11 dicembre 2011

La filosofia in Jovanotti. Riflessioni filosofiche sull'album ORA. Prima puntata






Credo che l'ultimo album di Jovanotti sia ricchissimo di occasioni di riflessione per chi, come me, crede che la filosofia possa trovarsi anche fuori dalle università, fuori dai convegni per addetti ai lavori, anche in molti luoghi che non sono quelli creati da chi sceglie di fare della filosofia la propria scelta professionale (per approfondire questo tema della filosofia dei non filosofi rimando al bel libro recente di Roberto Casati Prima lezione di filosofia, Laterza 2011).

Che l'arte, in particolare, fornisca abbondante materiale su cui chi ha interessi filosofici può applicarsi con profitto non sono certo il primo a dirlo. Ricordo solo, a questo proposito, una frase che mi accompagna costantemente da quando l'ho letta, di Giovanni Piana: "Le opere dell'immaginazione ci danno da pensare" (in Elementi di una dottrina dell'esperienza).
In questo blog ho già provato a fare qualcosa di simile a quello che mi accingo a fare ora, e il risultato lo trovate in Jovanotti: non m'annoio e penso positivo.

Ascoltando l'ultimo album di Jovanotti (segnalo che è possibile scaricarlo, su iTunes, al costo di 10, 99 euro, circa un terzo di quello che costa il cd, e i testi sono reperibili in internet, ad esempio su tuttotesti), inizialmente mi aveva un po' respinto l'aspetto più "chiassoso" rispetto alle mie aspettative, proprio parlando della prima canzone, Megamix. Poi quasi subito, però, mi sono accorto della profondità e della complessità che Lorenzo è riuscito a creare, e ho capito che la forma  musicale in cui esprime i propri testi è in realtà coerente con il contenuto.

In Megamix, infatti, la musica trasmette subito grande energia, e questo è certamente un tema-chiave per entrare nel cuore della filosofia complessiva di questo autore. Va detto subito che Jovanotti stesso ha riflettuto sulla portata filosofica della sua musica e ha concentrato i risultati di questi pensieri nella conferenza L'ottimismo come forma di lotta,  nell'ambito delle conferenze TED, che consigliamo vivamente anche come introduzione a quanto segue.
Se "è questa la vita che sognavo da bambino", ciò significa che la vita non delude, la vita promette vitalità e mantiene la sua promessa. Certamente vitalità non significa solo cose buone, e infatti già nelle prime frasi troviamo due coppie antitetiche che stanno a simboleggiare i due lati, positivo/negativo, della vita: topolino/apocalisse e hello kitty/tarantino. Se Topolino e Hello Kitty sono due personaggi teneri, cari ai bambini, e incarnano valori di sicurezza, comodità, ordine (Topolino è anche tenace, intelligente, laborioso... Non conosco abbastanza Hello Kitty per poter dire qualcosa di più sul suo carattere...), certamente i film di Tarantino non sono rassicuranti, e associato al concetto di apocalisse direi che qui Jovanotti condensa il lato negativo della vita nel suo essere costantemente esposta al tracollo, alla violenza, alla fine certa ma imprevedibile nel suo quando e nel suo come.
Questa doppia valenza della vita è ribadita poi nel seguito, dove troviamo la ripresa del titolo, Megamix, e un richiamo a "la x e la y, la y e la x": la vita  è una sorta di grande mix, mescolanza, di bene e male, di sicurezza e insicurezza (la vita  è in grado di riparare e riprodurre se stessa, ma contiene anche in se elementi di grande vulnerabilità, la morte degli individui in primo luogo, ma anche le malattie, gli incidenti, le catastrofi ambientali...). X e Y io li interpreto come un'allusione ai due assi cartesiani, che, appunto, si incrociano e orientano lo spazio. Sono due coordinate, ma non collocate in una antitesi irresolubile, non sono i due corni di un'antinomia, ma le due direzioni in cui è organizzato lo spazio, che hanno oltretutto un punto in comune, lo zero.
Di fronte a questa situazione di teso equilibrio fra cose buone e cose cattive irrompe l'"ottimismo" di Lorenzo, nel senso che la canzone è poi piena di frasi che testimoniano la vitalità della vita nel suo aspetto più creativo, di instancabile curiosità e lavoro.
Così infatti interpreto le frasi come "hai le vene e dentro alle vene che cosa c'è": l'uomo non si accontenta di avere un corpo che funziona perfettamente, ma vuole anche sapere come fa a funzionare così bene. Questa è l'infinita sete di conoscenza che caratterizza la specie umana e si manifesta già precocemente con la cosiddetta fase del perché che tutti i bambini hanno.
Ma anche frasi come 

Datemi una notte inventerò una lampadina
Datemi una stella e io mi stendo sulla schiena

stanno a indicare la incredibile capacità umana di reagire all'esistente con pari energia, procurandosi ciò di cui ha bisogno, andando oltre ai bisogni puramente di sussistenza e coltivando la propria intelligenza. Una cosa è troppo lontana, non si può modificare a proprio vantaggio? (una stella) Nessun problema: mi stendo sulla schiena e la contemplo! (e da questa capacita di contemplare nascono la filosofia, la religione, la scienza, l'arte... Perché poi, l'uomo, fermo in realtà non ci sa stare e rende creativo anche l'ozio, il non fare...).

