Ancora una volta mi riallaccio a una parte del lavoro di Franca D'Agostini, che come ben sanno i lettori di questo blog è da anni un punto di riferimento costante nel mio pensiero (ma altri punti sono già presenti da tempo - Gianni Vattimo, Giovanni Piana, Alfredo Civita, G. H. von Wright - e verso altri mi sono affacciato pur non essendomene ancora impadronito - Robert Nozick, Achille Varzi, Francesco Berto, Andrea Borghini, Mauro Dorato... - ).
Si tratta della conclusione di Analitici e continentali (Raffaello Cortina, prima ed. 1997, Parte seconda, cap. 5, sez. 13 e 14). Occupandosi nella parte finale del libro della "nuova epistemologia", D'Agostini ricostruisce da ultimo la "teoria della complessità" e riflette poi sul senso di queste esperienze teoriche, culminate nel lavoro di Edgar Morin (in Italia sviluppate da G. Bocchi e M. Ceruti).
Scrive: "Quel che è soprattutto rilevante nello sviluppo del punto di vista cibernetico-sistemico verso la complessità è il crearsi di una specifica configurazione di pensiero per l'interpretazione dei processi di conoscenza, e dei rapporti tra i saperi. Una configurazione che da un lato ripercorre le vie già tracciate dalla tradizione di stampo idealistico-trascendentale e fenomenologico-ermeneutico, dall'altro offre il modo di capire le ragioni e la plausibilità "scientifica" di tali percorsi. In altre parole, nella prospettiva della complessità alcune soluzioni "continentali", tradizionalmente "filosofiche", trovano una conferma scientifica, e al tempo stesso, all'interno di un'ottica esasperatamente "scientistica" (...) maturano conclusioni filosofiche."
Dopo avere sintetizzato alcune posizioni e tesi di Edgar Morin, D'Agostini continua: "Il "metasistema" aperto riflessivo e critico, capace di autotrascendimento, descritto da Morin è in realtà facilmente identificabile in quel genere letterario-argomentativo che la nostra tradizione chiama "filosofia". (...) "la" filosofia sembra precisamente provvista di tutti quei requisiti che Morin e i teorici della complessità richiedono a una "nuova" epistemologia. La stessa "duplice" logica che più o meno dichiaratamente governa i sistemi complessi non è che un'integrazione delle due principali opzioni che si sono storicamente presentate nella logica filosofica (continentale) dopo Hegel: la dialettica (il principio "dialogico", la reciproca implicazione, ovvero anche la logica del conflitto), e la differenza (la dispersività non integrabile in un disegno unitario, il gioco della casualità nella necessità, e viceversa, l'irriducibiltià del caso nella "dinamica caotica")."
D'Agostini, col tratto caratteristico del suo pensiero, che tende a unire le differenti prospettive in qualcosa di unitario (guidata dalla tesi che la verità è unica), ri-attualizza la filosofia classica e contemporaneamente radica nel passato della grande tradizione filosofica le più recenti riflessioni epistemologiche. In questa prospettiva diventano fondamentali alcune "competenze filosofiche" che vanno valorizzate e coltivate: nel testo (sez. 14, "Conclusioni") D'Agostini richiama un libro di Luciano Gallino, L'incerta alleanza, (Einaudi 1993) secondo il quale occorre che si sviluppino didatticamente certe abilità "sistemico-pragmatiche, perché ciascuno specialista possa mantenere intatta la capacità di attraversare i confini tra un gran numero di scienze e discipline diverse".
I filosofi di oggi sono posti di fronte al problema di dover riflettere su una quantità di saperi non riconducibili a semplici leggi, e la complessità dei saperi e dei loro rapporti riflette la complessità della realtà, l'interconnessione tra le parti e la totalità del reale che rende i saperi aperti e incompleti.
Ciò richiede una particolare competenza, che definirei in questo modo: l'essere specialisti della non-specializzazione. Ma questa particolare competenza non è richiesta ai filosofi solo oggi, perché oggi la quantità di conoscenze è enormemente cresciuta rispetto al passato: era richiesta ai filosofi fin dal principio.
