9 luglio 2016

Vittorio Del Tatto: L'evoluzione prima della vita. Dinamiche comuni del mondo organico e inorganico




Pubblico la "tesina" di Vittorio Del Tatto, studente che ha superato quest'anno l'Esame di Stato al liceo scientifico dell'Istituto d'Istruzione Superiore "Salvador Allende" di Milano con pieni voti e lode. Motivo di questa pubblicazione è il valore che ritengo abbia il suo lavoro, anche come esempio del livello di eccellenza che possono raggiungere gli studenti italiani delle scuole superiori.
    Sarà mia cura comunicare a Vittorio gli eventuali commenti, domande o richieste che attraverso il blog il suo testo susciterà nei lettori.

SCARICA QUI  la tesina

















La formazione dei polimeri biologici
Le molecole la cui formazione è stata maggiormente discussa sono sicuramente gli acidi nucleici e le proteine.
Nel caso degli acidi nucleici, il meccanismo che si è riuscito a individuare dopo molti anni di ipotesi è di una semplicità sconcertante. Nella formazione dei nucleotidi a partire da nucleosidi, formammide e minerali fosfato, si è osservato che molti prodotti erano sotto forma di isomeri ciclici, più stabili, se presi singolarmente, degli altri isomeri aperti. In particolare, si è notata una grande quantità di isomeri 3’,5’- monofosfati ciclici. Questi isomeri restano stabili se isolati, ma in presenza di altre copie uguali tendono a interagire tra di loro, prima formando una strutturazione ordinata e poi, in tempi più o meno brevi a seconda del calore esterno, favorendo una loro reazione di polimerizzazione, fino a produrre in modo del tutto abiotico le prime molecole di materiale genetico. Questo meccanismo è a tal punto spontaneo (il tutto avviene infatti per una semplice tensione verso una forma più stabile e meno reattiva) da essere stato definito di generazione spontanea.
Per spiegare la formazione delle proteine, catene di amminoacidi tenuti uniti da legami peptidici, sono state invece avanzate almeno due spiegazioni. La prima ricorre al ruolo già illustrato dei meteoriti: tra i tanti prodotti organici che si possono da essi ottenere vi sono anche una serie di agenti condensanti, ideali per la formazione del legame peptidico (che si forma appunto per condensazione, ovvero attraverso la liberazione di una molecola d’acqua). La seconda spiegazione pone invece al centro il vento solare che, come osservato nel 1999 durante una serie di esperimenti condotti nello spazio, sembrerebbe effettivamente in grado di formare legami peptidici tra alcune coppie di amminoacidi.
Ma perché i polimeri biologici sarebbero stati favoriti, alla lunga, rispetto ai monomeri? La risposta risiede in una semplice ragione di carattere termodinamico: i monomeri sono più instabili di quanto lo siano i polimeri. Una volta presenti nello stesso “brodo primordiale”, le molecole che sono “sopravvissute” più a lungo sono quelle che sono riuscite a legarsi tra loro in modo stabile. Poco importa se questi legami siano avvenuti in maniera del tutto spontanea, come nel caso degli acidi nucleici, o attraverso la mediazione di altre molecole, come nel caso delle proteine. Il risultato finale, infatti, è esattamente lo stesso:le molecole rimaste sono quelle darwinianamente più adatte. L’evoluzione in termini di adattamento e selezione naturale sarebbe dunque iniziata prima degli organismi: è un altro argomento che rende la distinzione tra il mondo organico e quello inorganico ancora più complessa.
L’evoluzione da molecole a cellule
Il passaggio chiave per la costituzione della cellula deve essere stata la costituzione delle membrane cellulari, necessarie per la non dispersione del materiale genetico e dunque per la distinzione di un ambiente self e di un ambiente non self. Le membrane delimitano un insieme circoscritto di strutture e reazioni i cui cambiamenti e adattamenti diventano così ereditabili. Tutte le membrane cellulari attuali sono costituite da un doppio strato di fosfolipidi, molecole anfipatiche dotate di una testa polare e dunque idrofila, cioè solubile in acqua, e delle code apolari costituite da acidi grassi idrofobici, cioè non solubili in acqua. Nel doppio strato le code sono sempre disposte verso la parte interna della membrana, mentre le teste sono disposte verso l’esterno (dato che sia l’ambiente esterno alla cellula sia quello interno sono generalmente ricchi di acqua).

