11 ottobre 2008

Spazio e tempo


Spazio e tempo Versione scaricabile e stampabile

Paradossi dei concetti di spazio e di tempo


"Cosa esiste realmente?"

Questa domanda appartiene sia all'ontologia, sia alla fisica. Proviamo a muoverci in un'ambito intermedio fra filosofia e scienza, dal momento che "spazio" e "tempo" sono concetti che appartengono alla tradizione filosofica ma sono stati indagati anche da teorie fisiche fondamentali.

La realtà che abbiamo di mira, in questo discorso, è innanzitutto la realtà concreta, la realtà fisica.



Come distinguiamo ciò che è reale, da ciò che è immaginario? Come distiguiamo ciò che esiste da ciò che è (solo) un prodotto della mente umana?

Spazio e tempo ci formiscono criteri essenziali per distinguere ciò che è reale. In particolare lo spazio: se una cosa esiste, possiamo sempre porre la domanda intorno al dove si trovi. (1)



Mentre la domanda sul dove si trovino, per esempio, Biancaneve o l’Uomo Ragno, ci appare già in sé come una domanda mal posta.

Le cose reali, inoltre, possono muoversi, e il movimento lo intendiamo innanzitutto come lo spostamento di una cosa da un luogo a un altro luogo.

La nozione di realtà che sta dietro questo modo di intendere lo spazio, quindi, ha il suo modello nella concretezza della cosa materiale, dei corpi che ci sono, nella loro individualità e determinatezza: lo spazio esiste in quanto esistono le cose materiali e i loro movimenti. Ma questa nozione “ingenua” di spazio nasconde, appena si cerca di approfondirla, problemi e paradossi. Possiamo distinguere chiaramente il luogo dalla cosa?
Nessuno si sentirebbe di poter identificare una cosa con lo spazio che questa occupa, ma operare chiaramente la loro distinzione non è facile. Lo spazio esiste, ma il modello di ciò che esiste è la cosa corporea, dalla quale noi vogliamo differenziare lo spazio che essa occupa. Il dilemma si può formulare in questi termini:

“se il luogo è corporeo non potrai distinguerlo dalla cosa, se è incorporeo non potrai affermare che esso esiste”. (2)

Ma lo spazio ha in comune, con le cose materiali, il fatto di avere tre dimensioni: ha una estensione in altezza, larghezza, profondità. Proseguendo in questa direzione si può arrivare a una nozione di spazio che è legata alle nozioni geometriche fondamentali: il punto, la linea, la superficie, il solido. Ma in questa direzione incontriamo un altro argomento paradossale che mostra come sia necessario distinguere il corpo nella sua fisicità sensibile-percettiva dal solido inteso idealmente, come ente geometrico, per il quale non ha senso porsi la domanda intorno al dove. Se intendiamo il punto come spigolo di un corpo e quindi come limite delle linee che sono a loro volta limiti delle sue facce, il punto dovrà comunque essere distinto dal luogo del punto, altrimenti la linea non potrà essere distinta dal luogo della linea, la superficie dal luogo della superficie e infine il corpo dal suo luogo.(3) Ma distinguere il punto dal suo luogo è in realtà impossibile. Il più elementare degli enti geometrici, infatti, è concepito come privo di dimensioni. In altri termini: se intendiamo il corpo come un solido geometrico siamo già su un piano di discorso distinto dalla realtà concreta, come è testimoniato dal fatto che gli elementi fondamentali della geometria non consentono di distinguere, se presi nella loro definizione astratta, la loro esistenza da quella dello spazio che occupano. Ora, lo spazio che a noi interessa indagare non è lo spazio geometrico, lo spazio ideale nel quale pensiamo gli enti geometrici. A noi interessa capire lo spazio reale, ma ci siamo imbattuti subito in un dilemma a proposito dell’esistenza dello spazio.

Lo spazio esiste, ma come esiste? Così come esistono le cose materiali? Ma se lo spazio fosse una cosa, questa cosa avrebbe poi bisogno di uno spazio in cui esistere… Qui ci avviluppiamo in un altro garbuglio concettuale. Se lo spazio esiste, allora dobbiamo poter rispondere alla domanda sul dove si trovi, e cadiamo in un processo senza fine. Nella formulazione che Aristotele attribuisce a Zenone: “Se tutto l’essere è in un luogo, anche del luogo ci sarà un luogo, e così all’infinito”. Possiamo provvisoriamente dire questo: la nostra nozione di realtà, modellata sull’esistenza delle cose materiali, non sembra adeguata a caratterizzare l’esistenza dello spazio, che pure è qualcosa con cui facciamo i conti in continuazione nella nostra esperienza e sulla cui esistenza nessun uomo, nella vita quotidiana, potrebbe avere il minimo dubbio.

Anche la nozione “ingenua” di tempo, comunque, rivela problemi e paradossi se la si osserva più da vicino. Le tre “dimensioni” temporali con le quali siamo abituati ad organizzare la nostra esperienza e gli eventi reali sembrano estremamente sfuggenti se cerchiamo di pensarle dal punto di vista della loro esistenza, come ci ha insegnato Agostino nelle Confessioni. Il passato è qualcosa che è stato ma ora non è più, il passato “sparisce”, anche se la sua influenza sul presente è continuamente testimoniata da mille indizi. Ricostruirlo nella sua esattezza è però molto difficile: anche i fatti della nostra vita passata spesso si confondono, nel nostro ricordo. Qualcuno che era presente con noi, due anni fa, e ha vissuto anche lui una certa situazione, magari la ricorda diversamente, e possiamo stare a discutere su come siano andate effettivamente le cose. Il futuro esisterà, ma ora non c’è, e la sua consistenza è ancora più fragile rispetto a quella del passato: sicuramente le cose andranno in un certo modo, ma per noi è spesso molto difficile prevedere in quale modo. Per molti pensatori (ma non per tutti, e anzi questo è uno dei problemi più interessanti nel dibattito fra scienza e filosofia), il futuro è “aperto”, cioè può andare in un certo modo ma anche in un altro, anzi può andare in molte direzioni differenti, e non è stabilito in anticipo da niente come andrà. Sia il passato che il futuro, in ogni caso, ora non sono presenti, ora non ci sono. Ma anche il presente è sfuggente. Infatti l’adesso, l’istante presente in cui diciamo “ora”, trapassa continuamente nel passato e “inghiotte” continuamente futuro. Lo possiamo pensare come il limite fra passato e futuro, ma proprio in quanto limite sembra, dal punto di vista concettuale, non avere una sua consistenza, una sua estensione. Un equivalente esistenziale di questo problema lo troviamo nella difficoltà che incontriamo a mantenere la nostra mente centrata sul qui e ora: spesso ci accorgiamo che mentre stiamo facendo una cosa ne pensiamo un’altra, spesso siamo preoccupati del futuro o rimuginiamo il passato e facciamo fatica a vivere pienamente il presente. Discipline orientali come la meditazione vipassana, basata sull’attenzione al proprio respiro, insegnano proprio a mantenere la propria coscienza ancorata al presente, e indicano in questa dimensione la strada verso la felicità. (4)