11 ottobre 2011

Il dilemma del libero arbitrio secondo Alfredo Civita



Nello scritto Due concetti di ‘libertà’ o due concetti di ‘concetto, Giulio Napoleoni mi chiama direttamente in causa rinnovando un dialogo di molti anni or sono. Con molto piacere svolgerò qualche riflessione in proposito.
Sottoscrivo questa affermazione di Giulio “Frasi come 2A, pur affermando la libertà dell’agente (o la libertà del volere dell’agente) sono compatibili con una visione deterministica, mentre affermazioni come 2B non sono compatibili con una visione deterministica. La differenza fra i due concetti di libertà si basa su questo”.
Giulio ribadisce così la sua elegante distinzione tra il problema empirico e quello metafisico del libero arbitrio. Fin qui, ripeto, sono del tutto d’accordo. Qualche perplessità mi si pone in relazione alla legittimità di parlare di un problema metafisico del libero arbitrio.
Per spiegarmi, devo fare ricorso alla teoria dei giochi linguistici del mio adorato Wittgenstein, una teoria alquanto complessa che tuttavia devo dare in buona parte per conosciuta. Mi limito a questa scarna informazione: ogni gioco linguistico ha un suo proprio funzionamento governato da regole specifiche.
Esistono anzitutto i giochi linguistici del linguaggio quotidiano e naturale. Dico anzitutto perché in una celebre osservazione Wittgenstein fa una similitudine tra il linguaggio e la città, poniamo una vecchia città europea, come Londra, Parigi, Roma, Milano. La parte antica della città è simile ai giochi linguistici della quotidianità. Nelle periferie nascono sempre nuovi quartieri, nuovi insediamenti, che fatalmente hanno perso le caratteristiche urbanistiche del centro antico. Si pensi alla Défense di Parigi o al quartiere di Milano 2, o sempre a Milano al quartiere dove è nata l’Università della Bicocca. Rispetto all’intrico di vie e viuzze del centro storico, questi nuovi quartieri mostrano un aspetto decisamente più geometrico. Fu probabilmente questa considerazione che indusse Wittgenstein a sostenere, elaborando la similitudine linguaggio-città, che i linguaggi sviluppatisi dopo il linguaggio della quotidianità hanno un carattere più specialistico: sono i linguaggi della scienza, della matematica, della filosofia e della metafisica.
Ora una prima osservazione è che nei molteplici giochi linguistici della comunicazione quotidiana le parole metafisiche che occorrano in una transazione linguistica, non hanno significato e valore metafisico. Farò un esempio.
Se dico a un amico. ”Naturalmente sei libero di non farmi questo prestito”, va da sé che non sto sposando una tesi metafisica sull’esistenza della libertà del volere. In questo gioco linguistico la libertà, per così dire, è data per scontata. E aggiungerei questo: i giochi linguistici del discorso quotidiano contengono una regola che istituisce la libertà del volere – altrimenti non potremmo comunicare in modo fluido e, aggiungerei, normale.
Se mescoliamo ambiguamente le regole del linguaggio quotidiano con quelle del gioco linguistico della metafisica, potremmo assistere a risultati surreali, pazzi. Supponiamo per esempio che alla mia affermazione l’amico risponda in questi termini: “Ma io non sono libero!” Questo enunciato può essere interpretato in due modi, il primo normale, il secondo out of mind. La prima risposta, quella normale, potrebbe senz’altro essere giustificata dal fatto che gli sto puntando una pistola alla fronte. Come potrebbe allora il mio amico essere libero di non concedermi il prestito?
Se invece l’amico rispondesse: “Di quale libertà parli, io non credo nel libero arbitrio, sono un convinto determinista”. I due giochi linguistici, quello quotidiano e quello metafisico, entrano in corto circuito, generando un risultato surreale ovvero di pazzia pura e semplice. Le persone mentalmente molto malate, affette da un delirio di influenzamento, possono essere irresistibilmente convinte che i loro pensieri e decisioni non siano frutto della loro mente, ma di qualche misterioso apparecchio che instilla nella loro mente ciò che devono pensare e decidere.
Traggo da Wittgenstein un altro straordinario esempio di mescolanza di giochi linguistici. In Della certezza (osservazione 467) egli scrive: “Siedo in giardino con un filosofo [il filosofo in questione è George Moore]. Quello dice ripetute volte: 'Io so che questo è un albero' e così dicendo indica un albero nelle nostre vicinanze. Poi qualcuno arriva e sente queste parole, e io gli dico: 'Quest'uomo non è pazzo, stiamo solo facendo filosofia' ”.
Non voglio dilungarmi su un argomento quanto mai complesso ma credo che il medesimo ordine di idee lo rinveniamo nel concetto husserliano di Lebenswelt, di mondo della vita. Le negoziazioni linguistiche del mondo della vita non possono non implicare la libertà del volere.
Dunque, è lecito disquisire intorno al libero arbitrio solo in giochi linguistici specialistici. Prenderò brevemente in considerazione tre giochi linguistici, o meglio tre famiglie di giochi linguistici: le neuroscienze, il diritto penale, la metafisica. Nei primi due, il problema del libero arbitrio emerge su un piano empirico, nel terzo, va da sé, è in gioco la metafisica.
Le neuroscienze di indirizzo cognitivo negano in linea di principio la libertà del volere. Per dimostrare questa tesi i neuroscienziati impiegano i metodi – peraltro preziosi in medicina – del brain imagin, della visualizzazione cerebrale. A un soggetto, sottoposto, poniamo, a risonanza magnetica funzionale, viene chiesto di attuare una prestazione mentale. Gli viene chiesto, per esempio, di decidere come si comporterebbe in una determinata situazione. Da questi studi è emerso che la sede cerebrale della volontà si trova nella corteccia prefrontale. Il gioco è fatto, la libertà è un’illusione giacché essa in realtà dipende dalle aree prefrontali del cervello. Per smantellare questo ordine di idee basta una semplice domanda: ha senso affermare che il cervello prefrontale prende una decisione? Ovviamente no, il cervello fa il suo onesto e complicato lavoro (neuroni, sinapsi, neurotrasmettitori), non lo si può certo gravare anche dell’incombenza di decidere! Sarebbe una rottura del gioco linguistico. Le decisioni le prende il soggetto, l’Io, il Sé, la persona o quello che volete. L’errore delle neuroscienze, in questo ambito di studi, consiste nel ritenere che il dispositivo concettuale della neurobiologia, per quanto rigoroso, possa essere esteso agli stati mentali, ai comportamenti, alle decisioni. Stati mentali e comportamenti hanno bisogno di un ben diverso sistema concettuale, un sistema di certo meno rigoroso ma decisamente più fine.
Il diritto penale: l’imputabilità presuppone la capacità di intendere e volere. Capacità di intendere vuol dire che il soggetto comprende il significato e le conseguenze dell’atto che sta per compiere. Capacità di volere indica che il soggetto agisce non sotto una qualche costrizione, ma in piena libertà. Nelle perizie psichiatriche richieste dal tribunale esiste un’unica patologia che esclude la capacità di intendere e volere, è la schizofrenia. Il soggetto, per esempio, può compiere un delitto sotto la pressione invincibile di un ordine allucinatorio. Se escludiamo la schizofrenia, il perito, non di parte ma del tribunale, ha grandi difficoltà ad accertare obiettivamente l’incapacità di intendere e volere, e per lo più riconosce che tale incapacità non sussisteva. Due osservazioni. E’ veramente raro che un paziente schizofrenico compia un grave delitto. Seconda osservazione: l’ordinamento giuridico ragiona come Wittgenstein in rapporto ai giochi linguistici della comunicazione quotidiana, e anche come Husserl rispetto al mondo della vita: dà per scontato, come una cosa ovvia e naturale, che gli individui, non sottoposti a costrizioni dipendenti da una malattia o da altre condizioni, come l’ubriachezza o l’effetto di stupefacenti, che gli esseri umani sono liberi di fare una cosa o di non farla.
Solo due parole conclusive sulla metafisica. Solo due parole perché devo ora semplicemente sostenere che non sono d’accordo con Giulio: i problemi metafisici non sono pseudoproblemi, altrimenti non avrebbero affascinato filosofi, scienziati e scrittori da millenni; sono problemi autentici e di grande rilevanza, tuttavia sono, a mio parere, insolubili. Per il semplice fatto che non esistono operazioni mentali o materiali che ci aiutino a risolverli. Altrimenti, insomma, dopo tanti secoli, almeno uno avrebbe trovato una soluzione condivisa. Esistono problemi che per millenni sono stati affrontati con metodi speculativi, ossia come problemi filosofici. Lo sviluppo delle conoscenze scientifiche ha però spesso modificato il loro statuto. Pensiamo alla caduta dei gravi. La teoria gravitazionale di Newton lo ha trasformato in un problema scientifico che egli ha meravigliosamente risolto. Risolto? Non di certo, giacché Einstein ha dimostrato che la teoria newtoniana non era impeccabile. Il problema della caduta dei gravi è scientifico e per ciò stesso empirico. Il dilemma del libero arbitrio non potrà mai evolvere, secondo me, in un mero problema empirico.

Alfredo Civita


L'immagine che ho scelto per accompagnare questo contributo, graditissimo, di Alfredo Civita è un'opera di Peter Hohloch dal titolo Free Will.

12 settembre 2011

Inconscio e libertà. Risposta di Alfredo Civita





Caro Giulio,

Provo a rispondere ai due ardui quesiti che hai sollevato nella lettera. Nel replicare al primo quesito adotterò il terzo livello, rispondo in quanto me stesso, Alfredo Civita. Il terzo livello tuttavia s’intreccerà fatalmente con gli altri due.
Tutti i nostri comportamenti sono motivati da istanze inconsce? Lo escludo assolutamente, e credo non vi sia neanche bisogno di argomentare questa risposta. Per esempio, se, dopo aver fatto colazione e aver pranzato, vado a cena al ristorante e ordino una cotoletta, l’ordinazione della cotoletta è forse ascrivibile a motivi inconsci? Ma scherziamo: né Freud, né la psicoanalisi attuale e, nel mio piccolo, neanche io, ripudiamo il libero arbitrio, la liberta del volere. Del resto, il trattamento psicoanalitico non avrebbe alcun senso in una prospettiva deterministica. Lo scopo della psicoanalisi è infatti proprio quello di rendere il soggetto più consapevole di se stesso e di conseguenza più libero. La psicoanalisi, e in particolare la psicoanalisi clinica, è incompatibile con il determinismo – sebbene Freud, ossessionato dal fare della psicoanalisi una scienza a pieno titolo, si è più e più volte gingillato con questo ordine di idee. Ma è ben noto che nella vastissima produzione freudiana si può trovare, solo lo si voglia, tutto e il contrario di tutto. E questo soprattutto a livello metapsicologico ed epistemologico.
Freud, al pari di Binswanger, considerava la malattia psichica come una coartazione della libertà. La cura doveva restituire al paziente la libertà, insieme a un’altra cosa assai più scomoda: la comune e universale infelicità del vivere. In luogo della sofferenza nevrotica, la psicoanalisi porta la sofferenza normale, la mancanza, le ansie e il senso di vuoto che immancabilmente segnano l’esistenza di ogni essere umano, per quanto psichicamente sano possa essere.
Freud afferma che i fenomeni psichici influenzati dall’inconscio appartengono a quattro tipologie, come ricordi anche tu, Giulio, nella lettera: atti mancati, motti di spirito, sintomi e sogni. Qui devo sdoppiare il mio ruolo di filosofo da quello di clinico a indirizzo psicoanalitico. Da filosofo non posso che essere d’accordo con Jaspers laddove afferma che Freud voleva,  e aggiungerei doveva, trovare dovunque un senso. Un evento privo di senso, nel mondo umano, gli era intollerabile.
Da clinico devo invece concordare con Freud in questo senso: quando un paziente compie in seduta o fuori un atto mancato, oppure quando mi racconta un sogno, l’atto mancato e ancor più il sogno mi offrono un materiale inestimabile per far procedere l’analisi, per conseguire una conoscenza condivisa della sua personalità. Vi sono pazienti che non portano sogni, oppure li portano e li lasciano lì in attesa di una mia magica e decisiva interpretazione. Questa tipologia di pazienti non è adatta per il trattamento analitico propriamente detto. Occorre modificare la tecnica. Ma se il paziente racconta il sogno e poi, senza paura, lavora con la mente per afferrarne il significato, allora questa è in tutto e per tutto psicoanalisi – con ottime prospettive non già di guarigione, perché non se ne parla, ma di essere finalmente nelle condizioni di fare a meno dei suoi sintomi.
Con ciò spero di aver risposto in qualche modo alla prima domanda; passo ora alla seconda: le pulsioni sono inconsce? La risposta canonica di Freud sostiene che le pulsioni non sono né consce né inconsce; le pulsioni non sono contenuti psichici, si trovano sul confine tra il biologico e lo psichico; quando tuttavia la pulsione viene attivata dalla corrispondente fonte somatica, per esempio la regione della sessualità in rapporto alla pulsione sessuale, la pulsione, così attivata, investe con tutta la sua potenza una rappresentazione, la quale si trasforma in un moto pulsionale di desiderio. Questo, essendo inconscio, non viene percepito dalla coscienza, ma esercita su di essa una pressione dalla quale non si può sfuggire. Per essere accettata dalla coscienza – Freud pensa soprattutto a desideri sessuali incestuosi – il moto pulsionale di desiderio deve trasfigurarsi, mascherarsi così da farsi accettare dalla coscienza. Il desiderio resta comunque quello originario, nonostante il mascheramento. Alla tua domanda, se questo ragionamento, metta in dubbio la libertà del volere, rispondo che sono d’accordo. Ma Freud, che pure ha contribuito profondamente a modificare il suo tempo, a quel tempo vittoriano pur sempre apparteneva:  che una persona potesse essere consapevole di un desiderio incestuoso oppure omosessuale, era, credo, un pensiero per lui difficile da digerire.
Concludo con una breve riflessione personale sulle pulsioni. La comunità psicoanalitica è andata gradualmente rinnegando l’idea stessa di pulsione. In parte sono d’accordo, perché, da un punto di vista neurobiologico, il concetto di pulsione è oggi insostenibile. Ma come ho scritto anche nel mio libro, la domanda che sorge è: se le pulsioni non esistono, se non esiste in particolare la pulsione di morte, cosa ci resta per rendere ragione e di molte patologie individuali e della distruttività del genere umano?

