29 settembre 2009

Gradazioni di senso


Nel Tempo ritrovato, l'ultimo volume della Recherche, il Narratore capisce improvvisamente come può iniziare a scrivere, capisce come può trasformare la sua stessa vita in arte, o meglio capisce come i momenti più significativi e intensi della propria vita possano diventare arte trasformandosi in immagini, in narrazione densa di pensiero. Contemporaneamente Proust sta anche quindi "svelando" il procedimento con cui ha costruito la Recherche.
A questo proposito Elio Franzini, in Arte e mondi possibili. Estetica e interpretazione da Leibniz a Klee, scrive: "(...) solo gli storicisti e i narcisisti credono che tutto il tempo che si è vissuto sia 'vero'
- autentico e sensato - solo perché lo si è vissuto. (...) Proust vuol dire, pur nel dolore che questo comporta, che non tutto ciò che si vive ha un senso: ha un senso ciò che dura, ciò che sa attraversare il tempo, ciò che sa recuperare il tempo.".

Proviamo a riflettere sulla differenza di significato delle seguenti proposizioni:

(1) Tutta la nostra esperienza ha un senso

(2) Non tutta la nostra esperienza ha un senso.

Si potrebbe dire che sono vere entrambe, ma che fra le due avviene uno slittamento del significato del concetto di SENSO. La (1) ha a che fare con il principio di ragione sufficiente: dice che c'è un livello di base nel quale ogni cosa che facciamo, che viviamo, che ci capita, ha uno o più motivi, ragioni (o fini) e ce l'ha anche se questi ci sfuggono o non dipendono da noi.
Ma a questo livello non è possibile distinguere un'esperienza da un'altra, non è possibile fare differenze di valore tra esperienze diverse, quindi non è possibile spiegare, ad esempio, perché scegliamo un'esperienza piuttosto che un'altra.
La (2) intende invece mettere in evidenza proprio le differenze di valore tra le esperienze.

Una mediazione fra la (1) e la (2):

(3) Alcune esperienze hanno più senso di altre.

Il SENSO, quindi, non sarebbe qualcosa che si può semplicemente avere o non avere, ma ammetterebbe gradazioni, sfumature.

Cfr. il post, in ottobre 2008, Ontologia come valorizzazione

28 settembre 2009

Tempestosità delle note ribattute: Scarlatti (ancora!): sonate K141 e K455



Cosa succede se un compositore inserisce nelle linee melodiche dei segmenti nei quali ripete più volte la stessa nota?
L’effetto è simile a quello di un martello… quindi comunica forza, decisione, tenacia...
E se a questo si associa la velocità?
Ascoltate e guardate questa sonata di Scarlatti, la K455, in una versione molto particolare curata da Stephen Malinowski


In un’altra sonata, la K141, la ripetizione di una stessa nota a grande velocità è utilizzata fin dal principio. Tutta la sonata mette in evidenza il carattere percussivo della tastiera, e l’effetto tempestoso è accentuato dall’inserimento di sezioni dove la ripetizione martellante parte dalla regione grave dello strumento per poi spostarsi gradualmente, come in una cavalcata, verso la regione media, con incursioni saltellanti fra l’acuto e il grave. Ve la propongo in una versione recente nella quale Martha Argerich, con l’aria di una vecchia volpe, attacca improvvisamente a suonare, quando ancora gli applausi per il suo ingresso in sala non si sono del tutto spenti, con una velocità sorprendente (che lascia però intravedere abbastanza chiaramente la struttura del pezzo):
Una versione per clavicembalo nella quale è ben evidenziato l’aspetto ritmico (in sestine) è la seguente, di Aline d'Ambricourt: http://www.youtube.com/watch?v=HLuYLN_k4lA. Altra versione per pianoforte, ma più lenta e con sottolineature molto diverse da quella della Argerich, è quella di Gilels http://www.youtube.com/watch?v=sZVwrYDCbCA. Un’ interpretazione molto percussiva, ma per clavicembalo, è quella di Rousset: http://www.youtube.com/watch?v=KdF_S57fyK8. In un altro video possiamo sentire e vedere sulla stessa sonata una Argerich giovane e focosa (ci sono differenze soprattutto nel finale, rispetto alla versione recente che ho proposto poco sopra): http://www.youtube.com/watch?v=PcsRl_LIJHA