Spazio e tempo, in ogni caso, ci servono per distinguere fra la realtà concreta e la realtà astratta: una qualsiasi cosa può esistere in senso concreto solo se occupa una certa porzione dello spazio e del tempo.(5) Un personaggio storico, ad esempio Gandhi, ha occupato una parte del passato (dal 1869 al 1948) e una serie di posizioni nello spazio (in India, Inghilterra, Sud Africa eccetera). Un ente matematico, per esempio il triangolo equilatero, esiste ma in senso “astratto”: non occupa né lo spazio né il tempo. Un personaggio di fantasia, per esempio Don Abbondio, non occupa alcuna posizione nello spazio né nel tempo, anche se riguardo alla sua inesistenza nel tempo si può sollevare qualche dubbio.(6) In effetti ci si potrebbe chiedere: prima del 1827, la data della prima edizione dei Promessi Sposi, esisteva Don Abbondio, pur intendendo la sua realtà come una realtà non concreta, puramente ideale? Nessuno, se non Manzoni stesso o forse qualche amico a cui parlava dei suoi progetti letterari, poteva aver pensato a Don Abbondio prima del 1827. Se poi ci spostiamo a prima del 1785, la data di nascita di Manzoni, l’esistenza di Don Abbondio era del tutto imprevedibile e sconosciuta. In un certo senso, quindi, pur godendo di una forma di esistenza non concreta, non materiale, Don Abbondio “inizia ad esistere” da un certo momento storico e non esiste prima. Quindi il tempo reale, in qualche modo, conta anche per lui. Questa osservazione ci porta a notare una differenza fra lo spazio e il tempo dal punto di vista del loro legame con il concetto di realtà, che ci riporta alla nostra affermazione iniziale. Avevamo affermato che lo spazio, più del tempo, è legato al concetto di realtà concreta, materiale. Mentre il concetto ordinario di corpo sembra inseparabile da quello di spazio (ogni corpo materiale, come insegna Cartesio, deve necessariamente occupare una regione dello spazio, deve avere una estensione), il concetto ordinario di idea sembra inconciliabile con lo spazio: è assurdo porre domande del tipo “Il triangolo equilatero, in generale, si trova sopra o sotto il numero 456?”, “Zio Paperone sta a destra o a sinistra rispetto a Harry Potter?”. Lo spazio, insomma, serve a distinguere fra ciò che ha una consistenza materiale e ciò che non ce l’ha. Il tempo, invece no, sia nel senso che, come abbiamo visto, le nostre idee hanno una loro storia, cioè compaiono sullo scenario della cultura umana in certi momenti, più o meno precisi, del tempo, sia perché i contenuti della nostra mente individuale sono sempre vissuti da noi in una successione temporale: possiamo tranquillamente affermare: “Prima ho pensato a un drago, poi mi è venuto in mente che dovevo uscire per andare in posta”. Detto in altri termini: nello spazio trovano collocazione solo le cose materiali e i loro movimenti, nel tempo trovano collocazione sia le cose materiali, sia le idee. Questa differenza era stata notata da Kant, che aveva parlato, a questo proposito, di un primato del tempo. Guardando agli sviluppi recenti delle nozioni di spazio e tempo ci si può porre subito una domanda: che fine fa questa differenza se oggi dobbiamo, come Einstein ci invita a fare, pensare spazio e tempo non più come dimensioni separate? Se spazio e tempo sono collegati, vale ancora questa differenza?



Concludiamo questa prima parte del nostro discorso con un paradosso che in un certo senso riassume ciò che abbiamo visto fino a qui (7). Da un lato lo spazio e il tempo funzionano, nella vita quotidiana, come indicatori di ciò che ha una esistenza concreta: se una cosa è collocabile in modo preciso nello spazio e nel tempo, allora significa che esiste concretamente, e ha quindi anche la possibilità di interagire con altre cose provocando effetti o subendo modificazioni. D’altra parte non siamo in grado di percepire lo spazio e il tempo come cose concrete, come degli oggetti, e infatti non attribuiamo ad essi la possibilità di interagire di per sé con le cose provocando effetti, né la possibilità di subire modificazioni da parte delle cose. Nella nostra vita quotidiana, pensiamo allo spazio e al tempo come a degli infiniti contenitori, la cui esistenza è indipendente rispetto a ciò che contengono: tutto ciò che esiste nello spazio non ha secondo noi il potere di modificare lo spazio stesso, così come tutto ciò che accade nel tempo non ha il potere di modificare il regolare scorrere del tempo. Ma abbiamo anche visto che l’idea di questi immensi contenitori si rivela difficile da chiarire appena proviamo ad approfondirla un po’, e la domanda fondamentale che ci troviamo ora di fronte è la seguente. In che senso possiamo affermare l’esistenza dello spazio e del tempo? La domanda è quindi una domanda ontologica, cioè una domanda che riguarda l’essere. L’ontologia è quella parte della filosofia che si occupa di studiare il modo in cui ciò che esiste esiste. Ma per rispondere a questa domanda anche i filosofi, oggi, non dovrebbero sottrarsi al confronto con ciò che su questi argomenti ha da dirci la scienza, in particolare la fisica.