 Nell’ambiente prebiotico, e in particolare nei mari, si ritiene che composti oleosi come i fosfolipidi fossero presenti in grande quantità. In soluzione si è osservato che questi composti formano spontaneamente una grande varietà di fasi aggregate, tra cui delle vescicole membranose a doppio strato, chiamate liposomi (figura a destra), che assomigliano molto alle cellule che conosciamo. In queste “bolle” si sarebbero potute introdurre le prime molecole organiche, libere di reagire tra di loro formando composti più complessi. In caso di dissoluzione della membrana, a causa di sollecitazioni meccaniche e del moto ondoso, le molecole avrebbero potuto riversarsi nell’ambiente esterno per poi essere catturate all’interno di nuove bolle in formazione.



Inoltre, l'acquisizione di una proteina all'interno del doppio strato fosfolipidico, fattore di maggiore stabilità della membrana, potrebbe aver offerto un vantaggio selettivo ad alcune bolle: le macromolecole in esse contenute avrebbero interagito per un periodo di tempo maggiore rispetto alle altre bolle, avendo dunque più possibilità di sintetizzare proteine e acidi nucleici più “adatti” all’ambiente. Anche la costituzione delle membrane cellulari, dunque, può essere spiegata come un meccanismo di generazione spontanea.

Il replicatore
Il discriminante tra ciò che intendiamo vita e ciò che per noi non lo è deve essere stata la formazione, in una grande varietà di reazioni messe in moto spontaneamente, di una molecola in grado di realizzare copie di se stessa: il replicatore. Si può pensare al replicatore come a una molecola le cui unità più semplici, disponibili in abbondanza nell’ambiente circostante, fossero dotate di una grande affinità per molecole uguali a sé stesse. Un’altra ipotesi è che ciascuna unità avesse affinità non per unità identiche a se stessa, ma in modo reciproco per unità di un particolare tipo diverso. In questo caso il replicatore avrebbe agito da stampo non per una copia identica ma per una specie di “negativo”, che a sua volta avrebbe ricreato la copia esatta del positivo originale. Poiché gli equivalenti moderni del primo replicatore – ovvero le molecole di DNA – usano una replicazione di questo tipo, in cui quattro nucleotidi si attraggono reciprocamente a coppie di due (adenina e timina formano due legami a idrogeno, mentre citosina e guanina ne formano tre), la seconda ipotesi è sicuramente la più plausibile.

La formazione del replicatore è un altro caso in cui è possibile parlare di meccanismi evolutivi darwiniani prima ancora che la vita si sia sviluppata. Infatti, se le spontanee sintesi prebiotiche hanno dato luogo alla formazione di decine di possibili composti purinici e pirimidinici simili tra loro e chimicamente imparentati, è soltanto la scelta delle proprietà di complementarietà e affinità reciproca il meccanismo che ha portato a costruire un mondo biologico codificato in A-T-C-G. Gli altri nucleotidi non avevano le caratteristiche giuste, forse anche di poco, e l’evoluzione li ha dimenticati.
La nascita del replicatore, inoltre, può aiutare a comprendere l’idea di emergenza. La capacità di duplicazione ci appare come una dinamica evolutiva nuova (in realtà ciò non è del tutto vero, dato che anche nel mondo inorganico esistono sistemi, come i cristalli, in grado di moltiplicarsi ripetutamente), ma secondo il principio di emergenza essa è in realtà il risultato di un particolare coordinamento di unità più semplici, i cui principi evolutivi, però, non variano in alcun modo. La capacità di replicazione, dunque, non è una proprietà in sé, che esula dalle dinamiche del resto della materia, ma è il prodotto di un particolare sistema in cui queste dinamiche operano.
L’ipotesi del mondo a RNA
Oggi si propende verso l’idea che il primo replicatore sia stato una molecola di RNA. Quest’idea è suffragata non solo dal fatto che l’RNA è effettivamente in grado di conservare l’informazione genetica al posto del DNA (si pensi, ad esempio, ai retrovirus), ma anche dall’osservazione delle sue notevoli capacità catalitiche: ancora oggi la formazione della struttura primaria delle proteine, all’interno dei ribosomi, è catalizzata da filamenti di RNA, i ribozimi. A ciò si aggiunge la recente scoperta di alcune sequenze di RNA,sintetizzate in laboratorio,dotate addirittura di proprietà autocatalitiche, ovvero in grado di duplicare se stesse. Tutte queste osservazioni inducono a pensare che l’RNA dovesse in origine ricoprire sia il ruolo che oggi possiedono gli enzimi proteici, sia la funzione dello stesso DNA.
Da RNA a DNA e proteine
La grande reattività dell’RNA, che avrebbe permesso di giungere casualmente al primo replicatore e di favorire la produzione di nuove molecole, ha però un lato negativo: l’instabilità. La chiave di questi due fattori è l’ossigeno nella posizione 2’ del ribosio (cioè lo zucchero presente nei nucleotidi dell’RNA), che porta a scindere e riformare legami con il fosforo, legato al carbonio in posizione 3’. Si vengono così a determinare autorotture, giunzioni con altre molecole, scambi di filamenti, e così via. Per questo motivo, il replicatore a RNA doveva compiere moltissimi errori nella copiatura di se stesso, e ciò è stato provato dai replicatori prodotti in laboratorio, in grado di replicarsi correttamente solo una volta su otto. Ciò permette di spiegare il passaggio da RNA a DNA in termini di stabilità acquisita: con la sola differenza di una base azotata (la timina al posto dell’uracile) e di un atomo in meno (cioè l’ossigeno che rende l’RNA così reattivo), il DNA risulta una molecola molto più stabile e meno attiva, dunque ben più adatta a conservare e trasmettere l’informazione ricevuta. Una spiegazione analoga vale per il passaggio da RNA a proteine: non solo più stabili, ma anche più specifiche e flessibili.