Aristotele, nel Quarto libro della Metafisica, parla della scienza dell'essere in quanto essere come della scienza specifica del non-specifico (così ricostruisce il discorso Franca D'Agostini), in altri termini una scienza trasversale su tutte le altre scienze. Questo perché l'essere è il concetto più generale possibile, e in qualche modo tutto è, anche ciò che non esiste.
La capacità di rintracciare princìpi trasversali, e di far derivare da questi anche orientamenti pratici, pur rispettando le differenze fra le diverse prospettive conoscitivo-pratiche, è la capacità che i filosofi, e chi pratica un atteggiamento filosofico di fronte alla complessità (sia culturale sia geopolitica), coltivano da secoli e possono-devono riproporre oggi.
Ma oggi, ancor più che in passato, la filosofia si trova in difficoltà rispetto a questo compito tradizionale perché anche in filosofia è arrivata la specializzazione, sia nel senso della divisione in "scuole", "correnti", sia nel senso della divisione in settori, o "discipline filosofiche" (logica, etica, ontologia, estetica eccetera).
Uno dei modi per venirne fuori, come indica Diego Marconi nel suo recente Il mestiere di pensare (Einaudi 2014) è di fare, per i bravi filosofi, ogni tanto un po' di buona divulgazione, per uscire dal campo delle ricerche specialistiche e rivolgersi a un pubblico più ampio, affrontando temi che si possano collegare all'attualità.
Al di là del problema della specializzazione, secondo me, c'è un altro problema che rende difficile la coltivazione di questa vocazione originaria della filosofia come scienza specifica del non specifico. Per essere tale, infatti, la filosofia dovrebbe avere un carattere unitario, essere un discorso unico, portato avanti da tanti singoli pensatori, ciascuno con il suo contributo. Ma c'è una tendenza interna alla filosofia (che è sempre stata, come aveva già diagnosticato Kant a proposito della crisi della metafisica nel suo tempo) a svilupparsi in modo frammentato, come un arcipelago nel quale ciascun filosofo occupa un'isola dalla quale poi a volte dialoga con altri, ma per lo più guerreggia con altri. E la cosa più triste avviene quando un filosofo critica un altro (e la critica, se razionale e costruttiva, è un legittimo strumento della filosofia, anzi fondamentale strumento di confronto fra filosofi) e chi viene criticato tace, non risponde, mostrando totale indifferenza alla critica che gli è stata mossa. Questa tecnica del silenzio, del non raccogliere le sfide facendo finta di ignorarle o di fatto tacciandole di insignificanza attraverso il non rispondere, è quanto di peggio può accadere in filosofia. Infatti la conseguenza di questo atteggiamento, se fosse adottato da tutti, sarebbe l'immagine della filosofia come un campo composto da tante isole (alcune deserte, altre stracolme di "seguaci") che non avrebbe mai la forza di imporsi nel dibattito pubblico sulle grandi questioni che sono di fronte all'umanità.
Forse la tendenza allo sviluppo frammentato è una conseguenza del fatto che la filosofia si può praticare con mezzi poverissimi (non richiede strumenti costosi, basta la conoscenza dei testi e l'uso della propria ragione per elaborare i problemi) e quindi non costringe i filosofi all'organizzazione collettiva della ricerca. Ho l'impressione che i filosofi tendano a praticare la ricerca in solitudine, e che questa tendenza finisca per essere negativa rispetto alla vocazione originaria della filosofia.
La conoscenza del lavoro altrui e l'interazione razionale fra prospettive diverse di ricerca (lavori di ricezione-critica sul lavoro altrui e conseguenti risposte) sono il pane quotidiano di cui dovrebbero nutrirsi i filosofi, oltre che della continua curiosità verso i risultati più rilevanti delle altre discipline (scientifiche e artistiche).
Un esempio, seppur in forma ancora molto embrionale e rozza, di quello che dovrebbe essere la discussione inter-filosofica, cioè fra filosofi che interloquiscano partendo da punti di vista anche molto diversi fra di loro, è quello che talvolta è riuscito a fare Gad Lerner con la trasmissione L'INFEDELE:
https://t.co/zmpXNuWLpu
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