SPAZIO E TEMPO TRA FISICA E FILOSOFIA


Prima della Rivoluzione Scientifica, dai presocratici ad Aristotele, filosofia e fisica erano strettamente intrecciate, o meglio la fisica era considerata una parte della filosofia. A partire dalla Rivoluzione Scientifica la fisica ha conquistato progressivamente sempre più autonomia dalla filosofia, ma ancora fino a tutto il Settecento si può parlare di un’unità organica di fisica e filosofia (8), rappresentata dall’uso del termine “filosofia naturale”, a cui fa esplicito riferimento il titolo della fondamentale opera di Newton del 1687: Philosophiae Naturalis Principia Mathematica.



La divaricazione fra fisica e filosofia, dovuta soprattutto all’uso sempre più massiccio della matematica nell’indagine fisica, non toglie il fatto che oggi siano molteplici e profonde le relazioni tra queste due discipline, anche se sono in realtà pochi gli studiosi che avendo una formazione “mista”, sia scientifica che filosofica, sono in grado di seguire fino in fondo il dibattito odierno e dare contributi rilevanti. Tale dibattito si sviluppa in due direzioni: 1) indagare le implicazioni e conseguenze filosofiche delle teorie fisiche contemporanee, ovvero utilizzare le teorie fisiche più accreditate per “testare” le teorie filosofiche rivali su questioni cruciali come la natura dello spazio, del tempo, della materia eccetera. 2) esplicitare le presupposizioni filosofiche presenti nelle interpretazioni che i fisici danno del formalismo matematico, ovvero impiegare la tradizione filosofica per interpretare le teorie fisiche, cioè tradurre in termini accessibili, ma con consapevolezza critico-filosofica, ciò che le teorie fisiche ci dicono su come è fatto il mondo, ammesso che queste teorie siano vere. (9)

Riprendendo il filo del nostro discorso, ripartiamo dal problema della natura dello spazio e del tempo. Mettendo fra parentesi quelle teorie filosofiche che tendono decisamente a soggettivizzare o a idealizzare il tempo e/o lo spazio, possiamo dire che vi sono, sul problema della natura dello spazio e del tempo, due principali posizioni contrapposte: il sostanzialismo e il relazionismo.

Il sostanzialismo ritiene che spazio e tempo esistano in modo indipendente dagli oggetti e dagli eventi fisici in essi localizzati. Il relazionismo ritiene che spazio e tempo siano solo relazioni tra corpi ed eventi fisici. Fra i relazionisti troviamo Cartesio e Leibniz. Cartesio riteneva che lo spazio fosse una proprietà essenziale della materia, o un insieme di relazioni tra corpi: senza materia e senza corpi non esisterebbe nemmeno lo spazio. Tale posizione conduceva facilmente (e condusse lo stesso Cartesio) alla negazione del vuoto: «Se si chiede» scrive Cartesio nei Principi della filosofia «che cosa avverrebbe se Dio togliesse ogni corpo contenuto in qualche vaso e non permettesse che nessun altro prendesse il posto di quello rimosso, bisognerebbe rispondere: i lati del vaso diverrebbero per ciò stesso reciprocamente contigui». (10) Newton si considera generalmente come il principale rappresentante della posizione sostanzialista. Per Newton lo spazio continuerebbe ad esistere anche se immaginassimo di poter annientare tutti i corpi in esso contenuti. Penso si possa affermare che l’idea comune di spazio e di tempo si avvicina molto all’idea che ne aveva Newton [vedi Approfondimento 1]. Il problema è che le leggi della meccanica classica non permettono di individuare un particolare sistema inerziale come assolutamente immobile né come assolutamente in moto (ciò è noto anche come Principio di Relatività galileiano).(11) Rispetto alle esigenze empiriche della fisica (descrivere o spiegare fenomeni fisici) lo spazio assoluto sembrava quindi un’entità superflua.

Per Newton le leggi della meccanica presuppongono uno spazio e un tempo assoluti. Questi sono «“grandezze limite” da postulare per fondare sia le leggi del moto sia le nostre procedure di misurazione spaziotemporale». (12) Ma l’affermazione di uno spazio e di un tempo assoluti provocò tra i filosofi contemporanei e successivi a Newton (Huyghens, Leibniz, Berkeley) molte critiche perché non poteva basarsi su prove empiriche. (13) La teoria di Newton aveva anche altri problemi. Concepiva la realtà come composta di corpi, forze e vuoto, ma sulla natura della forza di gravità, la forza fondamentale che spiegava i moti dei corpi celesti, Newton era costretto ad ammettere la sua ignoranza. Ciò che sembrava inconcepibile era che potesse esistere un’azione a distanza, senza un tramite fra i due corpi che si attraggono reciprocamente. Inoltre, dalla metà dell’Ottocento, sorse il problema che la meccanica newtoniana sembrava incompatibile con l’elettrodinamica di Maxwell. La divaricazione fra queste due parti della fisica era sorta, principalmente, intorno al problema della natura della luce e più in generale dei fenomeni elettromagnetici.