Le dinamiche comuni

Dai casi esemplificativi che si sono trattati è possibile individuare alcuni semplici principi che sembrerebbero valere allo stesso modo sia per l’evoluzione della materia organica sia per quella della materia inorganica:
  • Principio di stabilità
Qualsiasi mutamento è volto a raggiungere, in relazione all’ambiente in cui esso avviene, una condizione di maggiore stabilità. In altre parole ogni reazione avviene perché i prodotti risultano meno reattivi e soggetti a mutamenti rispetto ai reagenti: in ogni sistema soggetto a trasformazioni spontanee l’energia libera – che misura la capacità del sistema di compiere un lavoro –  subisce un decremento, fino al raggiungimento di una condizione di equilibrio. La legge darwiniana di “sopravvivenza del più adatto” potrebbe essere intesa come un caso speciale di una legge generale di sopravvivenza di ciò che è stabile, con la conseguente eliminazione (o riduzione in termini di quantità) di ciò che lo è meno. Una chiarissima sintesi di questo principio è data dalla parole di Victor Stenger, fisico e filosofo: «Qualcosa è uscito dal nulla perché era più stabile del nulla».
  • Dimensione storica dell’evoluzione
Le reazioni descritte dipendono dal principio di stabilità ma pur sempre in relazione all’ambiente in cui esse sono avvenute. Poiché l’ambiente cambia nel corso del tempo, sistemi nati perché più stabili di altri possono a loro volta divenire instabili, e dunque evolvere ulteriormente. Poiché sia l’ambiente cosmico sia quello terrestre hanno subito radicali cambiamenti nel corso del tempo, anche i corrispettivi stati di stabilità si sono evoluti: per questo motivo, reazioni avvenute un tempo non sono più attualmente osservabili. Da ciò deriva, in primo luogo, che la nozione di stabilità non è assoluta: ha senso parlare di sistemi stabili solo se si definiscono le condizioni in cui questi sistemi sono inseriti. Una seconda conseguenza di questo principio è che l’evoluzione, sia per la materia organica sia per quella inorganica, appare irreversibile: a meno che l’ambiente del passato non si ricomponga in tutte le sue variabili – il che è praticamente impossibile – le reazioni descritte non si verificheranno mai più spontaneamente.
  • Principio di direzionalità
Tutte le reazioni che si sono osservate vanno in un’unica direzione: dal semplice al complesso. Questo principio potrebbe sembrare in contraddizione con la seconda legge della termodinamica, perché potrebbe indurre a pensare a una tendenza verso l’ordine anziché verso il disordine. In realtà, il secondo principio della termodinamica dice solo che l’entropia di un sistema isolato tende ad aumentare nel tempo, ma non preclude la possibilità che in questo sistema si formino dei sottosistemi ordinati. Infatti, i prodotti delle reazioni illustrate sono in realtà dei sistemi aperti (in quanto coinvolti in continui scambi energetici con l’ambiente che li circonda), e il loro raggiungimento di una configurazione ordinata è sempre connessa a un’accelerazione entropica degli altri sottosistemi. Il raggiungimento locale dell’ordine implica un maggiore disordine altrove. Non a caso, molte delle reazioni illustrate sono esoergoniche, ovvero connesse a un rilascio di energia nell’ambiente.
Riflessioni conclusive

Dal parallelismo messo in luce si possono trarre delle importanti considerazioni, da intendersi più su un piano filosofico che prettamente biologico o fisico.

