpire e da far rilucere al giorno come imprevedibili prismi, quello, quello è il momento...
...
Come potrà dunque scrivere chi, come me, nel suo appartamente giace ininterrottamente da mesi? Chi dentro di sé passa la totalità del suo tempo, al punto da non saper più com'è il fuori, cos'è il fuori? Costui crederà di scrivere una storia, ma sarà solo il suo informe delirio.
...
- Io sono il passaggio ed il tempo, io sono fucina di forme, io sono la bocca e il boccone, la gola ed il ventre, io sono le storie che sono.
...
- Ti compiango: e sì che ormai dovresti averlo capito, che non è il valore delle cose a contare, ma il cambio, l'andare di là e tornare di qua, però con la testa ancora di là..."

Michele Mari, La stiva e l'abisso, Bompiani 1992, Einaudi 2002

4 settembre 2010

Fiori da "Verderame" di Michele Mari




"Tutte le combinazioni erano possibili, bastava sbizzarrirsi con la mente e qualsiasi risultato aveva una sua fantastica plausibilità: tanto più fantastica, tanto più plausibile.
...
Hercule Poirot avrebbe osservato che quando due cose si contraddicono in modo inspiegabile vuol dire che in realtà si spiegano a vicenda...
...
...quegli altri per eccellenza che sono i mostri...
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Io non ero uno scienziato che indaga per amore della verità: ero un esteta in erba che indagava per amore del brivido e dell'effetto...
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Eravamo nel 1969, e allora non potevo sapere cosa fosse il revisionismo, non potevo ancora disprezzare convenientemente chi sostiene che fascismo e resistenza più o meno si equivalevano...
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E poi dicono che la storia non si fa con i ma e con i se... Oggi che so quanto male abbia fatto l'hegelismo all'umanità so che le storie più belle sono tutte fatte di ma e di se, soprattutto di se..."

Michele Mari, Verderame, Einaudi, Torino 2007

28 luglio 2010

Perché non possiamo pensare alla vita come se fosse una partita a scacchi

Mio padre mi ha insegnato a giocare a scacchi quando ero bambino. All'inizio, naturalmente, perdevo sempre. Poi, piano piano, ho cominciato a migliorare fino alla fatidica partita in cui sono riuscito a batterlo. Nel periodo in cui stavo sensibilmente migliorando (quell'estate, ricordo, lessi L'idiota di Dostoevskij) a un certo punto mi sono reso conto di una cosa. Se riuscivo a formulare un "piano di gioco", una strategia per arrivare alla vittoria o anche solo per guadagnare un pezzo, spesso capitava che le mosse fatte per realizzare quella strategia, mosse di attacco, fossero a mia insaputa anche mosse difensive che andavano a parare suoi piani di attacco nei miei confronti. Giocando sempre con in mente un "piano" (che andava costantemente rivisto, aggiornato, riaggiustato) prevenivo possibili pericoli anche ignorandoli. Ciò confermava quanto avevo letto nelle indicazioni preliminari di un antico manuale di scacchi (che sempre mio padre mi aveva messo in mano): l'autore raccomandava "Mai una mossa senza scopo!" (seguivano subito dopo considerazioni sul fatto che mosse casuali quasi certamente indeboliscono la propria posizione e costituiscono perdite di tempo di cui l'avversario può avvantaggiarsi). Questa regola mi aveva subito affascinato, e avevo cominciato a pensare se fosse una regola che potesse valere anche per la vita in generale. In quel periodo, da ragazzo, ero ossessionato dal problema di individuare regole generali da seguire per vivere nel modo migliore. La regola di vivere perseguendo un progetto o più semplicemente ponendosi degli obiettivi è certamente una regola degna di attenzione per chi sia alla ricerca di "formule" per un buon vivere. Volendo seguire l'analogia con il gioco degli scacchi potremmo dire che se perseguiamo un progetto, se ci poniamo degli obiettivi e agiamo di conseguenza, le nostre azioni porteranno a uno sviluppo del nostro essere che potrà essere utile a rispondere anche a situazioni impreviste. Molti anni dopo le prime esperienze scacchistiche di cui parlavo all'inizio, studiando filosofia e imbattendomi nelle teorie sull'azione (G.H. von Wright, Habermas, Bubner...) tornai a interessarmi della questione. Aristotele definisce un'azione come un comportamento finalizzato a raggiungere un certo scopo. Secondo von Wright agire significa provocare intenzionalmente un mutamento nel mondo. Avere un'intenzione, un fine, sembra essere parte del concetto stesso di azione, e si può valutare un'azione in base all'efficacia con la quale riesce a realizzare il proprio scopo, oppure in base alla razionalità dello scopo rispetto a fini ulteriori (si apre qui tutto il discorso sulla razionalità pratica e sull'etica...). Un'azione è razionale se realizza efficacemente il proprio scopo. Uno scopo è razionale se è coerente con fini generali, cioè se rientra in un piano coerente di miglioramento delle proprie condizioni (e, meglio ancora, delle condizioni di tutto ciò che ci circonda...). Ma chiediamoci: fino a che punto può essere utile agire sempre in modo razionale? Si può applicare la regola generale degli scacchi "Mai una mossa senza scopo!" alla propria vita, trasformandola in "Mai un'azione senza scopo!"?? A volte non ci è chiaro lo scopo per cui stiamo facendo qualcosa, ma è meglio così. In certi contesti lasciarsi "guidare dall'istinto" o "dall'intuizione" può essere meglio che farsi guidare dalla ragione. Quali sono questi contesti? Pensiamo a cosa succederebbe se facendo l'amore pretendessimo di sapere esattamente perché facciamo una cosa piuttosto che un'altra. Un altro contesto nel quale l'agire razionalmente può essere bloccante o controproducente è quello di una rilassata e intima conversazione tra amici o tra partner, dove il bello è proprio il "lasciarsi portare" dalle associazioni mentali, avendo anche la capacità di seguire quelle dell'altro (come del resto anche nel fare l'amore il bello non è solo il seguire i propri desideri ma anche il riuscire a sentire e seguire quelli del partner). Qualcosa di analogo accade nella comunicazione fra paziente e terapeuta in una psicoterapia a orientamento psicoanalitico o più semplicemente nel cosiddetto "ascolto attivo" proprio di tutte le relazioni d'aiuto. C'è poi tutto un ambito di situazioni nelle quali avere un obiettivo preciso può essere controproducente. Penso alla creazione artistica, ma anche in certa misura alla ricerca scientifica. In questi contesti, per quel che ne sappiamo, si parte spesso con idee vaghe, intuizioni, problemi da risolvere di cui non si conosce la soluzione. Si lavora proprio su questa vaghezza, sull'idea di qualcosa che vogliamo comunicare ma che non è a noi stessi chiaro, su un enigma che ci tormenta, su un nodo che non riusciamo a sciogliere. La soluzione, l'opera compiuta, la si costruisce strada facendo, senza sapere prima esattamente dove ci condurrà il nostro lavoro (l'aveva già teorizzato Platone quando si era posto il problema di rispondere alla questione sofistica sulla impossibilità della ricerca di conoscenza: se so già non ho bisogno di conoscere, se non so non so nemmeno cosa cercare, e aveva risposto con la sua teoria del conoscere come ricordare...). Un ultimo (ma non per questo meno importante!) contesto è quello del dialogo euristico, così definito da Franca D'Agostini in Verità avvelenata: "si ha un dialogo euristico quando A sostiene p e B sostiene non-p, e A e B sono interessati all'accertamento della verità, dunque si confrontano non tanto per avere ragione quanto per sapere chi ha ragione, e qual è la ragione migliore". Tale tipo di dialogo è essenziale quando sono in gioco dispute sui valori, differenze culturali che portano a confronti fra culture. Sono temi tipici delle teorie sulla gestione nonviolenta dei conflitti (Gandhi, Capitini, Galtung, Patfoort e altri) ma anche della tradizione ermeneutica (della quale sempre Franca D'Agostini ha "distillato" alcune regole fondamentali nel suo recente Verità avvelenata)
Forse allora potremmo tornare alla questione della regola "Mai una mossa senza scopo!" e dire che se vogliamo mantenerla per applicarla alla vita dobbiamo trasformarla in "Mai un'azione senza consapevolezza del senso!". Nei rapporti liberi e creativi con gli altri, nei contesti dove esercitiamo la nostra libertà e creatività possiamo (dobbiamo) abbandonare l'idea di uno scopo prefissato, di un chiaro piano d'azione, e accettare l'idea di un'azione senza scopo, o con uno scopo non chiaro, pur avendo però ben chiaro il senso di quello che stiamo facendo, anche proprio per distinguerlo dai contesti nei quali invece uno scopo preciso e un'azione razionale rispetto ad esso sono fondamentali. Più in generale quindi è importante cercare sempre di riconoscere le esperienze che si stanno vivendo: l'essere presenti, dentro le situazioni, in sintonia o in contrasto con il contesto, ma essere comunque in rapporto con ciò che ci circonda e con noi stessi.