Newton, che aveva cominciato a indagare sulla luce nel 1666, aveva sostenuto che la luce fosse costituita di particelle minuscole che viaggiavano a enorme velocità. Ciò poteva spiegare il fatto che si propagasse in linea retta e che producesse delle ombre nette. Ma non spiegava come mai due fasci di luce possono incrociarsi senza esercitare alcuna azione uno sull’altro. Le particelle non dovrebbero entrare in collisione? Nel 1678 il fisico olandese Christiaan Huyghens avanzò una teoria alternativa, secondo la quale la luce consisteva di piccolissime onde. Ciò poteva spiegare la differenza fra i colori della luce e il motivo per cui due fasci possono incrociarsi senza disturbarsi,



ma rimanevano inspiegate altre cose (perché i raggi luminosi si propagano in linea retta? Perché producono ombre dai contorni netti? Come mai le onde luminose non aggirano gli ostacoli, come invece fanno le onde sonore?) Ma il grande problema della teoria ondulatoria della luce era: se la luce è fatta di onde, come fa a propagarsi nel vuoto (cosa che sembra fare sicuramente, dal momento che arriva dal sole e dalle stelle attraversando lo spazio cosmico)? Quale mezzo la trasmette? Le prove sperimentali corroborarono sempre più la teoria ondulatoria, ma restava il problema della sua propagazione attraverso lo spazio vuoto. Nell’Ottocento Maxwell



riuscì a descrivere, con un unico insieme di quattro equazioni, quasi tutti i fenomeni riguardanti l’elettricità e il magnetismo, e sostenne l’esistenza di un unico campo, il campo elettromagnetico, invece di due campi distinti, quello elettrico e quello magnetico. Maxwell riuscì anche a calcolare la velocità con cui un’onda elettromagnetica avrebbe dovuto propagarsi e trovò che coincideva con la velocità della luce. La luce risultava quindi essere un’onda elettromagnetica. (14) La teoria di Maxwell si basava sul concetto di campo, un concetto per il quale la realtà ultima è continua, mentre per la meccanica newtoniana la realtà ultima è discreta: vi sono particelle, corpi, che si muovono nel vuoto. Il concetto di campo presuppone invece che non si possa distinguere nettamente fra pieno e vuoto, tra oggetto e spazio, come del resto un’onda è una specie di via di mezzo tra un oggetto che si muove e il mezzo nel quale avviene questo movimento: se seguiamo una singola onda marina, prima che si infranga sulla riva, possiamo attribuirgli in linea di massima una posizione, una forma, una massa, una certa quantità di energia: possiamo pensarla come un oggetto anche se non è propriamente un oggetto, con un contorno preciso.



Un’idea che sembrò salvare l’unità della fisica e spiegare come la luce potesse propagarsi nel vuoto fu che il vuoto non fosse in realtà vuoto ma fosse pervaso di un mezzo materiale ineffabile e inafferrabile: l’etere, un’idea antica che torna alla ribalta nell’Ottocento; si parlava di “etere luminifero”, e lo si pensava come immobile, in quiete assoluta. Nel 1887 fu compiuto un esperimento fondamentale da due americani, Michelson e Morley.



Nel tentativo di misurare la velocità della Terra rispetto all’etere sfruttando le differenze di velocità con cui la luce avrebbe dovuto essere riflessa in un interferometro puntato in direzioni varie rispetto al moto della Terra, essi scoprirono che non vi era nessuna delle differenze di velocità che si aspettavano. Ciò sembrava indicare che l’etere non esistesse e che la luce si muovesse con una velocità assoluta. Ma il fatto che la luce si muovesse con una velocità assoluta, indipendente dalla velocità della sorgente che la emette, sembrava del tutto inaccettabile, e lo si ritenne un’apparenza che andava spiegata, un fatto “innaturale”.(15)



La rivoluzione operata da Einstein si può interpretare come l’avere trasformato un problema in un postulato: (16) nel saggio del 1905 dove espone la teoria della relatività ristretta, Einstein pone come principio universale la legge secondo la quale la luce ha la stessa velocità costante in tutti i sistemi di riferimento inerziali, indipendentemente dalla velocità della sorgente che la emetta. Questa sorprendente mossa teorica richiedeva però di modificare gli elementi che nella fisica di allora erano considerati “naturali” e quindi da non spiegare: il tempo e lo spazio. Se si assume come invariante la velocità della luce in ogni sistema inerziale, devono diventare varianti, relative, o le grandezze spaziali o gli intervalli temporali. Se la luce emessa da due fari puntati nella stessa direzione ha sempre la stessa velocità anche se il secondo si muove rispetto al primo, e abbiamo assunto l’assolutezza della velocità della luce come postulato, possiamo uscire dal problema o pensando a una contrazione dello spazio o a una dilatazione del tempo. La relatività speciale abbandona quindi sia l’invarianza delle grandezze spaziali sia l’invarianza delle grandezze temporali, prese separatamente. Mantiene invece un significato assoluto, indipendente dall’osservatore inerziale considerato, una “somma” tra tali grandezze, lo spaziotempo, concetto introdotto nel 1907 da Minkowsky, matematico tedesco di origine russa, che scrisse: «lo spazio preso separatamente e il tempo preso separatamente sono condannati a dissolversi in mere ombre, e solo un tipo di unione tra i due manterrà una realtà indipendente».



L’universo è quadridimensionale, e il tempo è una delle sue dimensioni. Einstein inoltre riesumò anche l’idea che la luce avesse natura corpuscolare, ipotizzando che viaggiasse nello spazio sotto forma di quanti (il termine fotone fu introdotto nel 1928 da Compton): «si trattava però di un nuovo tipo di particella, che aveva tanto le proprietà di un’onda che quelle di un corpuscolo, ed esibiva in momenti diversi un gruppo di proprietà o l’altro, alternativamente. (…) la concezione einsteiniana del dualismo onda-particella, pur conservando tutte le conquiste del secolo XIX (comprese le equazioni di Maxwell), consentiva di lasciar cadere l’assunto dell’esistenza dell’etere. La radiazione poteva viaggiare nel vuoto in virtù delle proprie caratteristiche corpuscolari, e il concetto di etere (…) ora poteva essere sepolto» (17) La relatività del tempo comporta anche la relatività della simultaneità di eventi che si verificano a grande distanza, e va a intaccare una convinzione molto radicata nel senso comune: tutti noi siamo profondamente convinti che il “momento presente” si estenda a distanze cosmiche in modo assoluto. La relatività della simultaneità implica invece che il presente non possa essere inteso come una ipersuperficie infinita, bensì vada inteso come un punto. [vedi Approfondimento 2] Per ragioni empiriche legate al nostro apparato percettivo, ogni segnale visivo contenuto in una sfera di 9000 chilometri ci appare come simultaneo. Ciò spiega l’origine della nostra credenza in un presente esteso a distanza. Quando osserviamo eventi accadere nello spazio intorno a noi, in realtà elaboriamo immagini che colpiscono la retina che sono dovute a eventi che appartengono al cono di luce passato (il passato causale del nostro qui-ora). Ma ormai è noto a tutti che quanto più lontano si spinge il nostro sguardo con i telescopi odierni, tanto più lontana nel tempo è l’origine dell’immagine visiva che giunge a noi. Nella relatività ristretta «lo spazio tridimensionale e il tempo globale relativi a un sistema di riferimento sono da considerarsi solo come particolari “proiezioni” di un’unica realtà quadridimensionale invariante.»
Gli effetti relativistici (contrazione della lunghezza degli oggetti in movimento e dilatazione del tempo negli orologi in movimento) «sono reali se “reali” significa “misurabili”, ma sono irreali se “reali” significa “causati da forze”. Gli effetti relativistici (…) vengono spiegati more geometrico proprio assimilandoli a “prospettive” diverse che differenti sistemi inerziali hanno sull’unica, invariante realtà quadridimensionale». (Ndc 109)