La continuità della materia
In primo luogo, la distinzione tra materia organica e inorganica potrebbe non essere così netta come la si intende comunemente. A sostegno di questa visione è utile riprendere il principio di chemiomimesi, secondo cui alcune vie metaboliche che osserviamo nelle cellule attuali sarebbero nate in un contesto del tutto abiotico, cioè in assenza di vita. Allo stesso, i meccanismi selettivi alla base dell’evoluzione darwiniana sono ormai attestati già nelle fasi precedenti all’origine della vita. La materia organica non sarebbe dunque diversa da quella inorganica, se non per un maggiore grado di complessità e varietà. Ma se la materia fosse effettivamente “continua”, cioè priva di distinzioni tra le sue parti (in quanto soggette alle stesse identiche leggi), come si può concepire in un quadro del genere l’esistenza della vita? O meglio, come si può pensare a un processo che dia il via a qualcosa di radicalmente nuovo e diverso, se il presupposto è che non vi sia stato alcun cambiamento profondo per garantire questa diversità? Si tratta di un problema irrisolto che crea non pochi dubbi: preso atto della continuità tra le dinamiche evolutive dei momenti immediatamente precedenti all’origine della vita e di quelli immediatamente successivi, una delle maggiori difficoltà sta proprio nell’individuare, nella catena di reazione chimiche che ancora si cerca di ricostruire, un limite netto tra vita e non vita.

Il problema della definizione di vita
Il problema è reso ancora più complesso dal fatto che, dopo più di duemila anni di riflessioni su questo tema, non esiste ancora una definizione di vita accettabile. Quella largamente accettata, proposta dalla NASA negli anni novanta, recita: “Life is a self-sustained chemical system capable of undergoing darwinian evolution” (la vita è un sistema chimico che si autosostiene in grado di essere sottoposto a evoluzione darwiniana). In realtà, ogni organismo vivente usa continuamente energia tratta in modo più o meno diretto dal Sole o dall’energia chimica di molecole formate altrove, provenienti al di fuori del sé vivente. Dire che la vita si auto sostenga, dunque, è piuttosto illogico. Inoltre, si è già visto come l’evoluzione darwiniana sembra essere iniziata prima della vita stessa. Esistono molte altre definizioni, ma ciascuna di esse insiste su alcune proprietà (ad esempio l’ordine, il metabolismo, la reazione a stimoli e la riproduzione) che si possono trovare in casi isolati anche nel mondo inorganico. E una sola eccezione, in questi casi, è sufficiente per mostrare l’infondatezza dell’intera definizione. Perché dunque risulta così difficile trovare una proprietà fisica specifica o un insieme di proprietà che separino nettamente i vivi dagli inanimati? Ferris Jabr propone una risposta molto controintuitiva: perché una proprietà simile non esiste. La vita potrebbe non essere una realtà concreta, ma piuttosto un concetto inventato dagli uomini, che avrebbero operato una suddivisione esistente solo nella loro mente. Non esiste una soglia passata la quale un insieme di atomi diventa improvvisamente vivo, e dunque non c'è alcuna distinzione categorica tra viventi e inanimati: se nonostante gli sforzi non si è riusciti a definire la vita, è perché forse non c’è mai stato nulla da definire. E’ una risposta che scardina le nostre credenze più radicate, ma gli argomenti a suo favore non sono pochi. In ogni caso, molti rifiutano questa risposta perché apparentemente costruita su un ragionamento sbagliato: se non si riesce a comprendere qualcosa, allora quel qualcosa non esiste. Ma quest’ultima considerazione non tiene conto del fatto che la vita è stata indagata in ogni sua minima parte, e le nostre conoscenze in questo campo sono oggi vastissime: non è dunque vero che la vita non è stata compresa, ma è più corretto dire che ciò che sappiamo di essa non combacia, da un punto di vista razionale, con l’idea che ne siamo fatti intuitivamente. Ma dobbiamo pur sempre tenere conto di un’eventualità, ovvero del fatto che la nostra conoscenza attuale possa non essere completa. La risposta più equilibrata, dunque, sembra essere quella di Carol Cleland, filosofa dell'Università del Colorado, secondo cui l'impulso di definire con precisione la vita sia sbagliato quanto negare la sua realtà fisica: «concludere che non vi è alcuna natura intrinseca della vita è altrettanto prematuro che definirla».