12 luglio 2010

Non essere, possibilità, valore: Nozick, Borghini, Piana, Musil

Altro motivo (mi riferisco al post precedente) per sostenere la plurivocità del non-essere: sembra abbastanza evidente che oggetti/eventi possibili e oggetti/eventi impossibili non esistono in sensi diversi! Forse a scuola andrebbe formato, coltivato ed educato, accanto al senso della realtà, il senso della possibilità nell'accezione di Musil che Borghini cita all'inizio del suo Che cos'è la possibilità: "Chi lo possiede (...) immagina: qui potrebbe , o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com'è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è". Dico questo perché, come ben spiega Borghini nella sua Introduzione, c'è un forte nesso tra realtà e possibilità: l'identità di qualcosa si definisce anche in relazione alle sue possibilità, capacità, potenzialità, "in tutto ciò che è, in tutto quel che succede ci sono i germi di ciò che potrà essere e che sarà, di ciò che potrà accadere e che accadrà", e soprattutto la sfera dei valori, fortemente connessa con quella delle emozioni (cfr. sempre Borghini; Nozick ha fatto di questo nesso uno dei perni del suo libro La vita pensata), non può essere indagata, trasmessa e posseduta se non viene coltivato il senso della possibilità, riferito non solo al futuro, ma anche al presente (cosa possiamo fare) e al passato (cosa sarebbe potuto accadere). Occorre dare la giusta importanza a ciò che non è ma che potrebbe essere, anche solo per capire l'importanza delle regole, delle norme, delle leggi, cioè di ciò che serve a tracciare confini nel campo delle possibilità umane. Rispetto alla questione dell'istruzione e dell'educazione penso quindi al peso maggiore che andrebbe dato al rafforzamento dell'immaginazione, intendendo sia la capacità di spaziare nel fantastico, sia quella di esplorare l'immaginoso, ma anche quella di ragionare sul possibile (saper condurre "esperimenti mentali"). Sulla distinzione tra fantastico e immaginoso rimando ancora a Piana: Elementi di una dottrina dell'esperienza e Le regole dell'immaginazione.

5 luglio 2010

Plurivocità del non-essere e orientamento verso il valore. Il concetto di "realtà" in Nozick