Alfredo Civita

(con questa lettera Civita rispondeva a una mia lettera, scaturita dalla lettura del suo libro L'inconscio)

6 settembre 2011

"C'è davvero una realtà in sé?" = "C'è Dio?"



La prima domanda posta nel titolo è una domanda cruciale per capire il destino della filosofia contemporanea, alla luce delle tesi di Franca D'Agostini.
La messa a fuoco di questa domanda, da parte di D'Agostini nel suo recente Introduzione alla verità (Bollati Boringhieri 2011) (vedi la mia quasi-recensione in questo blog), è il punto di partenza per una revisione della tradizionale interpretazione della nozione kantiana di cosa in sé come qualcosa di non solo indipendente, ma anche inaccessibile ai nostri strumenti conoscitivi, decisamente separata da essi. (vedi pag. 195) La filosofa propone di interpretarla come "ci sono cose che non sappiamo/non vediamo", o "non sappiamo tutto" ("in un certo senso è ancora il vecchio principio socratico", p.196) e questa interpretazione ha la funzione di liberare il campo per una seria ripresa della riflessione metafisica nella filosofia contemporanea. Semplificando molto: se non sappiamo tutto ciò non ci impedisce però di (anzi, ci spinge a) progredire nella conoscenza e farci un'idea sempre migliore di come sia la realtà in sé: la metafisica può fare ricerca, stando al passo con la scienza e con la storia!

Io qui vorrei però porre l'accento su una questione sulla quale mi pare che D'Agostini sia sfuggente (si veda la sezione 15.5, dal titolo Dio è una questione di gusti?): l'esistenza o inesistenza di Dio.
Mi pare che chiedersi "c'è davvero una realtà in sé? Che relazione c'è tra questa realtà in sé e quella che ci parla, tocca i nostri sensi, investe la nostra ricettività, fornendo i materiali del nostro giudicare e ragionare?" (p. 195) equivalga a chiedersi "c'è Dio?"
Perché dico questo? Perché Dio è, nella cultura filosofica, l'inaccessibile per eccellenza, ciò la cui esistenza per secoli i filosofi hanno tentato di dimostrare. E su questa eccellente inaccessibilità di Dio la religione ebraico-cristiana ancora oggi si sostiene, perché può sempre argomentare, contro chi obietta che dal punto di vista scientifico non vi è traccia di Dio, che non vi è traccia perché è inaccessibile, perché esiste in una dimensione trascendente!

Come va interpretato questo non sappiamo tutto di D'Agostini interprete di Kant? Dagli esempi che fa (potrebbe darsi il caso che una pietra stia cadendo su Marte; può darsi che esistano extraterrestri intelligenti) si direbbe che non sappiamo tutto non perché, appunto, c'è una regione inaccessibile della realtà (nella quale potrebbe risiedere Dio) ma solo perché la nostra esperienza è limitata nello spazio e nel tempo.

Paolo Flores D'Arcais, noto filosofo che sostiene attivamente l'ateismo, inizia il suo libro L'individuo libertario proprio sostenendo la tesi opposta: sappiamo tutto. Ovviamente è un'esagerazione, ma per dire cosa? Per dire che la scienza ci da già oggi le coordinate fondamentali di ciò che esiste, e in queste coordinate non c'è spazio per Dio. Sostenere questo è possibile solo se riteniamo che la realtà, o l'essere, sia in linea di principio accessibile all'esperienza. In altri termini se accettiamo che la scienza, con i "prolungamenti" della nostra esperienza che ci fornisce attraverso le sue teorie, abbia accesso, almeno potenzialmente, a tutta la realtà.

La domanda fondamentale è : c'è un'altra realtà oltre a quella spazio-temporale? È questa realtà, se c'è, in linea di principio inaccessibile all'esperienza umana? (in questo senso realtà come quelle degli enti matematici, degli oggetti del pensiero, o degli oggetti dell'immaginazione non sono esempi, proprio perché sono accessibilissime all'esperienza umana, dal momento che è essa stessa che le costruisce! - mi scusino i matematici di stampo platonico...) Certamente rispondere è una questione ontologica o metafisica. Se ammettiamo l'esistenza di una realtà inaccessibile in linea di principio all'esperienza umana lasciamo certamente più spazio alla possibilità che Dio esista. Se invece lo neghiamo riduciamo fortemente questo spazio. Si può anche dire che Kant abbia voluto lasciar aperta l'interpretazione della realtà in sé come inaccessibile e separata proprio perché voleva dare spazio alla possibilità dell'esistenza di Dio, pur riconoscendo l'impossibilità di dimostrarla scientificamente.

In ogni caso penso che una teoria metafisica sia tenuta a pronunciarsi sulla questione di Dio, senza aver timore di invadere il campo della religione. Le possibilità non sono molte: o c'è o non c'è.
Ovviamente non basta affermarlo o negarlo ma occorre argomentare, come sempre in filosofia. Certamente, inoltre, se se ne afferma l'esistenza occorre poi anche dare almeno un'idea di cosa sia, e qui le possibilità tornano numerosissime. Ma la questione base, ontologica, rispetto a Dio mi sembra ineludibile e i filosofi sono chiamati a esprimersi chiaramente.
Giulio Giorello l'ha fatto recentemente in un libro, Senza Dio, Longanesi 2010. E da questo libro prendo la definizione che Giorello stesso accetta, in via preliminare, come ciò di cui intende negare l'esistenza (definizione di padre F.C. Copleston, il gesuita con cui discusse Russell nel 1948): con la parola Dio "intendiamo un ente supremo, personale, distinto dal mondo e creatore del mondo". È quindi rispetto alla definizione religiosa di Dio, che secondo me i filosofi sono tenuti a pronunciarsi. E non mi sembra giusto partire dalla questione di cosa sia Dio esattamente, per poi cercare di capire se esista o no. Prima occorre prendere posizione sulla sua esistenza o meno, poi eventualmente precisarne le caratteristiche, magari anche per discostarsi notevolmente dalla definizione religiosa, come fa per esempio Pareyson in Ontologia della libertà. Pareyson parte dall'esperienza religiosa tradizionale come un dato di fatto e sostanzialmente non mette in discussione se l'oggetto di qusta esperienza esista o no. Quindi ragiona dando come presupposta l'esistenza di Dio: in quanto oggetto dell'esperienza religiosa, non si preoccupa di doverne dimostrare l'esistenza, ma almeno assume una posizione, per quanto non tematizzata: Dio c'è. Poi costruisce, ragionando sul male, il non-essere eccetera, un'interpretazione di Dio notevolmente distante da quella della tradizione ebraico-cristiana.