18 settembre 2009

Importanza dell'interpretazione: la sonata K 27 di Scarlatti (aggiornamento 26/10/ 2023)


Ho raccolto undici versioni della stessa sonata.
Domanda difficile: la vera sonata, quella che aveva in mente Scarlatti quando l'ha scritta, esiste? Potremo mai ascoltarla?
Le ho ordinate per durata, dalla più breve alla più lunga.
La prima, la più corta, è talmente veloce che finisce per essere confusa e non intellegibile (anche perché il pianista vuole strafare con la velocità e ci infila qualche sbavatura): decisamente non ci siamo! (Anzi, se non conoscete già la sonata in questione vi consiglio di ascoltare prima la versione successiva, quella di Michelangeli, per non rovinarvi l'impressione originaria, che è sempre importante...)
 Jack Gibbons minuti: 2.00
La seconda è una versione celeberrima, di Benedetti Michelangeli (minuti: 2.47):
Per me è la versione "originaria", la prima che ho ascoltato e che mi ha dato l'imprinting. Per molto tempo, per me, esisteva solo quella versione, nel senso che non ne conoscevo altre. E' sempre molto veloce, come vedete è al secondo posto in ordine di durata, ma qui siamo su un livello eccelso per uniformità di timbro e chiarezza.
La versione successiva ( Annarita Santagada: 3.03) ha qualcosa di buono, ma giudicate voi stessi: http://www.youtube.com/watch?v=IBDhSszbqig
Debargue (3.06) fa dei rallentati espressivi che mi piacciono, però a tratti corre un po' troppo, secondo me.
Versione live del grande clavicembalista Scott Ross (3.22): a parte la differenza data dal clavicembalo rispetto al pianoforte, il tempo è qui più lento e quindi tutto è più "meditato", pur mantenendo una buona scorrevolezza. Questa interpretazione marca una differenza sostanziale rispetto a quella di Michelangeli... sembrano quasi due sonate diverse, sono come due "cose" diverse.
(Una versione non live sempre di  Scott Ross dura 4.22: più pulita e di qualità migliore come registrazione, e ancora più "meditata"...)
Segue una versione estremamente interessante, di un giovanissimo pianista, Edoardo Ciccimarra: 3.33. Cosa strana: complessivamente dura qualche secondo di più della versione live di Scott Ross, ma ascoltandola sembra un'esecuzione più veloce. Com'è possibile? Il trucco sta nel fatto che Ciccimarra usa velocità diverse all'interno della stessa esecuzione, usando la velocità (i rallentandi immprovvisi o le impennate) come strumento espressivo. E' una versione molto densa emotivamente e l'espressività non mi pare tradisca la chiarezza, anzi sottolinea meglio la struttura del pezzo. Notevolissimo!!! 
http://www.youtube.com/watch?v=VA0-XpjoUus [purtroppo in seguito il video è stato rimosso e non è più rintracciabile... Perché?? (chiedo a Edoardo)]
Segue una versione per pianoforte piuttosto lenta, meditata, ma con un bel tocco vellutato... le note si sgranano fluidamente e con grande limpidezza: Mark Swartzentruber ( 3.47)
Per curiosità inserisco anche una versione per chitarra, interessante ma imprecisa e "ridotta", di Jennifer Kim. (la durata complessiva non è confrontabile perché l'esecuzione non è completa).
Versione di Murray Perahia (3.51): usa troppo pedale, secondo me, ma la tenuta espressiva c'è.
La versione di Benjamin Åberg (4.16) è un po' sulla scia di Ross, comunque dignitosissima e con abbellimenti (stessa versione, animata da Smalin, per chi ama "vedere"...)
Andrei Andreev (4.46): anche lui fa delle variazioni di velocità con intenti espressivi, a volte rallenta esageratamente, ma è una versione appassionata.
Infine una versione lentissima, esageratamente lenta, dove secondo me con l'intento di dare una versione analitica e intensa si finisce per "sfasciare" l'efficacia emozionale del pezzo (un po' lo stesso difetto, ma per motivi opposti, della prima versione velocissima...): è la versione di Gilels : 4.55 minuti

Chi preferire fra tutti? Confesso che l'interpretazione di Ciccimarra mi ha conquistato... ma sono ben consapevole che non è un'interpretazione che tende all'oggettività (le variazioni di velocità non sono scritte nella partitura...), del resto forse il bello è proprio qui, forse la verità dell'interpretazione sta proprio nel modo di "tradire" il testo per arrivare a ciò che sta "dietro": la struttura, le emozioni, le immagini. Si ripropongono allora le questioni che ho sollevato all'inizio...