In un post dell'ottobre 2008, Ontologia come valorizzazione, sostenevo: "ciò che esiste è sicuramente più importante di ciò che non esiste. Se una cosa non c'è non conta nulla, non dobbiamo tenerne conto, non può influenzarci, condizionarci eccetera". Alla luce di considerazioni per me recenti, tuttavia, sono costretto a rivedere questa posizione, o quantomeno a sollevare un dubbio in proposito. Se fra le cose che non esistono mettiamo (oppure, in termini quiniani-varziani, "se ammettiamo che non esistono") gli oggetti/eventi "finzionali", gli oggetti/eventi passati e gli oggetti/eventi futuri, è molto difficile dire che queste cose non contano nulla. Un personaggio letterario può essere più influente e famoso di una persona reale; non parliamo di quanto possa influenzarci e condizionarci il passato. Quanto al futuro, a volte una previsione o un'attesa può essere di gran lunga più importante per noi di quello che stiamo vivendo nel presente. Ma una delle ipotesi che vorrei proporre in questo post è la seguente: accanto a una plurivocità dell'essere (tesi che non mi voglio impegnare qui a sostenere ma che altrove ho suggerito con qualche argomentazione) si può sostenere una plurivocità del non-essere. Il senso in cui non esiste Sherlock Holmes è diverso dal senso in cui non esiste (più) Napoleone! Anche tra oggetti/eventi passati ed oggetti/eventi futuri c'è differenza: quelli passati non sono più modificabili, quelli futuri (probabilmente) sì! Resta invece ancora valida l'idea, per me, che uno dei risultati di una futura "ontologia per tutti" sia proprio quello di orientare e far capire ciò che è importante e ciò che non lo è. Qualcosa del genere nel pensiero contemporaneo, una sorta di ontologia (basata sul concetto di realtà) che però al tempo stesso è anche una mappa dei valori la si può trovare nel libro di Robert Nozick (il filosofo ritratto nella foto) La vita pensata. Ovviamente Platone resta l'esempio fondamentale. Traccio di seguito un percorso di citazioni nel testo La vita pensata (The Examined Life, 1989), in modo da dare un'idea dei concetti fondamentali che utilizza e di come ha impostato il suo discorso. "Certe volte una persona sente di essere più reale. Voi ... quando vi sentite più reali?... Qualcuno potrebbe pensare che la domanda è confusa. In tutti i momenti in cui la persona esiste, esiste, e quindi deve essere reale. ... possiamo però distinguere vari gradi di realtà. Consideriamo anzitutto i personaggi letterari. Alcuni sono più reali di altri. Pensiamo ad Amleto, Sherlock Holmes, Lear, Antigone, Don Chisciotte, Raskolnikov. Nessuno di loro esiste, eppure sembrano addirittura più reali di certe persone che conosciamo e che esistono. ... La loro realtà consiste nella loro vivacità e incisività, nella coerenza con cui sono mossi o afflitti da un determinato fine. ... Le caratteristiche che esibiscono ne fanno nuclei più concentrati di organizzazione psicologica. Simili personaggi letterari diventano simboli, paradigmi, modelli, epitomi. Sono fette estremamente concentrate di realtà. ... Opere d'arte, dipinti, pezzi musicali o poesie spesso sembrano fortemente reali. ... forse è che esse, proprio per le loro qualità, trattengono e ripagano più durevolmente l'attenzione che dedichiamo loro. In ogni caso le percepiamo più equilibrate e più nitide; le percepiamo più vividamente. Anche altre caratteristiche diverse dalla bellezza, come l'intensità, la potenza e la profondità, danno luogo a questa vivezza di percezione. ... Anche i matematici delineano oggetti e strutture in cui proprietà molto nette si intrecciano in una rete fittamente stratificata di possibilità, relazioni, implicazioni combinatorie. Chiedere: 'Le entità matematiche esistono?' - la domanda che fanno i filosofi della matematica - non coglie il senso della loro vivida realtà- ... Stando alla tradizione, Platone riteneva che le Forme - che secondo le sue teorie erano le entità più reali - fossero (come) numeri. La sfera della matematica, con la sua chiarezza, attira la nostra attenzione per questa sua realtà. Così come alcuni personaggi letterari sono più reali, lo sono anche alcune persone. Socrate, Buddha, Mosè, Gandhi, Gesù... ... Anche noi, però, siamo più reali in certi momenti che in altri, più quando siamo in un certo modo piuttosto che in un altro. Sovente le persone dicono di sentirsi più reali quando stanno lavorando con molta concentrazione e attenzione... si sentono più reali quando si sentono più creative. Alcune dicono durante l'eccitazione sessuale, altre quando sono lucide e imparano cose nuove. Siamo più reali quando tutte le nostre energie sono focalizzate, la nostra attenzione è concentrata, quando siamo attenti, nel pieno dell'efficienza, e usiamo i nostri (positivi) poteri. Concentrandoci intensamente mettiamo più a fuoco anche noi stessi. ... La sfera del reale, di ciò che possiede più di un certo grado di realtà, non coincide con ciò che esiste. I personaggi letterari possono essere reali pur non esistendo; le cose esistenti possono avere solo il grado minimo di realtà richiesto per esistere. E' possibile situare il limite inferiore della realtà al livello dell'esistenza; niente di ciò che è meno vivido e nitido di ciò che esiste potrà essere definito reale. Ma la realtà ha diversi gradi, e la realtà che qui ci interessa particolarmente sta al di sopra di questo limite inferiore minimo. ... La "realtà" è la categoria valutativa fondamentale, oppure ce n'è un'altra ancora più fondamentale che serve a comprendere e valutarla? La categoria più basilare, per come la vedo io, è quella della realtà."