Io, come vedete, mi sto interrogando in merito, partendo da una solidissima formazione atea che mi deriva da mio padre, Mario Napoleoni, purtroppo recentemente scomparso, che dava lezioni di ateismo a tutti quelli che incontrava. Colgo l'occasione, qui, per dire che lo ricordo con grandissimo affetto e grandissima stima, perché devo a lui anche la passione per la filosofia. Fu lui a mettermi in mano, quando frequentavo il liceo artistico e mi interrogavo su quale facoltà scegliere e avevo solo capito che mi interessavano troppe cose diverse, I problemi della filosofia di Bertrand Russell, dicendomi: "c'è una disciplina che si interessa di tutto: è la filosofia!".

Cfr , su analogo argomento, in questo blog L'inoltrepassabile

2 settembre 2011

L'inconscio e la libertà. Lettera aperta ad Alfredo Civita

Caro Alfredo,

come altre volte, in questo blog, mi ritaglio un percorso all'interno di un libro rispondendo al mio interesse personale, e questa volta prendo in esame il tuo volume recente L'inconscio (Carocci 2011) ponendoti alcune questioni.
Parto con una citazione dall'Introduzione:
Il tratto essenziale dell'inconscio psicoanalitico risiede nel fatto che i contenuti che lo abitano e lo animano hanno un carattere motivazionale. Essi motivano, dall'oscurità della vita inconscia, emozioni, pensieri e comportamenti della vita cosciente.
Prima domanda: Tutti i comportamenti? Solo alcuni? Quali? Il problema è se vi sia in generale, secondo Freud/secondo la psicoanalisi contemporanea/secondo te (tre livelli della prima domanda, quindi) in generale una motivazione inconscia che sta "sotto", o si aggiunge/si mescola alle motivazioni coscienti per cui agiamo.
Risposte a questo problema si trovano nel seguito del libro, ovviamente, ma suscitano altre questioni. Vediamo.
" I processi dell'inconscio emotivo " scrivi (distinto, quello emotivo o psicoanalitico, dall'inconscio cognitivo, di cui anche ti occupi nel libro)
svolgono il ruolo di potenti motivazioni in rapporto al pensiero e al comportamento dell'individuo.
Per spiegare questa affermazione introduci un famoso slogan: la coscienza non è padrona in casa sua.
L'Io cosciente s'illude di padroneggiare in piena libertà i propri desideri, il proprio pensiero, la condotta; in realtà le reali motivazioni si trovano nelle profondità del suo inconscio emotivo.
Da queste prime affermazioni sembrerebbe di poter dire che secondo Freud tutti i comportamenti sono motivati inconsciamente. Più avanti, però, tu spieghi come Freud, a sostegno dell'esistenza dell'inconscio (per controbattere alle argomentazioni di Franz Brentano) indichi un insieme specifico di fenomeni psichici per i quali senza introdurre spiegazioni basate sull'inconscio ci troveremmo di fronte a fenomeni psichici privi di significato, casuali (cosa per Freud inconcepibile): i sogni, gli atti mancati, i sintomi psichici, le idee e prodotti intellettuali che ci "arrivano" senza un consapevole percorso psichico. Al di là della consistenza di questa argomentazione freudiana (basata come dici tu su un postulato indimostrabile, ovvero l'onnipresenza del senso nella vita psichica) a me interessa il fatto che se l'azione dell'inconscio fosse limitata a questo insieme di fenomeni non sarebbe messa in questione la libertà del soggetto.
    Per approfondire il tema dell'incoscio nella sua capacità motivazionale tu fai riferimento alla teoria freudiana delle pulsioni.
La pulsione produce uno stimolo sull'organismo, generando il bisogno di neutralizzare lo stimolo stesso.
Il bisogno generato dalla pulsione, provenendo dall'interno dell'organismo, è qualcosa da cui non si può sfuggire, deve essere affrontato. I due esempi fondamentali sono la fame e il desiderio sessuale. Dopo aver analizzato il concetto di pulsione (Trieb) e averlo distinto da quello di istinto (Instinkt) (le pulsioni hanno una grande variabilità quanto al loro sviluppo e soddisfacimento, mentre gli istinti sono schemi di azione rigidi) tu chiudi la parte dedicata a questo tema (1.3) con questa frase:
Le pulsioni si attestano quindi come le motivazioni fondamentali della vita umana
Tralasciando la pulsione di morte (pur da te ampiamente analizzata) a me resta una questione in sospeso (seconda domanda): le pulsioni sono inconsce? Non siamo forse ben consapevoli del nostro bisogno di cibo e dei nostri desideri sessuali? Forse all'epoca di Freud la sessualità era molto più celata e forse le persone tendevano a non confessare nemmeno a se stesse i propri desideri più "spinti", ma che la sessualità occupi una parte importante della vita psichica cosciente l'aveva già riconosciuto Schopenhauer ben prima dell'epoca di Freud! E' chiaro che dal punto di vista di chi si chiede se l'inconscio rappresenti una "minaccia" per la libertà umana questo punto è importante, perché un conto è un bisogno dal quale non possiamo sfuggire ma di cui siamo coscienti, un altro è un bisogno che oltre ad essere inevitabile è anche inconscio!

Alfredo Civita rispose a questa mia con una sua lettera che mi ha permesso di pubblicare e che trovate in questo blog : ne raccomando a tutti la lettura, per la sua chiarezza e per la ricchezza di spunti che offre alla riflessione filosofica.

22 agosto 2011

Le varianti della bellezza



Quanti modi diversi ci sono di incarnare la famosa idea platonica di BELLEZZA?

Sembra molto difficile pensare a cosa hanno in comune un bel volto umano, un bel romanzo e una bella legge. (l'esempio della legge è di Platone stesso) Insomma, riuscire a contemplare l'idea di bellezza nella sua unicità sembra molto più difficile di quanto lo sia il riuscire a definire l'essenza della verità nella sua unicità. Al di là delle diversità delle frasi che possono essere vere (verità matematiche, verità storiche, verità morali...) la corrispondenza fra linguaggio e realtà sembra effettivamente cogliere una caratteristica universale della verità.
Ma per la bellezza le cose sembrano essere più difficili, se non altro perché le cose che possono essere belle possono appartenere a categorie anche molto diverse fra loro, mentre le cose che possono essere vere sono comunque proposizioni.
Non sarà che Platone si sbagliava, che ci sono cioè diversi tipi di bellezza, quindi non esiste un'unica idea corrispondente al concetto?
Anche restando nel campo dei volti umani, inoltre, trovare cosa hanno in comune volti che riteniamo belli (al di là del problema che alcuni possono non essere d'accordo sul giudizio di bellezza riguardo a un certo volto) non è certo facile.

Per mostrare a chi legge tale difficoltà propongo due coppie di volti, una maschile e una femminile, nelle quali entrambi i volti si possono definire belli, ma sono molto diversi fra loro.




14 luglio 2011

Atteggiamento oggettivante/atteggiamento performativo



H. Skjervheim (nella foto), in Objectivism and the Study of Man (Oslo 1959) (cit. in Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, ed. it. Il Mulino 1986, p. 190 e sgg.) distingue fra due atteggiamenti di fondo: att. oggettivante e att. performativo. E' oggettivante chi nel ruolo della terza persona osserva o fa enunciazioni su qualcosa nel mondo. E' performativo chi nel ruolo di prima persona entra in relazione intersoggettiva con un seconda persona. Questa duplice possibilità riflette secondo Skjervheim una "ambiguità fondamentale della condizione umana": l'Altro è là sia come oggetto per me sia come altro soggetto con me.

Questa ambiguità si riflette  (e forse genera) il problema del libero arbitrio, nel senso che verso un agente posso o osservare e cercare di spiegare il suo comportamento trattandolo come un "oggetto" alla stregua di altri oggetti natuarali (un atteggiamento spinoziano, che prescinde completamente dal considerare l'agente come dotato di libero arbitrio), oppure posso entrare in rapporto e concordare azioni comuni/contrastarne l'azione perché la ritengo sbagliata, moralmente riprovevole ecc. Posso assumere l'uno o l'altro atteggiamento, ma non entrambi contemporaneamente.