La teoria della relatività generale, pubblicata nel 1915, presentava una concezione completamente nuova della gravitazione, considerandola come una proprietà dello spaziotempo anziché come una forza che si esercita sui corpi. «In un certo senso la teoria della relatività generale elimina il bisogno di ricorrere alla forza di gravità attraverso la sua geometrizzazione» (Ndc121): «La Terra, considerata come in caduta libera verso il Sole, descriverà dunque una geodetica (il cammino più dritto possibile) in uno spaziotempo curvo a 4 dimensioni: di conseguenza la sua traiettoria non va più considerata come una deflessione dalla linea retta dovuta alla forza gravitazionale, ma come una traiettoria “più dritta possibile” di una nuova affinità curva che assorbe il potenziale gravitazionale». (Ndc 114) «la materia dice allo spaziotempo come incurvarsi, lo spaziotempo dice alla materia come muoversi» (John A. Wheeler, cit. in Ndc114)



 «Lo spaziotempo non è un inerte palcoscenico su cui si svolgono gli eventi del mondo fisico, ma è esso stesso attivo protagonista della storia di quest’ultimo: (…) non solo determina le linee di universo dei punti materiali e dei raggi di luce, come già avveniva con la teoria della relatività speciale, ma ha una geometria che è a sua volta influenzata dalla distribuzione della materia.» (Ndc, 109) Nella teoria della relatività generale lo spaziotempo, avendo la proprietà geometrica di potersi incurvare (è definibile in questo senso “campo metrico”), deve essere considerato come esistente in senso concreto. Nella stessa direzione va il fatto che sia causalmente attivo e che possieda energia. «Il sostanzialismo, se identificato con la tesi secondo la quale spazio e tempo esistono indipendentemente da ciò che accade in essi (la materia), sembrerebbe dunque “riabilitato”, perché esistono soluzioni vuote delle equazioni di Einstein, ovvero modelli di universi privi di materia, in cui la radiazione gravitazionale è comunque diversa da zero. Nella misura in cui il campo tensoriale metrico ingloba, come accade nella relatività generale, il potenziale gravitazionale, esiste al modo delle “sostanze”, o meglio esiste come esistono i campi elettromagnetici, che hanno certo un’esistenza diversa da quella di un corpo rigido e impenetrabile come una sedia. (…) D’altra parte, il fatto che lo spaziotempo della relatività generale, in particolare la sua curvatura, sia influenzata o influenzabile dalla materia, introduce nella relatività generale un elemento di pensiero relazionista, dato che in questa tradizione di pensiero le relazioni spaziotemporali sono viste come determinate da quelle “fisiche” o “materiali”.» (Ndc 122-123) «Alcuni filosofi hanno fatto notare che mentre prima della formulazione del concetto di campo elettromagnetico (…) la divisione tra materia (il contenuto) e spazio (il contenitore) era netta (…), dopo l’avvento delle teorie di campo − che prevedono che tutto l’universo sia descrivibile a partire da grandezze fisiche aventi valori in ogni punto dello spazio e a ogni istante di tempo − tale divisione è diventata assai più problematica» (Ndc123-124). In questa prospettiva la disputa fra sostanzialismo e relazionismo presuppone una divaricazione netta tra spazio e materia, e quindi è ormai superata data la “dinamicizzazione” dello spaziotempo che è avvenuta con la teoria della relatività generale. I corpi materiali «sono ormai “modellizzati” come campi classici o quantistici: se il campo è l’entità fondamentale dell’ontologia fisica e il campo è caratterizzato come una distribuzione di proprietà sullo spaziotempo (…), allora lo spaziotempo deve essere presupposto come esistente per rendere ragione dell’esistenza del campo o dei campi» (Ndc 124-125)



Mauro Dorato (18), le cui parole abbiamo seguito letteralmente per ricostruire sinteticamente alcuni aspetti della relatività generale, propone una “terza via” tra sostanzialismo e relazionismo, che chiama strutturalismo spaziotemporale: la potenzialità dello spaziotempo di curvarsi depone a favore della sua sostanzialità, ma i punti dello spaziotempo non sono identificabili intrinsecamente in base alla loro posizione nella curvatura, proprio perché tale curvatura dipende dalla relazione con la materia presente nello spaziotempo stesso. Quindi lo spaziotempo non è un’entità, se vale il principio di Quine secondo cui non può esistere un’entità senza identità. Lo spaziotempo esiste oggettivamente, ma non ha un’identità intrinseca: è “identificabile” solo in relazione a ciò che contiene. Ha quindi una realtà strutturale e non sostanziale.