27 giugno 2010

Proust: quando l'arte riflette su se stessa

"Ogni giorno attribuisco minor valore all'intelligenza. Ogni giorno mi rendo sempre meglio conto che solo indipendentemente da essa lo scrittore può cogliere nuovamente qualcosa delle sue impressioni, ossia qualcosa di lui stesso e la sola materia dell'arte."
Queste frasi di Proust, poste all'inizio del Contro Saint-Beuve (si tratta di un saggio che Proust non pubblicò perché non arrivò mai a dargli una forma definitiva, e la cui elaborazione si dilatò fino a confondersi con la genesi della Recherche; ne sono state pubblicate, postume, due versioni diverse) mostrano l'interrogativo intorno al quale egli si arrovellava nel periodo in cui prenderà forma l'idea della Recherche: qual è il rapporto tra vita e arte? In altri termini: qual è il rapporto tra l'esperienza di vita di un uomo e le opere d'arte che egli stesso (eventualmente) produce?
Questo problema ha due facce. Vale per chi, posto di fronte a un'opera, si interroghi sul peso che, nell'interpretazione di essa, sia da attribuire alla vita dell'autore. Ma vale anche per chi si ponga il problema della genesi artistica: come il tale autore è arrivato a produrre tale opera? Più in generale: come si arriva alla creazione artistica? Proust, nel Contro Saint-Beuve, affronta entrambi i problemi.
Da un lato attacca decisamente il "biografismo", impersonato dal critico letterario Saint-Beuve, sostenendo che non ha senso giudicare un'opera basandosi sulla vita dell'autore, bensì è l'opera stessa che occorre esaminare a fondo, conoscere nei minimi dettagli e nella struttura complessiva.
Dall'altro lato elabora un nucleo teorico sulla genesi dell'arte, che darà impulso alla produzione del suo capolavoro e che costituirà l'ossatura del Tempo ritrovato, l'ultimo volume della Recherche. Nel brano citato all'inizio quello che Proust chiama "intelligenza" si preciserà poi, nella Recherche, come "memoria volontaria", alla quale verrà contrapposta la famosa "memoria involontaria". Sempre in quelle righe, Proust usa una metafora per me affascinante: la "materia dell'arte". Si tratta di una metafora perché, com'è ovvio, se intendiamo l'"arte" in senso generale abbiamo a che fare innanzitutto con un concetto, non con un oggetto concreto. Ma anche se intendessimo parlare di una singola opera d'arte (e qui non pensiamo necessariamente alla Grande Arte, ma qualcosa che semplicemente si può contrapporre alla scienza e alla tecnica, nel senso che non si propone di avere né una funzione conoscitiva, né un'utilità pratica), per esempio una scultura, un quadro, un romanzo, un film, è chiaro che quello a cui Proust allude non è la materia con cui queste cose sono fatte. Non parla del marmo con cui è fatta la scultura, né della vernice unita alla tela, né della carta intrisa d'inchiostro, né della luce filtrata dalla celluloide di una pellicola. Ma allora a cosa allude Proust con la metafora della "materia dell'arte"? Possiamo avvicinarci a una risposta paragonando un artista a un bambimo che gioca in riva al mare e costruisce castelli di sabbia. Con cosa gioca il bambino? Con della sabbia, sicuramente. Ma la sua "materia" non è solo la sabbia: gioca anche con delle fantasie intorno al castello che sta costruendo. Con cosa giocano lo scultore, il pittore, il musicista, lo scrittore, il cineasta? Sicuramente con dei colori, con delle sensazioni tattili, con dei suoni, con delle parole, con delle immagini. Ma anche con delle fantasie, con dei ricordi, con delle emozioni, con delle idee. Giocano con le loro esperienze, nell'accezione più ampia di questo termine. Non quindi "esperienze" nel senso ristretto di percezioni sensibili, ma nel senso più ampio che ci ha insegnato la fenomenologia: percezioni, ricordi, immaginazioni, emozioni, desideri, pensieri... (per un primo approccio alla fenomenologia consiglio Elementi di una dottrina dell'esperienza di Giovanni Piana).

Percorso nel Tempo ritrovato: "... capivo come la vita possa essere giudicata mediocre, anche se in certi momenti sia apparsa così bella, perché la si giudica (e deprezza) in base a tutt'altra cosa che lei stessa, a immagini che di lei nulla conservano. (...) Sì, se il ricordo, grazie all'oblio, non ha potuto contrarre nessun legame, gettare nessun ponte tra sé e il momento presente: se è rimasto nel suo proprio luogo, alla sua propria data, se ha conservato le distanze, il suo isolamento nella profondità d'una valle o sulla vetta d'una montagna, esso ci fa di colpo respirare un'aria nuova, - nuova proprio perché è un'aria che s'è già respirata in passato, - quell'aria più pura che invano i poeti hanno tentato di far regnare in Paradiso, e che non potrebbe darci questa sensazione profonda di rinnovellamento se non fosse già stata respirata, perché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti. (...) le diverse impressioni di felicità avevano in comune questo: che io le provavo a un tempo nel momento presente e in un momento lontano, sì da far interferire il passato sul presente, da rendermi titubante nello stabilire in quale dei due mi trovassi. Invero, l'essere che in me delibava allora tale impressione la delibava (...) in ciò che essa aveva di extratemporale: un essere che compariva solo quando, per una di tali identità tra il presente e il passato, gli era possibile trovarsi nell'unico elemento in cui gli è dato vivere, e gioire dell'essenza delle cose: ossia fuori del tempo. (...) Quante volte, nel corso della mia vita, la realtà mi aveva deluso, perché nel momento in cui la percepivo l'immaginazione, ch'era l'unico organo di cui fossi dotato per godere la bellezza, non poteva applicarsi ad essa, per quell'inflessibile legge la quale vuole che soltanto le cose assenti siano immaginabili! Ed ecco che, d'improvviso, l'effetto di quella dura legge veniva neutralizzato, sospeso da un meraviglioso espediente della natura, che aveva fatto balenare una sensazione (...) in pari tempo nel passato, il che permetteva alla mia immaginazione di gustarla, e nel presente, in cui la scossa (...) aveva aggiunto ai fantasmi dell'immaginazione ciò di cui essi sono abitualmente privi: l'idea di esistenza; e, (...) aveva permesso al mio essere di cogliere, di isolare, di fermare, per la durata di un lampo, ciò che di solito esso non cattura mai: un frammento di tempo allo stato puro. (...) basta che un rumore, un odore, già udito o respirato altra volta, lo siano di nuovo, a un tempo nel presente e nel passato, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l'essenza permanente e ordinariamente nascosta delle cose venga liberata, e perché il nostro vero "io" (...) si desti, si animi, ricevendo il celeste nutrimento che gli viene offerto. Un attimo affrancato dall'ordine temporale ha ricreato in noi, per percepirlo, l'uomo affrancato dall'ordine temporale. (...) io dovevo cercare di interpretare le sensazioni come segni di altrettante leggi e idee, sforzandomi di pensare, cioè di far uscire dalla penombra ciò che avevo provato, di convertirlo in un equivalente spirituale. Ora quel mezzo, che mi pareva il solo, in che poteva consistere se non nel creare un'opera d'arte? (...) la loro prima caratteristica era ch'io non ero libero di sceglierle, che mi venivan date tali e quali. E intuivo che proprio questo doveva essere il segno della loro autenticità. (...) Così, ero ormai giunto a questa conclusione; che non siamo affatto liberi di fronte all'opera d'arte, che non la componiamo a nostro piacimento, ma che, preesistente a noi, dobbiamo, dacché è a un tempo necessaria e nascosta, e come faremmo per una legge di natura, scoprirla. (...) La vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta, è la letteratura. (...) lo stile, per lo scrittore, (...) è la rivelazione, impossibile con mezzi diretti e coscienti, della differenza qualitativa che esiste nel modo come ci appare il mondo: differenza che, se non ci fosse l'arte, resterebbe l'eterno segreto di ognuno. Solo grazie all'arte ci è dato uscire da noi stessi, sapere quel che un altro vede (...) Grazie all'arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, noi lo vediamo moltiplicarsi; e, quanti più sono gli artisti originali, tanti più sono i mondi a nostra disposizione, diversi gli uni dagli altri più ancora dei mondi roteanti nell'infinito. (...) Questo lavoro dell'artista, volto a cercar di scorgere sotto una certa materia, sotto una certa esperienza, sotto certe parole, qualcos'altro, è esattamente inverso a quello che, in ogni istante, allorché viviamo stornati da noi stessi, l'orgoglio, la passione, l'intelligenza, e anche l'abitudine, compiono in noi, ammassando sopra le nostre genuine impressioni, per nasconderle, le nomenclature, gli scopi pratici, cui diamo erroneamente il nome di "vita".