10 luglio 2011

La possibilità fisica: disputa ideale fra von Wright e Severino




Il dibattito filosofico sul libero arbitrio (siamo o no realmente liberi di scegliere il nostro comportamento?) chiama in causa, inevitabilmente, il concetto di possibilità. La possibilità di cui si parla in questi contesti, tuttavia, non è la cosiddetta possibilità logica (o metafisica, se si preferisce chiamarla così), cioè la possibilità come non-contraddittorietà di un ente, di un evento, di una situazione. E' invece la possibilità reale (o fisica, se si preferisce chiamarla così, o causale o naturale o umana...), cioè la compatibilità con le leggi naturali, con le leggi che governano l'andamento del mondo reale (l'unico che ci è dato conoscere in base alla nostra esperienza).
Ebbene. Von Wright (in Libertà e determinazione, ma anche in Causalità e determinismo) ritiene essere un fatto empirico l'esistenza di possibilità reali. Il suo ragionamento è questo. Partiamo dal fatto che uno stato di cose generico X si verifichi più volte nel corso del tempo. Ogni volta noi osserviamo che cosa accade dopo di esso. Se a volte segue lo stato generico Y e a volte lo stato generico Z possiamo affermare che, dato il verificarsi dello stato generico X in una data occasione, vi sono due possibilità reali: o che si verifichi successivamente Y oppure che si verifichi successivamente Z.
Severino invece (in Studi di filosofia della prassi) ritiene che non sia possibile affermare su base empirica l'esistenza di possibilità reali. Il suo ragionamento è questo. Dato il verificarsi dello stato X nell'occasione A e constatato il successivo stato Y, non potremo mai sapere se era realmente possibile il verificarsi, dopo X, di Z, perché ciò implicherebbe l'esperienza di stati di cose alternativi a quello realmente accaduto nell'occasione A. Il fatto che, in altre occasioni (B, C, D ecc.), a X sia seguito Z non conta, perché ciò che noi vogliamo sapere è se in quella occasione temporale (A) fosse possibile realmente la sequenza XZ.

Il punto discriminante mi pare essere il concetto di stato di cose generico, che von Wright utilizza, mentre Severino lo rifiuterebbe. Per von Wright lo stesso stato di cose generico può accadere più volte nel tempo. Per Severino già dire questo è sbagliato, nel senso che in ogni occasione successiva (B, C, D...) in cui X accade, X è diverso perché accade in quella specifica occasione.

La disputa quindi si sposta sulla concezione del tempo come qualcosa di "individualizzato" già di per sé, o come qualcosa di omogeneo e con una struttura modulare, neutra.

Il problema diventa: uno stato di cose generico, che accade in due occasioni diverse, è lo stesso stato di cose o no?
Vi sono momenti uguali nella vita di una persona? Ci si può trovare di fronte alla stessa scelta due volte?

4 luglio 2011

Due concetti di libertà o due concetti di concetto? Il libero arbitrio tra esperienza e metafisica


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Ho incontrato il problema del libero arbitrio leggendo un saggio di Cesare MusattiLibertà e servitù dello spirito, nel quale il grande psicoanalista italiano sostiene l’illusorietà del libero arbitrio sulla base delle teorie freudiane (sinteticamente: non siamo veramente liberi di scegliere il nostro comportamento, come pensiamo di essere, perché le motivazioni delle nostre scelte affondano le loro radici nel nostro inconscio).
Studiando filosofia, poi, mi sono reso conto di quanto il problema fosse complesso e della sua caratteristica di attraversare le epoche storiche mantenendo una sua identità. Al momento della scelta della tesi mi sono rivolto ad Alfredo Civita (nella foto), allora assistente di Giovanni Piana alla Statale di Milano, perché aveva tenuto un seminario sulla libertà del volere (poi venni a conoscenza del fatto che stava scrivendo un libro sull’argomento: La volontà e l’inconscio, guarda caso proprio affrontando il tema in relazione alla psicoanalisi, in una prospettiva filosofica dichiaratamente aderente al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche).
Mi consigliò di affrontare il tema analizzando un’opera di Georg Henrik von Wright, un filosofo finlandese contemporaneo: Libertà e determinazione.
Studiando l’opera di von Wright, ma soprattutto influenzato dalla lettura di un libro di Emanuele Severino, Studi di filosofia della prassi, scrissi un breve testo che sottoposi all’attenzione di Civita, e che riproduco qui di seguito in una versione leggermente modificata.

Al fine di risolvere tutte le questioni in qualche modo collegate con la nozione di “libero arbitrio” ci sembra importante stabilire la seguente distinzione. Prendiamo l’enunciato

(1)       X era libero nel fare Z.

Vi sono secondo noi due modi di interpretare questo enunciato, che corrispondono a due modalità diverse di operare per cogliere le condizioni di verità di esso: uno per il quale basta fare riferimento alla situazione reale (passata), l’altro per il quale occorre fare riferimento a stati di cose alternativi o possibili.
Prendiamo un esempio della proposizione (1):

(2)       Maurice era libero nel compiere l’attentato a De Gaulle.

Le due interpretazioni di questo enunciato, secondo quanto detto prima, sono:

(2A) Nessuno ha obbligato Maurice ad agire in tal senso; tale azione è stata premeditata, ed è coerente con le convinzioni politiche di Maurice; egli aveva un’intenzione politica precisa, ed era convinto che per realizzarla occorresse compiere quell’attentato.

(2B) Maurice avrebbe potuto non compiere quell’attentato.

Evitando il compito di definire le nozioni di “libertà” sottintese nei due casi, è possibile comunque operare una distinzione intuitiva fra due diverse accezioni del concetto di libertà, basandosi sul tipo di operazioni richieste dalla ricerca delle condizioni di verità di proposizioni nelle quali compare tale concetto. Nel primo caso (2A) è sufficiente indagare sulle condizioni reali che hanno preceduto l’atto. Queste condizioni potranno naturalmente consistere anche in stati o eventi “mentali” (per esempio le convinzioni politiche di Maurice), ma potranno comunque essere ricercate attraverso un’esperienza indiretta (per esempio parlando con Maurice). Nel secondo caso (2B) ciò invece non basta, perché non ci si riferisce più solo a stati di cose realmente accaduti, ma si mettono in gioco stati di cose possibili, anzi più precisamente si mette in gioco la possibilità stessa di stati di cose alternativi o possibili. In 2B si sostiene che esiste la possibilità di stati di cose possibili, e in particolare di quello contenuto nella proposizione.
Sosteniamo insomma che vi sia una distinzione importante fra la questione del libero arbitrio come questione empirica e la questione del libero arbitrio come questione metafisica.

Sottoposi a Civita questo scritto, e in un successivo incontro egli mi disse più o meno quanto segue: “la distinzione che proponi vale come principio euristico, ma vi sono dubbi sul suo significato filosofico. Se mi dici che queste due sfere danno luogo a due concetti di libertà, io ti dico che danno luogo a due concetti di concetto! 2A e 2B sono indipendenti? 2B falso non implica anche la falsità di 2A? Se sono indipendenti allora 2B, come affermazione, non ha più senso. Ciò è invece contraddetto da situazioni quotidiane in cui usiamo frasi come 2B con senso. È da qui che bisogna partire. Occorrerebbe mostrare la ricchezza filosofica di affermazioni come 2A, ma anche anche contesti in cui affermazioni come 2B hanno senso. Affermazioni come 2B non sono solo affermazioni metafisiche: si usano quotidianamente. Ciò implica che devono avere anche un significato a-filosofico”.
Io replicai: “in Freud vi è un modello epistemologico deterministico, ma viene sostenuta una nozione di libertà (come conoscenza di sé). Ciò dimostra che le due nozioni sono indipendenti”.
Civita: “questo è un grosso problema, in psicoanalisi. Il mio parere è che ciò non sia una coesistenza pacifica, ma sia una contraddizione all’interno del pensiero freudiano”.
Io allora gli riproposi l’argomentazione (ripresa da Severino) secondo cui non si può avere esperienza della libertà nel senso B perché ciò implicherebbe una sorta di ritorno indietro nel tempo all’istante preciso in cui si è verificata la scelta, e constatare poi il verificarsi di eventuali decorsi alternativi degli eventi (ho provato, in seguito, a immaginare che ciò sia reso possibile da una macchina speciale, e ne è venuto fuori il racconto La macchina del libero arbitrio…).
Civita mi rispose: “questa è la solita argomentazione dei deterministi, ma è “sofistica”, nel senso che non tiene conto appunto del fatto che affermazioni come 2B vengono usate, e quindi devono riferirsi a qualche cosa, devono avere un significato”.

Proseguendo idealmente questo dialogo con Civita vorrei aggiungere che non escluderei che nelle conversazioni quotidiane vengano fatte affermazioni metafisiche, se intendiamo per metafisiche tutte le affermazioni che riguardano concezioni generali della realtà, o meglio concezioni di cosa sia un fatto, di cosa sia la realtà, quindi anche se facciano parte della realtà non solo i fatti ma anche le possibilità, i fatti che non si sono realizzati ma che avrebbero potuto realizzarsi, come una scelta diversa in un momento specifico.
       Frasi come 2A, pur affermando la libertà dell’agente (o la libertà del volere dell’agente) sono compatibili con una visione deterministica, mentre affermazioni come 2B non sono compatibili con una visione deterministica. La differenza fra  i due concetti di libertà si basa qu questo.