P.S. la sonata si trova anche nella colonna sonora (ritorna più volte nel corso del film) di Racconto di Natale del regista Arnaud Desplechin (Un conte de Noël. durata 150 min. – Francia 2008), dove compare in due diverse interpretazioni: una di Marcela Roggeri e una di Scott Ross.

17 settembre 2009

Un volto non "umanizzabile"

Qui, di fronte a quest'immagine, non riesco a dire che espressione abbia questa faccia (come invece posso fare per l'aquilotto di un post precedente): è troppo diversa dall'umano per poter essere interpretata... non è una "faccia"! Posso dire che l'ape "non ha un volto"?
E' una forma di vita già un po' troppo diversa da noi per poterle attribuire uno stato d'animo.
E' sicuramente viva, appartiene alla natura. Allora qualcosa in comune con noi ci deve essere. Cosa abbiamo in comune?

7 settembre 2009

Baricco come filosofo: appunti su "I barbari"

Non so quanta risonanza abbia avuto nell'ambiente filosofico questo testo, uscito per la prima volta a puntate su "la Repubblica" nel 2006, ma certamente merita attenzione da parte dei filosofi (e degli insegnanti, di filosofia ma non solo) per vari motivi, innanzitutto la capacità di pensare il proprio tempo e comunicare questi pensieri in modo accessibile al lettore di media cultura. Baricco stesso è consapevole della valenza filosofica dei suoi ragionamenti: "Lo so" dice a pagina 92 dell'edizione Feltrinelli "che l'ermeneutica novecentesca ha già prefigurato, in maniera molto sofisticata, un paesaggio del genere. Ma adesso che lo vedo diventato operativo in Google, nel gesto quotidiano di miliardi di persone, capisco forse per la prima volta quanto esso, preso sul serio, comporti una reale mutazione collettiva, non un semplice aggiustamento del sentire comune". Non è mia intenzione, qui, riassumere l'articolazione del libro. Non spiegherò quindi cosa c'entra Google, così come tutti gli altri esempi concreti che Baricco fa per sostenere il suo discorso (il vino, il calcio, i libri...). La tesi fondamentale di Baricco è che nel Novecento, a un certo punto, scatta un mutamento epocale nel modo di fare esperienza, nel modo di intendere e dare senso all'esistenza. C'è un prima e c'è un poi, rispetto a questo mutamento epocale: il prima lo chiama "civiltà" e il poi "barbarie", ma avrebbe potuto benissimo usare anche altri termini. Il prima, la "civiltà", di cui si occupa Baricco è l'epoca che parte con l'Umanesimo e si compie col Romanticismo (la modernità). Là regnava l'idea che capire e sapere volessero dire "entrare in profondità in ciò che studiamo, fino a raggiungerne l'essenza". L'essere, il valore, lo si cercava in ciò che era eterno, permanente, perfetto, e fare ciò richiedeva tempi lunghi, fatica, pazienza, tenacia, un percorso selettivo di crescita spirituale. Poi, a un certo punto, succede che ci si rende conto che "la sproporzione fra il livello di profondità da attingere e la quantitità di senso raggiungibile è diventata clamorosamente assurda (...) La mutazione barbara scocca nell'istante di lucidità in cui qualcuno si è accorto di questo: se effettivamente scelgo di dedicare tutto il tempo necessario a scendere fino al cuore della Nona (di Beethoven), è difficile che mi resti del tempo per qualsiasi altra cosa: e, per quanto la Nona sia un giacimento immenso di senso, da sola non ne produce in quantità sufficiente alla sopravvivenza dell'individuo." Si passa così al modo "barbaro" di intendere il valore, il senso, l'essere: superficie invece che profondità, movimento invece che permanenza, slittare velocemente sulla superficie delle cose mirando a una traiettoria che colga il senso nel rapporto fra le cose, negli eventi, nelle sequenze, nelle storie... Meno verità in cambio di più comunicazione. "Viaggi al posto