21 giugno 2010

Il paradosso della biblioteca di Babele



Una riformulazione più chiara di questo paradosso l'ho scritta in un post più recente, nel quale propongo DUE paradossi collegati fra loro, dei quali il secondo è particolarmente chiaro nella formulazione, semplice e veramente paradossale:


Sulle conseguenze cosmologiche di questo (nella formulazione originaria di questo post! , adesso la penso diversamente, ma non ho ancora scritto cosa penso perché ci sto ancora pensando...) paradosso si vedano i post seguenti:


a Franca D'Agostini

La biblioteca di Babele
è un famoso e straordinario racconto di Jorge Luis Borges. (1) Vi si narra di una biblioteca talmente vasta da costituire un universo.

Borges descrive con un'apparente precisione la struttura architettonica, modulare, di questo universo. Dico apparente perché se provate a farvi un'immagine definita di quello che Borges descrive scoprite che la forma è in realtà sfuggente. Borges parla di gallerie esagonali impilate una sull'altra ("da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente") collegate verticalmente da scale a spirale. Il problema è come sono collegate fra loro orizzontalmente. "Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno. (...) Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un'altra galleria, identica alla prima e a tutte." Il problema è che se ogni galleria è uguale a tutte le altre, e quindi c'è un solo lato non scaffalato e aperto verso l'esterno questo significa che potranno esserci solo coppie di esagoni collegati fra loro da un corridoio comunicante. O si tratta quindi di un universo composto di innumerevoli doppie torri esagonali (ma allora si deve immaginare che tutti i vari viaggi e le peregrinazioni descritte nel prosieguo debbano essere sostanzialmente in verticale, verso l'altro/verso il basso) oppure si deve immaginare che gli esagoni incolonnati uno sull'altro non abbiano tutti il corridoio aperto dallo stesso lato, ma che tale lato sia a ogni piano diverso, magari progredendo in senso orario o antiorario... (ma come la mettiamo con l'incolonnamento verticale? E poi: quanto sono lunghi i corridoi rispetto agli esagoni? E' un universo di torri "stellate" esagonali, la cui sezione è una specie di fiocco di neve?) (2)

Altra e ben più importante questione il racconto pone se lo si vuole prendere sul serio. La biblioteca risulta essere composta da un numero sterminato di volumi, talmente alto da sembrare infinito, ma tale numero non è infinito, in quanto si tratta di tutte le possibili combinazioni di 25 caratteri (22 lettere, la virgola, il punto e lo spazio) in volumi costituiti da 410 pagine, ciascuna con 40 righe (e 40 caratteri per riga).(3) Alla fine del racconto il narratore ipotizza che la biblioteca sia infinita ma semplicemente nel senso che la sterminata serie di volumi potrebbe ripetersi ciclicamente infinite volte.
Il nodo è questo: tale biblioteca contiene "tutto ciò che è dato esprimere, in tutte le lingue".

Togliamo la questione degli innumerevoli e preponderanti volumi privi di senso, con accozzaglie mostruose di lettere, togliamo per ipotesi anche i volumi ibridi, con frammenti di senso che navigano in mari di "insensate cacofonie" (temi su cui peraltro è imperniato gran parte dello sviluppo narrativo). Consideriamo solo i volumi sensati. Ci troviamo comunque di fronte a un'idea paradossale: la quantità di cose esprimibili non è infinita!

Ciò significa, ad esempio, che le opere d'arte che è possibile scrivere sono un numero finito, quindi che alla lunga la letteratura sarà destinata a finire, a meno di non doversi ripetere, ma anche che le teorie scientifiche possibili non sono infinite, quindi a un certo punto la ricerca avrà un termine perché avremo scoperto tutto quello che c'era da scoprire.
E la storia? Sembrerebbe che finché la storia va avanti, i libri che la raccontano debbano essere sempre diversi, ma allora? Dobbiamo concludere che siccome la quantità di cose che possiamo esprimere è finita allora anche la storia debba interrompersi?
E qui arriviamo al vero paradosso: ipotizziamo di prendere solo i libri di storia della biblioteca di Babele. Sono tantissimi, ma un numero finito. Ipotizziamo che ogni volume racconti la storia di un secolo, e che la storia non si ripeta mai ma sia sempre diversa. Si può argomentare così: per quanto grande, il numero dei volumi di storia della biblioteca di Babele sarà n, corrispondente a n secoli. Ma la storia potrebbe durare n+1 secolo. Il volume che descrive quel secolo n+1 non è contenuto nella biblioteca. Chiediamoci però: il volume che descrive il secolo n+1 non è comunque composto di caratteri come gli altri? Se la biblioteca contiene tutte le combinazioni possibili dei caratteri non dovrebbe contenere anche quel volume??

Ma le lingue non sono entità storiche?
Ipotizziamo che le lettere di un alfabeto (poco importa se siano 21, 26 o altro numero) rappresentino in maniera sufficientemente efficace tutti i suoni che l'apparato vocale umano è in grado di produrre (parliamo di specie umana: certo si può dire che anche la specie umana è in evoluzione e in futuro i suoni producibili potrebbero essere diversi, ma allora direi che comunque la gamma dei suoni producibili in futuro non dovrebbe essere infinita...).
Bene. Aquesto punto anche le variazioni lessicali, grammaticali, sintattiche prodotte dal mutare storico delle lingue vengono "catturate" dall'ipotesi dell'insieme di tutte le possibili combinazioni di questo numero finito di caratteri moltiplicato esponenzialmente per il numero di caratteri per riga, righe per pagina eccetera. A un certo punto nasce una parola nuova? E' sicuramente già presente nella Biblioteca. Nasce una nuova forma grammaticale? Anche per questa vale lo stesso discorso.
Il punto è che se una forma linguistica è possibile (pronunciabile) allora esiste nella Biblioteca.