Ora, secondo me anche nel discorso quotidiano intendiamo cose diverse se parliamo della libertà di qualcuno senza sollevare questioni metafisiche (come la verità o falsità del determinismo) oppure parliamo della libertà dell’uomo in generale sollevando una questione metafisica. Le questioni metafisiche hanno significato, perché si riperquotono sul valore che diamo alle cose, ai fatti, alla realtà stessa. Non direi che il problema metafisico del libero arbitrio sia un falso problema. Direi che è il caso di affrontarlo come problema che appartiene all’ambito delle concezioni generali sull’uomo e sul suo posto nel contesto naturale, e sia utile invece proprio farlo rientrare fra i problemi su cui anche i non filosofi possono riflettere per arricchire la consapevolezza di sé e chiarire la loro visione generale delle cose. Azzarderei l’ipotesi che una tacita (implicita, non riflessa) accettazione della negazione del libero arbitrio possa aver contribuito alla crisi della morale e al rifiuto della responsabilità, cioè la capacità di giustificare le proprie scelte di fronte a chi ci sta intorno.

30 giugno 2011

L'omosessualità: una variante dello sviluppo


Nel 2007 insegnavo al Liceo Falcone e Borsellino di Arese. A un certo punto girava voce che un professore andasse dicendo in classe, agli studenti, che l'omosessualità è una malattia. Cominciammo a parlare, con un gruppo di colleghi, e decidemmo di fare qualcosa per contrastare l'azione dannosa di questo professore. Il risultato fu la stesura di un testo che venne pubblicato sul giornalino scolastico con le firme di tutti i professori che ne condividevano il contenuto:


Nel lavoro preparatorio per arrivare a questo testo andai a guardarmi la posizione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità riguardo all'omosessualità.

Un altro documento interessante è la risoluzione sulla parità di diritti per gli omosessuali  nella comunità, approvata dal Parlamento europeo neo 1994.


Di recente è uscito un libro nella collana Farsi un'idea del Mulino che fa il punto sulle concezioni più aggiornate e scientificamente fondate riguardo all'omosessualità. Lo segnalo al primo posto nella seguente lista di libri sull'argomento. 


Sono inoltre disponibili in rete tre testi molto chiari ed esaurienti, che trattano l'omosessualità, la varianza di genere e il dibattito sulla cosiddetta "teoria del gender", che ho segnalato in tre post successivi a questo:

Il "genere". Una guida orientativa
Gender. Che cos'è... e cosa non è (pensato per i giovani)
Sei sempre tu. Guida informativa per adulti su omosessualità e varianza di genere





22 giugno 2011

I giudizi morali: solo desideri? Si può essere insieme empiristi e deterministi? Borghini, Severino, Hume


In un articolo di Andrea Borghini, "Un mondo di possibilità. Realismo modale senza mondi possibili" (Rivista di estetica, n.s., 26 (2/2004)) il giovane filosofo argomenta a sostegno di una teoria sugli enti possibili (o possibilia) da lui chiamata "disposizionalismo". (Ho già scritto qualcosa partendo dal suo libro Che cos'è la possibilità: La filosofia come sistematica esplorazione delle possibilità e Non essere, possibilità, valore) Non intendo qui confrontarmi con  la teoria, ma solo riflettere su un passaggio delle sue argomentazioni che mi ha molto colpito.
    Discutendo dei "fictionisti", secondo i quali gli enti possibili sono storie, Borghini classifica tale posizione come atteggiamento scettico nei confronti dei possibilia (che riconduce a Hume) e poi prosegue:
Ora, potrebbe essere che i fictionisti, nel loro radicale empirismo, abbiano ragione. Potrebbe essere, cioè, che gli scenari possibili non siano che utili fictions e, di fatto, niente avrebbe potuto essere diverso da come è. Ma la mia fiducia nell'ontologia quale fondamento delle nostre credenze riguardo agli enti che ci circondano mi spinge a credere diversamente - almeno per le credenze che non siano morali, estetiche o legali. Nel caso dei giudizi morali, per esempio, abbiamo una buona ragione per assumere una posizione eliminativista: è più che plausibile sostenere che essi siano niente più che un modo per esprimere in tono più grave ciò che desideriamo. E lo stesso possiamo dire dei giudizi estetici e di quelli legali.
Quello che mi ha colpito è questa sorta di liquidazione en passant di etica, estetica e diritto.
Se, discutendo con un amico, mi lascio andare alla rabbia che in quel momento provo nei suoi confronti e gli dico una frase molto offensiva che lo ferisce, poi probabilmente mi pentirò e proverò un senso di colpa. Questo senso di colpa sarà accompagnato da un giudizio morale negativo verso me stesso. Mi dirò che sono stato stupido, che avrei dovuto controllarmi, che mi sono comportato male e che è il caso di scusarsi.
Secondo la posizione di Borghini sopra riportata questo giudizio morale verso me stesso non è altro che un modo di esprimere il mio desiderio attuale di non aver offeso l'amico. Il giudizio morale quindi non si baserebbe sul fatto che avrei potuto non offendere l'amico, non pronunciare la frase offensiva. 
Fatto possibile, ovviamente. Certamente non possiamo empiricamente constatare un fatto del genere. Potremmo forse sostenere che in casi analoghi (in altre discussioni con amici, ad esempio) io non ho offeso nessuno, quindi (per induzione, e ciò che ne segue è solo probabile) ho la capacità di non offendere mentre discuto. Ma in quel caso specifico?
Dietro a questa posizione empirista, che Borghini sembra difendere relativamente alle credenze morali, c'è la convinzione che tutto accada necessariamente. Del resto anche Borghini, nel brano sopra riportato, associa all'empirismo radicale verso gli scenari possibili una tesi deterministica ("niente avrebbe potuto essere diverso da come è").
La cosa strana dell'empirismo, su questo punto, è che assume una posizione deterministica senza rendersi conto che anche il determinismo è insostenibile, se si vuol essere empiristi radicali. Sulla base di quali esperienze, infatti, possiamo dire che le cose non avrebbero potuto andare diversamente? Non certo sostenendo un legame necessario, di tipo causale, fra un evento e gli eventi antecedenti: Hume stesso ha sostenuto che la necessità del nesso causale non è un'impressione (nella sua terminologia). La necessità non è un'esperienza, così come non lo è la contingenza. Quindi il determinismo è una posizione metafisica che un empirista radicale dovrebbe escludere come tale.
D'altra parte anche la libertà, intesa come libero arbitrio, non appare nell'esperienza. Su questo punto mi sembra molto forte il discorso che fa Emanuele Severino in Studi di filosofia della prassi (parte II: "Per la costruzione del concetto di libertà"), approfondendo la tesi kantiana secondo la quale "al libero arbitrio non può essere data nessuna intuizione corrispondente". In sostanza Severino sostiene che, per come è strutturata la nostra esperienza del tempo, il libero arbitrio non può mai essere dato nell'esperienza, quindi affermarlo è fare un'affermazione metafisica.
    In conclusione vorrei sostenere che sugli enti/eventi possibili non possiamo, se siamo empiristi radicali, né dire che esistono, né dire che non esistono: dobbiamo mantenere un atteggiamento problematico.
    Un empirista radicale che sostiene il determinismo (negando l'esistenza di eventi possibili) è come uno che dica: al di là dell'esperienza non possiamo sapere nulla, ma io so che al di là dell'esperienza non c'è nulla.
     Come se ci fosse andato, al di là, e avesse constatato che non c'è nulla!


Cfr anche, in questo blog
L'esistenza del possibile
L'inoltrepassabile






16 giugno 2011

La questione non è "quanti mondi?" ma piuttosto "Che cosa c'è?" (risposta di Franca D'Agostini alla lettera aperta del post precedente)