di immersioni, gioco al posto di sofferenza". Per molti, oggi, "il sapere che conta è quello in grado di entrare in sequenza con tutti gli altri saperi". "Abitare più zone possibili con un'attenzione abbastanza bassa è quello che evidentemente loro (i barbari) intendono per esperienza." Certo viene in mente la leggerezza di cui ha tanto parlato Vattimo, l'indebolimento del pensiero che deve secondo lui corrispondere all'indebolimento dell'essere stesso (l'essere come evento di cui ha parlato Heidegger), ma vengono anche in mente la leggerezza e la velocità che Calvino metteva a fuoco come valori del prossimo millennio nelle Lezioni americane. E' cambiata, quindi, l'idea di cosa è importante e di cosa non lo è. Il problema però, dice Baricco, è che noi ci troviamo in un momento nel quale i due modi di intendere il senso e il valore delle cose, quello "vecchio" e quello "nuovo", coesistono: "siamo in bilico tra due visioni del mondo, e tendiamo ad applicarle, simultaneamente, tutt'e due. Da una parte conserviamo ancora tiepido il ricordo di quando il senso delle cose era concesso a chi avesse la purezza e il rigore di risalire il corso del tempo, e di accostarsi al luogo della loro origine. Dall'altra sappiamo ormai bene che esiste solo ciò che incrocia le nostre traiettorie, e spesso esiste solo in quel momento". Emblematico di questa condizione doppia è il binomio scuola (civiltà)/televisione (barbarie), una schizofrenia che gli adolescenti vivono quotidianamente. "E in mezzo, tra televisione e scuola, c'è tutto il campo aperto della cultura e dell'entertainment (...). Tramandare la civiltà o convertirsi alla barbarie?" Baricco propone una sensatissima via di mezzo che potremmo sintetizzare dicendo tramandare barbaricamente la civiltà o convertirsi civilmente alla barbarie. Un nocciolo ideale che può germogliare in molte direzioni sia per quanto riguarda la politica culturale sia il mondo della formazione in generale. Una riflessione critica, a questo punto, posso permettermi di avanzarla. Il mutamento epocale che Baricco descrive, e che pare corrispondere alla heideggeriana "fine dell'epoca metafisica", viene da lui descritto con delle coppie concettuali: profondità/superficie, verticale/orizzontale, gravità/giocosità, eternità/mutamento, essere/divenire, identità/differenza... Queste opposizioni, in fondo, non si sono già presentate più volte nel corso della storia del pensiero? Non corrispondono, in qualche modo, alle coppie Parmenide/Eraclito, Platone/Aristotele, metafisica(razionalismo)/empirismo? Questo non per dire "nulla di nuovo sotto il sole", ma per dire che probabilmente la tradizione filosofica può fornire gli strumenti migliori per pensare questa condizione contemporanea così ben descritta da Baricco. E per dire anche che forse le grandi ricostruzioni nietzscheane e heideggeriane (per non dire severiniane...) della tradizione filosofica (che riducono tutta la storia della filosofia ad un unico denominatore comune) sono semplificazioni eccessive che oscurano la ricchezza e la complessità storica del pensiero occidentale. Altra considerazione è che non a caso la filosofia gode oggi, a quanto si dice, di una ripresa di interesse: si tratta infatti di una disciplina che allena e forma la capacità di collegare, "unificare"-generalizzare, semplificare, tradurre, mostrare la sequenza. In altri termini la filosofia ha una vocazione "barbarica" per il suo cavalcare sull'onda dei saperi senza la pretesa di scendere nella profondità di ciascuno ma cogliendo trame, percorsi, sensi, nessi, tenendo conto contemporaneamente di più punti di vista possibili. Al tempo stesso ha una vocazione "civile" perché aiuta a riportare ciascun sapere al suo fondamento, aiuta a ritrovare la sua origine.