La cosa strana, conturbante, è la finitezza della Biblioteca.
Su questo punto si potrebbe obiettare: perché i volumi devono avere 410 pagine e non di più, o di meno? Risponderei che occorre pensare a un numero sufficientemente alto di pagine per volume perché tale numero costituisce l'ampiezza dell'unità di senso che va ipotizzata se vogliamo parlare di opere d'arte, opere scientifiche eccetera. I due numeri importanti, per formulare il paradosso, sono il numero dei caratteri dell'alfabeto e il numero delle pagine per volume: è importante solo che siano numeri finitie che corrispondano più o meno alla realtà degli alfabeti naturali e dei volumi nei quali solitamente si esprime l'ingegno umano, ma non è è importante ovviamente di quali numeri si tratti.
Un'altra obiezione: un'opera potrebbe richiedere più volumi (ad esempio la Recherche di Proust). Possiamo sempre immaginare, però, che un'opera di tal genere esista comunque nella Biblioteca, anche se "spalmata" su un numero di volumi forse diverso (e forse l'ultimo potrebbe essere composto da cento pagine sensate, la fine dell'opera, e poi pagine bianche: ricordiamo che nei caratteri base occorre pensare anche lo spazio, e le pagine bianche si possono intendere come iterazione dello spazio).

Il contrasto di fondo, che produce il paradosso, risiede nella finitezza della Biblioteca rispetto alla presumibile infinità di cose/eventi che possono essere descritti, espressi, narrati, teorizzati.

(Sulle conseguenze cosmologiche di questo paradosso si vedano i post seguenti:

(1) Il racconto si trova nella raccolta Finzioni, che comprende a sua volta due raccolte. Nella premessa alla prima, Il giardino dei sentieri che si biforcano, Borges scrive: "Non sono il primo autore del racconto La biblioteca di Babele; i curiosi della sua storia e preistoria potranno interrogare una certa pagina del numero 59 di "Sur", in cui figurano i nomi eterogenei di Leucippo e di Lasswitz, di Lewis Carroll e di Aristotele".
La Biblioteca Universale, di Lasswitz, è un importante antecedente del racconto di Borges.
(2) Mauro Boffardi si è spinto molto oltre nel cercare di immaginare la struttura... La descrizione di Borges è stata analizzata anche da Umberto Eco.
Michele Mari ha recensito un libro che mostra le incongruenze architettoniche della struttura immaginata da Borges
(3) Daniele Raffo ha costruito un simulatore che consente di sfogliare pagine a caso della Biblioteca di Babele. Provare per credere!!!

14 giugno 2010

Sospesi nel vuoto. Suggestioni filosofiche partendo da "Atom Heart Mother" dei Pink Floyd





Nella prima parte della prima suite che apre e dà il titolo al famoso album dei Pink Floyd c'è una zona che mi ha subito colpito fin dalla prima volta che l'ho ascoltata. E' il minuto che va dal 2.55 al 5.35 circa e che poi torna, nello stesso brano, dal 19.52 al 21 circa (puoi ascoltare il brano qui).
Dopo un'introduzione che definirei semi-strawinskiana, dopo un pezzo orchestrale di carattere pomposo (con l'uso di tromboni e corni), dopo una parte con nitriti di cavalli, spari e un rombare di motocicletta (che sembra evocare qualcosa di catastrofico), dopo un ritorno del carattere pomposo ed epico ecco che arriva: si tratta di un brano di una calma assoluta, nel quale il suono di un violoncello (o una viola?) sembra levarsi dolcemente in volo, staccarsi da terra e poi galleggiare sospeso perdendo sempre più peso e riferimenti gravitazionali. Le due linee che lo accompagnano (due chitarre elettriche) sembrano sospingerlo dal basso con fare vellutato, ma senza mai toccarlo, come farebbe un campo magnetico respingente. E l'oggetto sospeso, rappresentato dal violoncello, si inclina, si capovolge, torna nella posizione di partenza ma ormai ad altezze vertiginose. Poi viene sospinto dalle stesse forze che prendono però più velocità (l'arpeggio delle chitarre elettriche si fa incalzante e roteante), per condurre infine in un'altra zona placida, nella quale il violoncello scompare e rimangono solo le chitarre elettriche vellutate.
Proviamo ad attribuire un senso metafisico a questa breve vicenda sonora.
Caos originario. Prima affermazione di forza e organizzazione. Catastrofe. Nuova affermazione di forza che cresce fino a esaurirsi di nuovo. Momento di vuoto, nel quale però ci si può sollevare da terra, e volteggiare privi di punti di riferimento, lasciandosi muovere da forze fluide.
I Pink Floyd in questo brano sembrano voler dire qualcosa sulla situazione di sospensione nel vuoto che deriva dalla "scoperta" del possibile rovesciamento dei valori tradizionali, o anche, diciamo dal vuoto che deriva dalla "scoperta" della mancanza di senso complessivo della realtà (la morte di Dio nietzscheana o più semplicemente la conseguenza della scoperta darwiniana sull'origine casuale della vita e delle sue specificazioni...). Ma in questo vuoto, in questo nulla, in questa sospensione paradossale della ragione occorre sapersi muovere con eleganza, occorre saper galleggiare sulle forze fluide, che comunque ci muovono, con grande consapevolezza e attenzione, un po' come planare con un deltaplano...


Segnalo la recente uscita di un romanzo di Michele Mari, uno dei maggiori scrittori italiani contemporanei, intitolato Rosso Floyd.
Pare che l'album Atom Heart Mother (1970) segni il passaggio dei Pink Floyd dal rock psichedelico al rock progressivo, un genere che richiama spesso la musica classica. La commistione di chitarra elettrica e violoncello è qui perfettamente equilibrata, ma l'uso di strumenti classici come il violoncello nella musica "non colta" era già stato esplorato, per esempio dai Beatles in Eleanor Rigby.

8 giugno 2010

Jovanotti : Non m'annoio e Penso positivo . Vita, tempo, saggezza, ottimismo


I testi delle canzoni possono dare da pensare.
Recentemente ho riascoltato alcune canzoni di Jovanotti e sono rimasto colpito innanzitutto dall'energia, ma anche dall'efficacia con cui riesce a dire cose non facili in modo diretto, semplice.