Caro Giulio,
grazie mille delle tue domande. In effetti riguardano questioni essenziali, rimaste sullo sfondo di Introduzione alla verità, e mi fa molto piacere parlarne. Provo a chiarire.
Premesse: 
1) il concetto di verità è un concetto di uso prevalentemente critico, discussivo, ispettivo: in una parola: scettico, visto che compare nel contesto di una skepsis, una ricerca. Tu mi dai un pugno, io ti denuncio, e si tratta di stabilire se è vero che mi hai dato un pugno, se tu neghi di averlo fatto.
2) si vede bene allora che V (è vero) significa banalmente: le cose stanno così come le mie parole dicono; 'costui mi ha dato un pugno' è vero perché effettivamente mi hai dato un pugno.
3) per usare sensatamente V in questo modo occorre postulare che ci sia un fatto (pugno) e ci siano parole che ne riferiscono fedelmente o meno. Diversamente non si capisce che senso abbia usarlo
4) postulare l'esistenza di fatti e parole non è un grande impegno metafisico: non è necessario pensare che le parole, essendo distinte dai fatti, non esistano o non possano essere fatti a loro volta, esattamente come per dire: 'Maria mi ha dato un bacio' non è necessario postulare l'esistenza di baci come entità ontologiche determinate.
Risposte alle domande:
5) le proposizioni sono fatti? le proposizioni (nel senso di Frege) sono certamente 'fatti', per un uso libero (non nietzscheano) della parola 'fatti': il fatto-proposizione 'costui mi ha dato un pugno' (parole, suono, pensiero) è però distinto dal fatto di cui la proposizione parla: il fatto appunto che mi hai dato un pugno
6) realtà e linguaggio sono distinti? realtà e linguaggio sono (da considerarsi come) distinti, visto che abbiamo due parole diverse per designare l'una e l'altro; ma non c'è nessun problema a distinguerli, visto che le due parole in questione funzionano molto bene, in molte occorrenze. Il problema nasce quando realtà e linguaggio, fatti e parole, si pensano come dei 'piani' veri e propri, come gli scaffali di una libreria, e si mettono in relazione esclusiva-esaustiva (cioè si dice: reale se e solo se non linguistico): ma che necessità abbiamo di pensare la realtà come una libreria fatta di due soli scaffali, in cui per giunta non ci possa essere alcuna comunicazione o intersezione tra il primo e il secondo? A mio avviso nessuna.
7) non commento il Tractatus perché a mio parere è un brogliaccio piuttosto geniale, che contiene molte intuizioni buone, ma anche proposizioni semplicemente false (a meno che non si usino le parole in modi strani): es. 2.18.
8) Dici: Platone: due mondi; Aristotele: un solo mondo; e dici di preferire Aristotele (dando a me della platonica, presumo). In realtà, forse direi piuttosto: Platone (una parte di Platone) prevedeva un solo mondo, quello delle idee-concetti, ma infinitamente complesso e movimentato; Aristotele: un solo mondo (quello dell'essere) ma estremamente variegato, con tante stratificazioni (sensibile, soprasensibile, mobile, immobile, ecc.), e in un certo senso anche inclusivo del non essere.
9) Come vedi in sostanza siamo tutti d'accordo: tu e io, e Platone e Aristotele (salvo che Platone non amava molto la sfera della sensibilità e il mondo fisico). Ma, NB: la tesi su cui siamo d'accordo non è: 'c'è un solo mondo' bensì 'c'è una realtà (fatta di molte cose e casi e mondi diversi) che rende vero - può rendere vero - ciò che diciamo'.
10) è proprio vero che il concetto di verità ci obbliga a pensare che esistano più mondi (la realtà, il linguaggio, la zona intermedia fra i due precedenti)? In realtà nessun concetto da solo obbliga a pensare in un modo piuttosto che in un altro. Piuttosto, il significato del concetto V mette in gioco la differenza e la relazione tra fatti e discorsi (nel senso sopra indicato), nel senso che quando tu dici 'è vero' entri automaticamente in una struttura di quel genere. Ma tu puoi benissimo usare V anche senza postulare la libreria con i due scaffali 'fatti' e 'discorsi'. Possiamo mettere la questione così: perché 'costui mi ha dato un pugno' sia vero deve esistere (essere esistito) qualcosa che lo rende tale, e questa è l'unica necessità a cui ci vincola l'uso sensato di V, poi non è necessario stabilire come sia fatto il fatto che ha reso vero l'enunciato, e se sia un fatto-fatto, o un fatto-discorso, o un fatto-interpretazione. Per esempio: 'esiste la radice di due' è un enunciato vero, anche se la radice di due come tale non sta nello scaffale fatti (inteso nel senso nietzscheano).
Spero di aver chiarito. Un saluto e a presto F

PS in realtà la questione non è "quanti mondi?" ma piuttosto "che cosa c'è?", e più in particolare: "ci sono le cose che sembrano non esistere?". A questo riguardo, a me piace abbastanza la soluzione di Graham Priest (Towards Non-Being): ci sono tutti gli oggetti, in tutti i mondi, salvo che alcuni oggetti esistono solo in alcuni mondi.

C'è un solo mondo? (lettera aperta a Franca D'Agostini)



Cara Franca,

tu dici: "V è un predicato di enunciati dichiarativi, o proposizioni (o credenze) dunque non di 'fatti', né di oggetti o entità di vario tipo" (p. 101).
Ma le proposizioni non sono fatti?

Sono d'accordo con te che il concetto di verità, inaggirabile e importantissimo, ci costringe a considerare realtà e linguaggio come piani ontologici distinti. Ma sono veramente distinti?

Tu dici: "con V non parlo solo del linguaggio, ma anche del mondo, e anzi postulo una zona intermedia fra l'uno e l'altro, che è appunto la zona in cui si colloca l'invisibile proprietà V". (pp. 315-316)
Ma il linguaggio non è comunque una parte del mondo? Una proposizione è un fatto che ha la capacità di rappresentare altri fatti, tant'è che il linguaggio può rappresentare se stesso! Con le parole posso parlare delle parole stesse. La situazione sembra essere dunque che c'è la realtà, nella quale esistono alcune sue parti (i soggetti, con il loro linguaggio) che possono riflettere e rappresentare altre sue parti o anche se stesse.

Wittgenstein, nel Tractatus:
2.1 Noi ci facciamo immagini dei fatti
2.12 L'immagine è un modello della realtà
2.141 L'immagine è un fatto.
2.16 Il fatto, per essere immagine, deve avere qualcosa in comune con il raffigurato.
2.18 Ciò che ogni immagine, di qualunque forma essa sia, deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare - correttamente o falsamente - è la forma logica, cioè la forma della realtà.
2.181 Se la forma della raffigurazione è la forma logica, l'immagine si chiama l'immagine logica.
2.182 Ogni immagine è anche un'immagine logica. (Invece, ad esempio, non ogni immagine è un'immagine spaziale.)
2.21 L'immagine concorda con la realtà o no; essa è corretta o scorretta, vera o falsa.
3. L'immagine logica dei fatti è il pensiero.
3.1 Nella proposizione il pensiero si esprime sensibilmente.
3.12 Il segno mediante il quale esprimiamo il pensiero, lo chiamo il segno proposizionale. E la proposizione è il segno proposizionale nella sua relazione di proiezione al mondo.
3.14 Il segno proposizionale consiste nell'essere i suoi elementi, le parole, in una determinata relazione l'uno all'altro. Il segno proposizionale è un fatto.

E' in fondo l'antica questione "Platone vs Aristotele": Aristotele sostiene che c'è un solo mondo, contro Platone che aveva sostenuto l'esistenza di (almeno) due mondi separati: il mondo delle idee e il mondo sensibile.
Il problema metafisico delle teorie che sostengono l'esistenza di più mondi (2, 3 o più) è: cosa esattamente li separa? Coesistono in uno "spazio" comune? Come possono, se non coesistono, essere collegati, in rapporto? (Lo stesso problema si pone in Kant, se interpretiamo "regime fenomenico" e "regime noumenico" come mondi distinti.)
E' molto più semplice pensare a un solo mondo, nel quale coesistono enti anche molto diversi fra loro, che intrattengono rapporti di vario genere. Per esempio ci sono cose che trasformano altre cose in se stesse (gli esseri viventi attraverso il metabolismo), e cose che producono altre cose le quali hanno il potere di rappresentare altre cose ancora o se stesse (gli uomini che parlano o scrivono).
Tu potrai dirmi: ma perché la realtà dev'essere semplice? Chi ci dice che non sia complicata?
Io però riformulo la questione così: è molto più semplice pensare a un solo mondo o è semplicemente più vero che esiste un solo mondo?

Dobbiamo porci le questioni metafisiche come questioni di verità, non come questioni di gusti.

E' proprio vero che il concetto di verità ci obbliga a pensare che esistano più mondi? (la realtà, il linguaggio, la zona intermedia fra i due precedenti)

Con affetto e stima

Giulio

1 giugno 2011

Un "nuovo inizio" della verità, per la rinascita della filosofia






E' in libreria il nuovo libro di Franca D'Agostini!
E' una specie di "summa" (con carattere sistematico, ripartito in quattro:  semantica, logica, epistemologia, pratica) delle tesi della filosofa, che intende rilanciare alla grande una concezione realistica della verità: "p è vera se e solo se le cose stanno così".
D'Agostini riconosce che "c'è una supermetafisica dietro a V.  (...) Non potremmo usare la funzione-verità se non potessimo concepire la grande semplificazione da cui proviene e a cui è legata l'idea di un mondo separato dall'esperienza umana. Questa semplificazione richiede che si fermi la realtà, l'essere, per farlo diventare eternamente il correlato dei nostri enunciati V; richiede che si isolino nel flusso degli eventi reali i fatti correlati agli enunciati; richiede che si considerino realtà e linguaggio come piani ontologici distinti, e capaci di fronteggiarsi e correlarsi."