Lo spaziotempo, in alcune recenti teorie filosofiche, viene considerato il costituente ultimo dell’universo: i “mattoni” della realtà non sono cose, ma eventi, e gli eventi sono interpretati come coincidenti con le regioni spaziotemporali in cui accadono. Per Quine, filosofo americano nato nel 1908 e morto nel 2000 (19), gli oggetti, o le sostanze, si possono considerare come collezioni di eventi connessi spaziotemporalmente. Gli oggetti e gli individui non sono entità tridimensionali che si muovono nel tempo, bensì entità quadridimensionali composte, di per sé, di spaziotempo. L’oggetto X a quattro dimensioni è l’esistenza di X dalla sua nascita alla sua distruzione. Cade la distinzione netta fra oggetti (spazio) ed eventi (tempo). Gli oggetti sono casi particolari di eventi la cui componente temporale è meno appariscente: eventi molto lenti. (20)


In conclusione possiamo dire che il modo nuovo in cui la fisica ha elaborato le nozioni di spazio e di tempo, e in connessione con queste anche la nozione di cosa materiale (soprattutto con il concetto di campo), ci obbliga a rivedere i nostri significati del termine “realtà” e apre la nostra mente verso nuovi modi di pensare ciò che esiste, e quindi può fornirci anche categorie nuove per pensare la nostra esperienza. In particolare notiamo che l’evoluzione della fisica sembra mostrare ai filosofi, ma più in generale a tutti noi, che la realtà è spesso irriducibile alle coppie concettuali con cui cerchiamo di rappresentarla: spazio/tempo, passato/futuro, oggetti/eventi, sostanza/relazione, cosa/luogo, pieno/vuoto, corporeo/incorporeo, esistente/inesistente, discreto/continuo, e forse anche altre, sono distinzioni concettuali a cui siamo abituati ma che saremo costretti sempre più a rivedere (a meno che la filosofia, e la cultura in generale, non scelgano, come purtroppo spesso fanno, di ignorare i progressi della conoscenza scientifica).



APPROFONDIMENTO 1
NEWTON, LEIBNIZ, E L’OGGETTIVITÀ FISICA COME INVARIANZA


Newton in realtà, sostiene Mauro Dorato (cfr. nota 5 e nota 17), ha una posizione più sfumata e complessa rispetto al sostanzialismo e prefigura una posizione teorica né sostanzialista né relazionista, lo strutturalismo spaziotemporale (vedi pag. 7), che è una terza via verso la quale porta anche una corretta interpretazione della relatività generale. In un importante manoscritto non pubblicato (21) Newton scrive: «lo spazio ha il suo modo di esistere, che non si attaglia né a quello della sostanza, né a quello degli accidenti». Newton non era in realtà interessato all’opposizione tra sostanzialismo e relazionismo, ma mirava a distinguere tra spazio e tempo assoluti e spazio e tempo relativi. In altri termini ciò che a Newton premeva era sottolineare la differenza esistente fra i nostri modi di misurare lo spazio e il tempo, che per quanto precisi possano essere sono comunque legati all’utilizzo di strumenti materiali e quindi per loro natura soggetti all’imperfezione, e l’assoluta regolarità dello scorrere del tempo insieme all’assoluta omogeneità (o immutabilità) e immobilità dello spazio. «È possibile che non vi sia un movimento talmente uniforme [non accelerato o decelerato] per mezzo del quale si possa misurare accuratamente il tempo. Tutti i moti possono essere accelerati o ritardati, ma il flusso del tempo assoluto non è soggetto a mutamenti.» (Newton, cit. in Ndc 27) . Il tempo assoluto, per Newton, è «ciò che misurerebbe il miglior orologio di cui disponiamo se fosse davvero perfetto» (Ndc 30) Se ci atteniamo a questa distinzione fra tempo assoluto e tempo relativo posta da Newton, allora possiamo dire che è una distinzione sulla quale potrebbe convenire anche la fisica contemporanea. Ciò però è diverso dall’intendere con “assoluto” il significato “indipendente da un sistema di riferimento”. In questo senso la fisica contemporanea non considera più il tempo come assoluto: per la relatività ristretta il tempo “scorre” diversamente per ogni diverso sistema inerziale. Se intendiamo con “assoluto” “indipendente da interazioni fisiche”, allora possiamo dire che la relatività generale ha smentito che il tempo si possa considerare assoluto in questo senso. Per quanto ne sappiamo oggi, lo scorrere del tempo dipende sia dalla velocità inerziale relativa di un sistema di riferimento, sia dal differente potenziale gravitazionale associato alle regioni dello spaziotempo in cui si trova l’orologio. (Ndc 30) Riguardo allo spazio assoluto, ciò che preme a Newton è sostenere la sua quiete o immobilità assoluta: se noi vediamo un corpo C in quiete rispetto a ciò che lo circonda, ciò non ci autorizza a concludere che C sia davvero in quiete assoluta, cioè che il suo spazio relativo (il suo luogo) non si muova rispetto a quello assoluto. Con la teoria della relatività sia l’immobilità sia l’immutabilità (l’essere identico a se stesso in ogni dove e in ogni quando) dello spazio sono state abbandonate: «a partire dalla relatività speciale, l’ipotesi che esista un particolare sistema inerziale in quiete assoluta (“immobile”) è stata abbandonata perché non-verificabile e superflua per gli scopi predittivi della fisica. D’altra parte (…) il fatto che lo spazio (lo spaziotempo) abbia una curvatura variabile a causa della distribuzione della materia (…) ci costringe a respingere la tesi che lo spazio sia immutabile. (Ndc 31-32) Per Leibniz lo spazio è solo l’ordine di coesistenza dei corpi, e il tempo è solo l’ordine di successione degli eventi. Uno degli argomenti usato da Leibniz contro la posizione sostanzialista era che se spazio e tempo fossero sostanze, essi sarebbero costituiti rispettivamente da punti e da istanti dotati di un qualche tipo di identità. Allora se Dio avesse creato il mondo qualche istante prima o qualche istante dopo, o se lo avesse creato traslato nello spazio di qualche centimetro, ma mantenendo tutti i rapporti spaziotemporali tra i corpi al suo interno, saremmo costretti paradossalmente a dire che avrebbe creato mondi differenti da quello che conosciamo. Sostenendo invece una posizione relazionista potremmo tranquillamente dire che Dio avrebbe semplicemente creato lo stesso mondo, ma solo poco prima o solo un poco più in là. Questa argomentazione non funziona però in realtà contro Newton, perché anche per lui, come per Leibniz, «il tipo di identità sussistente per punti e istanti è di tipo strutturale e relazionale» (Ndc, 24): «i punti dello spazio e gli istanti di tempo non hanno alcuna identità intrinseca, ma sono individuati solo dall’ordine e dalla posizione». (Ndc 26) «Ne segue che il tempo è omogeneo, e ogni istante è identico a un altro, e quindi che le trasformazioni da un sistema di coordinate temporali all’altro devono ammettere le traslazioni temporali come trasformazioni ammissibili.» (Ndc 53). Per riuscire a immaginare questa caratteristica del tempo pensiamo a come gli stessi eventi storici possano risultare differentemente inquadrati nel tempo a seconda dei diversi calendari (cristiano, arabo, cinese…) che scegliamo di usare. Ma pensiamo anche, ancora meglio, al fatto che la storia dell’umanità, inquadrata nella storia della Terra, inquadrata nella storia dell’universo, tutte queste storie non cambierebbero la loro natura se il big bang si fosse verificato un po’ prima o un po’ dopo rispetto a quando si è realmente verificato. Se immaginiamo di poter idealmente spostare tutta la serie temporale un po’ indietro o un po’ avanti, ciò non avrebbe nessuna influenza su quanto è accaduto all’interno della serie temporale stessa. Le quantità temporali reali rimarrebbero invariate nel passaggio da un sistema di coordinate (big bang al tempo t) all’altro (big bang al tempo t +1 o t −1). La distanza temporale, ad esempio, fra il giorno della presa della Bastiglia e il giorno della liberazione dell’Italia del nord dal nazifascismo sarebbe invariata, sarebbe identica. Le quantità temporali reali sono definibili proprio come quelle che non cambiano, che restano invariate, pur cambiando il sistema di coordinate temporali. Non deve stupire quindi che si sia affermata l’idea che l’oggettività fisica sia definibile come invarianza rispetto alle possibili trasformazioni del sistema di coordinate. Ciò rispetta l’esigenza che la nostra descrizione della realtà fisica non dipenda dal punto di vista di un osservatore particolare, che avrà una sua collocazione spaziotemporale e quindi un suo sistema di coordinate