Le canzoni che voglio commentare, estraendone qualche frammento, sono:
Non m'annoio (puoi ascoltarla e leggere il testo qui), che appartiene alla raccolta Lorenzo 1992, e Penso positivo (puoi ascoltarla e leggere il testo qui), che appartiene all'album Lorenzo 1994.
La prima è una canzone sul tempo, sul modo di viverlo. La seconda è una canzone sul vivere credendo in qualcosa.

Dico subito, per sgombrare il campo da equivoci, che non intendo fare un'analisi completa né dare un'interpretazione esauriente di queste due canzoni. Mi limiterò a estrarre alcune proposizioni, tracciando un percorso all'interno dei testi, e a fare qualche considerazione.

Percorso 1 (da Non m'annoio)
Tempo comunque vadano le cose lui passa

l'unica cosa che ci è data di fare è avere il tempo da poter organizzare

non m'annoio
non mi stanco

tempo prezioso

non abboccare a questa grande balla del tempo che ti fa cambiare che ti modella e più vai avanti più la vita è meno bella
sfuggi dal gruppo e pensa con la tua testa e stare insieme sarà sempre una festa
se riuscirai a sopravvivere lontano dal branco non c'è noia non sarai mai stanco

non mi rompo

tempo quando stai bene lui va via come un lampo quando ti annoi un attimo sembra eterno il paradiso può diventare inferno


Percorso 2 (da Penso positivo)
Io penso positivo perché son vivo

niente e nessuno al mondo potrà fermare quest'onda che va, quest'onda che viene e che va

Io penso positivo ma non vuol dire che non ci vedo
io penso positivo in quanto credo

Io credo soltanto che tra il male e il bene è più forte il bene.

guardare dentro alle cose c'è una realtà sconosciuta che chiede soltanto un modo per venir fuori a veder le stelle


Riflessioni

Il tempo trascorre inesorabile ma la nostra percezione della sua velocità cambia a seconda di come stiamo: se stiamo bene sembra più veloce, se stiamo male sembra più lento.
Ci si potrebbe chiedere: perché? Forse perché se stiamo bene vorremmo farlo andare più lentamente, vorremmo averne di più e allora rispetto a questo nostro volere sembra troppo veloce. Se stiamo male vorremmo farlo passare in fretta, per superare velocemente il male, e allora rispetto a questa esigenza di velocità il suo trascorrere sembra troppo lento.

I mali da evitare, che Jovanotti ci indica, sono la noia, la stanchezza, il "rompersi le scatole".
Cos'è la noia? Il non saper cosa fare, il non avere un progetto. La stanchezza di cui parla non è la stanchezza fisica, ma l'essere stanchi della vita, della situazione in cui ci si trova, il non saper reggere la fatica. Il "rompersi" è il non trovare interesse nelle cose che ci circondano, il non avere pazienza nei rapporti con gli altri.

Il tempo è prezioso e bisogna organizzarlo.
Il tempo è in realtà l'unica cosa che abbiamo: è la nostra vita, è l'essere di tutte le cose.

Non è il tempo che ci fa cambiare e che ci fa stancare.
Il tempo è solo la possibilità continua di cambiamento, ma in quale direzione cambiare sta a noi stabilirlo: occorre dirigere il proprio cambiamento pensando con la propria testa.

La vita è di per sé ottimista: è una grande onda che va sempre avanti.
Ma essere ottimisti non vuol dire non vedere che le cose, nell'umanità, vanno anche molto male: è credere che il bene è più forte del male, cioè che la vita sopravvive alla morte, che l'essere è più forte del nulla, che la vita ha poteri costruttivi più forti dei poteri distruttivi.
Ci sono ancora tante risorse da scoprire nella realtà, tante potenzialità positive che noi possiamo conoscere e realizzare.

2 giugno 2010

Il senso della domanda "Che cosa esiste?". Leggendo Achille Varzi...

Credo che la domanda ontologica fondamentale si possa riformulare così: "A quali, fra le cose che è possibile nominare, corrispondono entità nel mondo? Quali altre cose esistono oltre a quelle che sono contemplate nel nostro linguaggio?" Usando la terminologia di Achille C. Varzi, in certi casi si tratta di "eliminare entità presunte" (quando la filosofia soffre di "allucinazioni"), in altri di "introdurre entità nascoste" (quando soffre di "miopia") (A.C. Varzi, Il mondo messo a fuoco. Storie di allucinazioni e miopie filosofiche, Laterza 2010). Ma allora, se le cose stanno così, perché continuare a rispondere, alla domanda "Che cosa esiste?", "Esiste tutto." (la risposta di Quine, che Varzi fa propria) ?? Lo stesso Varzi afferma che non ci sono le differenze d'altezza, la famiglia media, le probabilità, la sfortuna, le idee platoniche, i significati, i numeri... (pag. 43). Quindi in realtà anche per lui non ci sono molte cose, ma respinge la teoria degli oggetti inesistenti (la linea Meinong-Berto). D'altra parte affermare "esiste tutto" sembra proprio equivalente a respingere un aspetto fondamentale della questione ontologica. Se lo interpretiamo come "Esiste tutto ciò che esiste" è una vuota tautologia, se lo interpretiamo come "esiste tutto ciò di cui parliamo" è una tesi che né Quine né Varzi hanno mai sostenuto. Forse, per uscire da questa situazione, occorrerebbe riconoscere che il senso del verbo essere non è univoco, e che quindi ci sono cose di cui parliamo ma che non esistono nel mondo.