Proprio sulla base di questo riconoscimento il libro contiene anche un forte invito ai filosofi contemporanei a tornare a pronunciarsi sulla realtà, perché la rinuncia a farlo non è stata la scomparsa della metafisica, bensì "la persistenza ostinata e implicita di una sua versione antica, settecentesca. Dunque il punto è che la metafisica, ossia la nostra concezione di 'fatto' e 'realtà', è rimasta molto indietro: al Settecento, o forse all'Ottocento, mentre alla luce delle nuove evidenze della scienza e della vita forse abbiamo altri 'fatti' con cui fare i conti. (...) ampliate la vostra ontologia, rendete duttile la vostra logica, e non avrete più molte ragioni di scetticismo riguardo alla verità." L'autrice, ricercando la radice delle questioni epistemologiche che hanno portato a questo blocco della riflessione metafisica propone una interpretazione corretta ed equilibrata della filosofia di Kant, vista come un semicostruzionismo derivante dalla volontà di combinare realismo ed empirismo. In questa luce la cosa in sé va intesa solo come indipendenza della realtà, non come sua inaccessibilità: "ci sono cose che non sappiamo/non vediamo (...) allora la tesi dell'in sé equivale a una ragionevole tesi di non-onniscienza: non sappiamo tutto (...)." ma "l'in sé non è inaccessibile".

Nel libro vengono affrontate tutte le questioni importanti riguardo a scetticismo, nichilismo, relativismo (si discute e si argomenta sulla verità delle proposizioni normative). C'è una pagina magistrale sul famoso aforisma di Nietzsche "non ci sono fatti, solo interpretazioni": D'Agostini, in un dialogo virtuale con Nietzsche, gli risponde "è un fatto che non esistono fatti? Se non lo è, come mai dici che le cose stanno così? Inoltre, posto che non sia un fatto bensì un'interpretazione, è un fatto che è un'interpretazione? (...) E' chiaro che non ci intendiamo: usiamo 'fatto' in modi diversi. Più precisamente: io uso 'fatto' in modo mobile e leggero, per riferirmi a una qualsiasi occorrenza, evento, o azione e situazione. Nietzsche usa 'fatto' in modo molto pesante, presumibilmente per riferirsi a fattualità dure, nude e crude. Ma attenzione: io non ho preso nessuna decisione riguardo a come sono fatti i fatti: potrebbero essere interpretazioni o sciami di microparticelle, oggetti del senso comune o astrazioni. Invece si direbbe che Nietzsche abbia già preso questa decisione (se no non direbbe che 'non esistono') Visibilmente, Nietzsche usa qui una metafisica (una concezione della realtà) molto restrittiva, ed è nella luce di questa metafisica che preferisce i fatti-interpretazioni ai fatti-fatti. (...) occorre una metafisica per sbarazzarsi della metafisica".
E più sotto prosegue: "la 'rinuncia' alla metafisica è in verità l'adesione a una metafisica dogmatica, non problematizzata. E più propriamente (...) questa metafisica non problematizzata è (...) un kantismo interpretato in senso iperempirista, con relativo svilimento del realismo, e potenziale deriva costruzionista". Occorre quindi tornare a occuparsi attivamente di metafisica, cercando di portare alla luce quali nuove concezioni della realtà siano adeguate ai risultati odierni delle scienze e agli sviluppi recenti delle vicende umane.

Nell'ultima parte del libro D'Agostini si occupa dell'uso di "vero" nella sfera pubblica e nella vita individuale, proponendo una raffinata analisi di alcuni aspetti cruciali della realtà contemporanea, mostrando come la verità sia un'arma scettica contro i dogmatismi e gli autoritarismi, spiegando come l'epoca del nichilismo sia davvero finita con lo sviluppo dell'informatizzazione: "Nell'epoca che stava avvicinandosi al trionfo della democrazia, e dunque alla valorizzazione della libertà degli individui, usciti dallo 'stato di minorità', si registrava una sproporzione oggettiva tra gli strumenti individuali di reperimento delle informazioni e il cumulo di conoscenze che i settori specializzati andavano producendo. Proprio questa sfasatura a un certo punto si chiamò 'nichilismo', o comunque costituì un fattore di decisiva importanza nell'incoraggiare le tendenze nichilistiche della cultura moderna. (...) Qualcosa però cambiava, verso la metà del secolo successivo (...). A partire dal 1955 (data convenzionale di inizio della società 'informatizzata'), con lento processo, la sfasatura tra le facoltà individuali di reperimento delle informazioni e la complessità dei saperi specializzati iniziava a ridursi. (...) Sul Web c'è di tutto, e tutto risulta vero, e non c'è modo di segnalare come falso quel che è falso (...) ma sappiamo anche che da qualche parte il vero c'è (visto che c'è tutto, o quasi), e possiamo fare una grande quantità di confronti incrociati per reperirlo. (...) tutti hanno (potrebbero-dovrebbero avere) diritti, facoltà e risorse per mettere in discussione ciò che si presenta come vero".

Un'introduzione alla verità che vuol essere anche un invito a fare ancora filosofia in senso pieno, forte, socratico, come "democrazia della ragione".

7 marzo 2011

Roberta De Monticelli contro lo scetticismo etico



Nel suo libro La questione morale (Raffaello Cortina Editore) Roberta De Monticelli definisce lo scetticismo etico "la convinzione che non esista verità o falsità in materia di giudizio di valore, e non esista di conseguenza oggettività alcuna in materia di giudizio pratico". Espressioni di tale scetticismo sono le "neosofistiche del XX secolo", tra cui elenca soggettivismo, relativismo e nichilismo.

L'autrice ritiene che tale posizione sia maggioritaria nel pensiero filosofico attuale, ma che vada combattuta. "Combattere lo scetticismo pratico è difendere la serietà della nostra esperienza morale. E' difendere la tesi che (...) la nostra esperienza anche in campo morale è fallibile, sì, ma proprio perché è aperta al vero. (...) Tali sono, se capaci di resistere al vaglio critico, i nostri sdegni e la nostra collera, i nostri rimorsi e i nostri rimpianti, la nostra ammirazione e il nostro disprezzo, la nostra gratitudine e la nostra speranza. Non sono cose vane, 'qualia' soggettivi, sensazioni o stati d'animo senza ragione reale. Nulla appare invano - anche quando ad apparire è un torto, una viltà, un'ingiustizia, un gesto servile - se ciò che appare resiste al vaglio critico, si mostra essere quello che appariva."

Parlando del malcostume italiano, che secondo l'autrice ha radici profonde (l'analisi parte dalle anti-virtù sostenute da Guicciardini nei Ricordi - servilismo, doppiezza, familismo, diffidenza, furbizia, disprezzo verso il prossimo...), individua in una battuta di Fabrizio Corona, "Basta apparire", la quintessenza della nuova situazione immorale italiana. L'indifferenza al crimine: "le arti della servitù (Franza o Spagna purché se magna) non si mettono affatto in opera per difendersi dal potere, ma per parteciparvi. I servi diventano padroni senza smettere di fare i servi.". La novità di oggi, in Italia, rispetto alla situazione cinqucentesca, è "nel modo in cui si occulta l'ingiustizia costitutiva che sta nell'impiego di risorse pubbliche a vantaggio di interessi 'particulari'. (...) Il nuovo statuto della menzogna è l'indifferenza assoluta a ogni prova del contrario: la forza di persuasione del falso, basata esclusivamente sulla sua ripetizione e sulla soppressione delle voci contrarie. (...) Se basta apparire, tutto appare invano: l'apparire non ha niente a che vedere con l'essere, non lo vela né lo svela, non lo manifesta né lo cela. Non c'è alcun essere dietro l'apparire, alcuna realtà, alcun modo in cui le cose stanno in verità."

Nella tensione fra questo "tutto appare invano" e il precedente "nulla appare invano" sta il cuore del discorso della De Monticelli, tenendo conto anche del fatto che l'autrice, in un altro scritto, pone la frase "Nulla appare invano" come principio ispiratore della fenomenologia. (La fenomenologia come metodo di ricerca filosofica e la sua attualità, reperibile nel web)

Proprio da Husserl, il padre della fenomenologia, prende le mosse la terza parte del saggio La questione morale, la sua pars construens: Husserl che concepì fin dal suo primo corso come docente "quello che molti ignorano essere stato il vero progetto di tutta la sua vita: riuscire a confutare lo scetticismo pratico." 

Dei valori, sostiene l'autrice, facciamo esperienza: "Chiameremo "valori" una varietà infinita di qualità caratterizzate da due tratti: la polarità (positiva o negativa) e il grado comparativo (inferiore-superiore). Non c'è che da alzare gli occhi e gettare uno sguardo intorno a sé per incontrarne a piacere. La dolcezza delle colline toscane che vedo da questa finestra, lo splendore del cielo d'estate, la freschezza di questo vinello giovane, la volgarità del linguaggio patibolare catturato dalle registrazioni giudiziarie, l'onestà di quel comportamento, la bassezza intrinseca di ogni adulazione, la bellezza di questo dipinto, l'interesse di questa scoperta, l'ingiustizia di questa legge, la sublimità di quella preghiera."
I valori sono quindi la nostra esperienza dei fatti, i fatti vissuti, sentiti. Su questa base fattuale-esperienziale è possibile fondare una ricerca del vero anche in ambito morale.



Grande fascino e grande capacità di cogliere l'attualità con gli occhi della filosofia nel libro della De Monticelli, che consiglio a tutti.