APPROFONDIMENTO 2
IL DILEMMA DEL DIVENIRE IN RELATIVITÀ RISTRETTA


Nella relatività ristretta si pone un dilemma relativamente al divenire, e l’idea di considerare il presente come un punto è solo una delle due possibili soluzioni di tale dilemma. A causa della relatività della simultaneità a un sistema inerziale, una qualunque distinzione globale tra passato e futuro deve dipendere da un arbitrario sistema inerziale, e deve cambiare al cambiare di questo: due osservatori in reciproco moto inerziale saranno in disaccordo su come suddividere tutti gli eventi dello spaziotempo in passati, presenti e futuri. Uno stesso evento potrà essere presente per l’osservatore X e futuro per l’osservatore Y. Se si vuole difendere l’idea di un divenire oggettivo si deve scegliere tra due alternative: o 1. il divenire è globale ma non invariante, o 2. è invariante ma locale (la seconda soluzione è quella da preferire, perché per quanto distante dal nostro modo di concepire il tempo genera meno paradossi della prima). Scegliendo la soluzione 1 si hanno conseguenze paradossali. Se ciò che è presente coincide con ciò che esiste (l’insieme di eventi simultanei rispetto a un osservatore coincide con ciò che per tale osservatore esiste), ne segue che il concetto di realtà sarebbe differente per osservatori inerziali diversi, quindi sarebbe non oggettivo, ovvero non invariante per ogni osservatore (Notiamo di passaggio che questo modo di intendere la realtà, per quanto paradossale, somiglia molto alla tesi di Nietzsche, e poi all’ermeneutica novecentesca, secondo la quale «Non vi sono fatti, ma solo interpretazioni.»). Rispetto a questa conseguenza paradossale appare allora più accettabile negare la tesi che esista un divenire oggettivo, cioè una differenza ontologica tra passato e futuro: la differenza tra passato e futuro sarebbe la stessa che c’è tra “qui” e “là”, tra “alto” e “basso”. Così come non c’è differenza ontologica tra eventi spazialmente separati, così si potrebbe attribuire pari dignità ontologica anche agli eventi separati da un intervallo temporale. L’inseparabilità relativistica di spazio e tempo sembrerebbe allora implicare anche una loro simmetria ontologica. In questa via d’uscita dal paradosso di una realtà non invariante ci troveremmo in un altro paradosso: tutti gli eventi dello spaziotempo esisterebbero nello stesso modo, con pari dignità ontologica. Ciò potrebbe avere conseguenze esistenziali molto rilevanti: la morte si potrebbe intendere come una perdita di simultaneità, ma la persona che ci ha lasciato in un certo senso continua a esistere, occupando una ben definita regione dello spaziotempo. In una lettera indirizzata ai parenti di un suo grande amico appena scomparso, Einstein scrive per consolarli: «Ora, anche nel congedarsi da questo strano mondo [Michele] mi ha preceduto di un poco. Questo non significa nulla. Per noi che crediamo nella fisica, la differenza tra presente, passato e futuro ha solo il significato di un’illusione, per quanto tenace». (Cfr. Ndc 102-109). ________________________________________________________________________________