26 maggio 2010

Le note infinite e l'immagine del mondo




Un giorno, in una famosa casa editrice londinese, arrivò misteriosamente un testo alquanto singolare.
Non era chiaro come fosse arrivato negli uffici, e in particolare nella stanza di Klaustenbor, uno dei più quotati lettori in quel momento operanti sul continente: la carta nella quale era impacchettato era immacolata, senza alcuna traccia di timbro o francobollo, quindi non poteva essere arrivato per posta, come in genere arrivavano in casa editrice tutti i testi aspiranti ad una pubblicazione. Ma anche l'ipotesi che fosse stato recapitato a mano dall'autore o da persona incaricata era da scartare, perché tutti i testi proposti direttamente da privati cittadini che fisicamente entravano nel palazzo venivano regolarmente protocollati con un'etichetta sulla quale la portineria indicava giorno, ora e nome della persona, alla quale oltretutto, per motivi di sicurezza, veniva chiesto un documento d'identità, il cui numero veniva annotato sempre accanto al nome.
Restava la possibilità che qualcuno di interno alla casa editrice l'avesse consegnato direttamente a Klaustenbor, ma nemmeno questo era accaduto. Klaustenbor era quindi molto perplesso, mentre rigirava tra le mani il pacchetto bianco e liscio. Un bianco di un candore quasi accecante e una liscezza che metteva quasi i brividi: più che carta sembrava un sottilissimo strato di diamante.
Una volta aperto l'involucro la prima sorpresa fu che il testo (tutto costituito di pagine della stessa carta-diamante dell'involucro, con impressa una scrittura nerissima, un nero profondo che contrastava violentemente col bianco luccicante della carta) era scritto in caratteri non latini. Dopo una breve ricerca in internet Klaustenbor appurò trattarsi di sanscrito. Che senso ha, si chiedeva mentre sfogliava con curiosità le pagine, che un autore indiano mandi qui un testo non in inglese?
Un'altra cosa molto strana era questa: ogni pagina era per metà composta in caretteri di media grandezza e per l'altra metà, quella inferiore, si componeva di fasce, separate da uno spazio, con caratteri progressivamente sempre più piccoli. Anche lo spazio tra una fascia e l'altra era progressivamente sempre minore. La parte più bassa di ogni pagina era scritta in caratteri così piccoli che a occhio nudo si faceva fatica a distinguerli, e terminava con una zona completamente nera.
Klaustenbor si fece prestare una lente di ingrandimento facendo una breve incursione nel reparto dei grafici ed esaminò diverse pagine puntando la lente sulla parte nera.
Con grande sorpresa scoprì che in realtà la parte superiore della zona nera era composta sempre di scrittura, sempre divisa in fasce con caratteri sempre più piccoli.
A quel punto cominciò a riflettere, fino a che ebbe un'intuizione: note al piede! La prima fascia in corpo minore erano evidentemente note al piede del testo principale, la seconda fascia erano note alle note soprastanti e così via. Livelli di notazione sempre più remoti rispetto al testo principale ma... fino a dove? Anche con la lente, a un certo punto non si riusciva più a distinguere e si vedeva solo nero, ma Klaustenbor aveva un sospetto, e volle subito togliersi la curiosità. Telefonò a un suo amico biologo e gli chiese se fosse possibile esaminare il testo con un microscopio elettronico.
L'incontro fu combinato e di lì a qualche giorno i due amici si incontrarono nel laboratorio del biologo. Il microscopio venne puntato sulla zona più bassa di una delle pagine, là dove il nero era apparentemente compatto. Osservò dapprima l'amico, e trasalì. "Guarda tu stesso" gli disse, e Klaustenbor guardò. Quello che vide fu un testo con caratteri medi, note al piede in corpo minore, note alle note eccetera, solo che l'immagine era frutto di 10.000 ingrandimenti!
Da ulteriori indagini risultò che le note sempre più piccole continuavano a essere composte di caratteri in sanscrito a dimensioni paragonabili a quelle di una cellula!
A quel punto il libro divenne oggetto di approfondite ricerche scientifiche. Una commissione lo studiava dal punto di vista fisico e un'altra commissione fu messa al lavoro per produrre una traduzione del testo principale e del primo livello di note.
I risultati furono i seguenti: incredibilmente i caratteri rimanevano leggibili perfettamente anche a livello atomico, ovvero la "carta" e "l'inchiostro" di cui era composto il volume non erano assolutamente composti della stessa materia di cui era composto il mondo noto all'umanità, era una materia evidentemente diversa, non scomponibile in particelle se non, forse, a livelli così minimi da rimanere del tutto insondabile per la strumentazione scientifica disponibile in quel momento sulla Terra. L'ipotesi più accreditata fu, a un certo punto, che i livelli di notazione fossero infiniti. Anche a livello di maggiore ingrandimento possibile, infatti, restava sempre una zona nera in basso dove si poteva presumere fossero presenti ulteriori livelli di testo.
La commissione che si occupava della traduzione era in grandi difficoltà. Il testo, pur essendo composto in sanscrito classico, comprendeva molti termini sconosciuti, il cui significato era chiarito in nota, ma con frasi a loro volta ricche di termini ignoti spiegati in nota e così via. Dopo un periodo di intenso lavoro, durato mesi, i media diedero notizia di una prima traduzione in inglese, piena di lacune, il cui senso generale era però tracciabile in prima approssimazione e riguardava le leggi fondamentali dell'universo. Il titolo era "Teoria dell'Intero". In pratica era un testo scientifico, simile a quello che avrebbe potuto essere un trattato di fisica, ma con leggi completamente nuove il cui senso profondo risultava in gran parte oscuro.

Dopo molti anni, nei quali tutta la comunità scientifica mondiale e il mondo accademico in generale vennero monopolizzati dalla questione di leggere e interpretare il testo fino a dove era possibile decifrarlo, uno scienziato, basandosi su quanto veniva affermato in una pagina, fece una scoperta sensazionale che consentì la costruzione di un nuovo modello di telescopio spazio-temporale grandangolare ad anti-materia. Questo telescopio avrebbe dovuto essere in grado di scattare immagini della forma generale dell'universo. La prima immagine scattata fu quella che vedete riprodotta all'inizio di questo racconto, e come è possibile constatare non era una forma "compiuta": la forma sembrava continuare oltre i bordi dell'immagine, ma l'immagine servì ugualmente all'umanità per farsi un'idea della reale grandezza dell'universo. L'universo conosciuto fino a quel momento, con il suo big bang e le sue galassie in espansione, corrispondeva a uno dei "cornini" azzurri visibili nella parte superiore dell'immagine. Tutto il resto era universo ancora mai visto prima!

La "Teoria dell'Intero" continuò a far progredire la conoscenza scientifica, pur restando in gran parte illeggibile o incomprensibile. L'immagine completa del mondo, come ben sapete, non è ancora disponibile e non sappiamo quanto dovremo attendere prima di poterla osservare, pieni di stupore e ammirazione.



L'mmagine è di Cory Ench
l'immagine attuale dell'universo