NOTE
(1) Le considerazioni della parte iniziale di questo saggio sono rielaborate a partire dal volume di Giovanni Piana La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell’immaginazione, Guerini e Associati, Milano 1988. Nel capitolo quarto (http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/luogo/luogoidx.htm) Piana ricostruisce magistralmente, prima di procedere ad una sua indagine fenomenologica sulla nozione di luogo, il percorso argomentativo con il quale Aristotele, nel libro quarto della Fisica, perviene a una definizione di luogo, topos (τόπος): “il luogo è il primo limite immobile del contenente”. A noi qui interessano principalmente le aporie e i paradossi attraverso i quali Aristotele giunge alla sua definizione.
(2) G. Piana, Op. cit, p. 246. Vedremo che proprio questa distinzione spazio/cosa materiale viene incrinata, per motivi teorici profondi, nella fisica contemporanea, in particolare con la teoria dei campi.
(3) Cfr. Aristotele, Fisica, Laterza, Bari 1968, 209 a 9, e G. Piana, Op. cit., p. 247.
(4) Cfr. C. Lamparelli, Manuale di meditazione. Tecniche orientali di sviluppo mentale, Arnoldo Mondadori, Milano 1995; C. Pensa, La tranquilla passione. Saggi sulla meditazione buddhista di consapevolezza, Ubaldini Editore, Roma 1994
(5) Altro testo da cui siamo partiti per elaborare le nostre considerazioni, e che farà da ossatura a tutto il nostro discorso, è il primo capitolo del volume La natura delle cose. Introduzione ai fondamenti e alla filosofia della fisica, di V. Allori, M. Dorato, F. Laudisa, N. Zanghì, Carocci Editore, Roma 2005: il capitolo è stato scritto da Mauro Dorato e si intitola “La filosofia dello spazio e del tempo”.
(6) In effetti anche per enti tipo il triangolo equilatero ci si potrebbe porre la domanda su quando sia iniziata, storicamente, la loro esistenza nel mondo della cultura umana. Certamente, infatti, gli uomini primitivi non avevano nozioni matematiche precise come quelle delle prime civiltà umane (il fatto che triangoli equilateri reali, per esempio nei cristalli, siano esistiti prima degli uomini stessi non ha rilevanza in questo contesto).
(7) Cfr. La natura delle cose, cit, p. 18
(8) Cfr. La natura delle cose, cit. [nel seguito abbreviato con Ndc], p. 9
(9) Alcuni filosofi di oggi, soprattutto nell’area anglosassone, ritengono che il modo migliore di praticare l’ontologia o la metafisica sia quello di confrontarsi con le teorie fisiche fondamentali e con le scienze in generale. Fra tutti citiamo Robert Nozick, recentemente scomparso, il cui ultimo libro, Invarianze. La struttura del mondo oggettivo (ed. or. 2001, trad. it. Fazi editore, Roma 2003) è un esempio eccellente di questo, purtroppo raro, atteggiamento filosofico.
(10) A sostegno dell’esistenza del vuoto era invece l’atomismo seicentesco, ben rappresentato dal filosofo naturale Gassendi, il quale riprendeva le concezioni di Democrito: se l’universo fosse un tutto pieno di materia, il moto sarebbe impossibile, perché gli atomi non avrebbero lo spazio per muoversi.
(11) dato che le leggi della meccanica newtoniana non permettono di misurare le differenti velocità di un sistema fisico, ma solo le accelerazioni. (Cfr. Ndc, 78)
(12) Ndc, p. 33. L’autore prosegue così: «In questo modo, i risultati di queste ultime verranno distinti da grandezze che sono assolute proprio perché definite come indipendenti da qualunque sistema di misurazione. Altrimenti, che cos’è che misureremmo quando utilizziamo due diverse misure del tempo, quali il battito del polso o una frazione della durata di un giorno? In entrambi i casi misuriamo la stessa grandezza assoluta.»
(13) e produsse, oltre alle posizioni relazioniste, anche la posizione di Kant, per il quale spazio e tempo sono forme a priori della nostra esperienza sensibile: qualcosa di universale, perché condizione di possibilità di qualsiasi esperienza individuale, ma in sostanza qualcosa di soggettivo.
(14) Abbiamo utilizzato la ricostruzione che di questa parte della storia della fisica fa Asimov in Il libro di fisica (Mondatori, Milano 1986)
(15) «Nel 1893, il fisico irlandese George Francis Fitz-Gerald propose una spiegazione del tutto nuova dei risultati negativi dell’esperimento di Michelson e Morley, sostenendo che la materia si contrarrebbe sempre in direzione del suo moto, e che l’entità di tale contrazione aumenterebbe con la velocità del moto stesso.» (Asimov, op.cit., p. 414)
(16) Cfr. Ndc 80-82
(17) I. Asimov, Il libro di fisica, op. cit., pp. 418-419
(18) La natura delle cose, cit, cap. I. Mauro Dorato è professore di Filosofia della scienza presso l’Università “Roma Tre”. E’ nel comitato direttivo della International Society for the Advanced Study of Spacetime.
(19) Si vedano Parola e oggetto (1960), La relatività ontologica e altri saggi (1969), Su ciò che vi è (1948)
(20) In un articolo molto interessante pubblicato su “Segno Cinema”, n. 117, Vedere il tempo, Enrico Terrone interpreta il cinema di David Lynch come una riflessione sull’identità, lo spazio e il tempo. Per Lynch i personaggi non sono oggetti, bensì eventi, la cui identità può quindi cambiare nel tempo.
(21) Cfr. Hall R., Hall B., Unpublished Scientific Papers of Isaac Newton, Cambridge University Press, Cambridge 1962


TESTI UTILIZZATI (in ordine cronologico di pubblicazione)

I. Asimov, Il libro di fisica, Mondadori, Milano 1986
G. Piana, La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell’immaginazione, Guerini e Associati, Milano 1988
S. Hawking, Dal Big bang ai buchi neri, Rizzoli, Milano 1990
E. Newth, Breve storia della scienza, Salani Editore, Firenze 1998
P. Greco, Einstein e il ciabattino, Editori Riuniti, Roma 2002
AA.VV., Spazio, tempo e materia, vol. XI dell’enciclopedia La Scienza, La Biblioteca di Repubblica, Utet/De Agostini 2005
V. Allori, M. Dorato, F. Laudisa, N. Zanghì, La natura delle cose. Introduzione ai fondamenti e alla filosofia della fisica, Carocci Editore, Roma 2005


1 commento:

Mauro Dorato ha detto...

è in uscita un nuovo libro di filosofia del tempo per Carocci, autori M. Dorato e F. Orilia...
buona lettura