Il principio antropico
Al di là della dimensione speculativa, l’esistenza della vita ci appare come un dato empirico difficilmente scardinabile. Ha quindi senso partire da esso come se fosse un assioma e, tenendo conto della non distinzione netta tra materia organica e inorganica, trarne delle conseguenze senza arrivare a negarne l’esistenza.
L’accezione debole
Se lo sviluppo della materia organica è effettivamente soggetto alle stesse leggi che dominano il mondo inorganico, la vita può essere intesa non più come un unicum, una scintilla provvidenziale, ma come il proseguimento di dinamiche precedenti, radicate nel cosmo fin dalla sua origine. Non più un caso fortuito, inspiegabile e irripetibile, ma un processo probabile e naturale. In questo quadro, l’evoluzione darwiniana potrebbe essere considerata un caso specifico di una legge più generale alla base dei mutamenti di tutta la materia.
La concezione della vita in termini probabilistici ha la sua massima espressione in un principio formulato nel 1973 dal fisico australiano Brandon Carter, chiamato principio antropico. Nella sua enunciazione più semplice, esso appare di un’ovvietà sbalorditiva: “noi viviamo in un universo che di fatto permette la vita così come la conosciamo”. In realtà, il senso di ciò è tutt’altro che banale: in primo luogo, non si può intendere la vita come qualcosa le cui dinamiche esulino dal resto della materia. Inoltre, se effettivamente la vita esiste, ha senso pensare che la sua formazione sia stata più probabile della sua non formazione, così come quotidianamente osserviamo più avvenimenti comuni e “regolari” che casi fortuiti ed eccezionali. Si potrebbe dissentire da quest’idea per il semplice fatto che la nascita del replicatore, ovvero la prima molecola in grado di realizzare copie di se stessa, sembra il risultato di una combinazione molecolare a tal punto specifica, tra miliardi e miliardi di possibilità, da essere davvero un caso fortuito che si sarebbe potuto facilmente non verificare. In effetti, nei tempi e nelle misure che l’uomo è abituato a osservare, questo è sicuramente vero: si tratta di un evento altamente improbabile. Ma se si provano a immaginare i milioni (o miliardi) di anni che la natura ha avuto a disposizione e l’inquantificabile numero di molecole coinvolte, la questione cambia. È un concetto che Richard Dawkins, biologo britannico, esprime nella maniera più chiara possibile:
Nella vita di un uomo, cose che sono così improbabili possono essere considerate dal punto di vista pratico come impossibili. Questo spiega perché non vinceremo mai un mucchio di soldi al totocalcio. Ma nelle nostre stime umane di ciò che è probabile e di ciò che non lo è non siamo abituati a pensare in termini di centinaia di milioni di anni. Se giocassimo una schedina ogni settimana, per un centinaio di milioni di anni, faremmo probabilmente parecchi tredici.
Ma vi è un’altra possibile replica: la vita è apparsa sulla Terra, e il fatto che il nostro pianeta abbia una serie di parametri compatibili con lo sviluppo della vita non è affatto una cosa scontata e probabile. In effetti, se la Terra fosse solo il 5% più vicina gli oceani bollirebbero, se solo l’1% più lontana essi ghiaccerebbero. Lo stesso avverrebbe se la massa solare fosse di poco maggiore o minore. Inoltre, il nostro pianeta ha un’orbita intorno al Sole quasi circolare, con un’eccentricità minima (di solo il 2%), che sembra calcolata apposta per garantire un clima “vivibile”. Infatti un’eccentricità maggiore avrebbe comportato forti variazioni di distanza dal sole durante l’anno, per cui anche in questo caso nel momento di massima vicinanza (perielio) gli oceani sarebbero andati in ebollizione e in quello di massima lontananza (afelio) si sarebbero trasformati in immensi blocchi di ghiaccio. Ma bisogna osservare che non esiste solo la Terra: i pianeti della sola Via Lattea sono più di cento miliardi (se si fa una stima di un solo pianeta per stella) e il numero di galassie è inquantificabile. In uno spettro così ampio di possibilità, sarebbe strano se un pianeta con le caratteristiche della Terra non si fosse formato – non il contrario. Ciò è confermato dal fatto che le scoperte di esopianeti (cioè pianeti esterni al sistema solare) con caratteristiche simili alla Terra aumentano di anno in anno, e recenti studi stimano la presenza, nella nostra galassia, di circa 8,8 miliardi di pianeti analoghi al nostro.
L’accezione forte
Tutto ciò giustifica una formulazione del principio antropico ancora più “coraggiosa”. Non a caso si fa una distinzione tra il principio antropico debole, formulato nei termini già riportati e riconosciuto come valido da una buona parte della comunità scientifica, e il principio antropico forte, più controverso e discusso. Mentre l’accezione debole ha dei fondamenti razionali innegabili, la formulazione forte compie un “passo” non giustificabile da un punto di vista logico, e andrebbe dunque colta come una sorta di assunto metafisico, tanto suggestivo quanto non dimostrabile. Esso recita: “L’universo (e di conseguenza i parametri fondamentali che lo caratterizzano) deve essere tale da permettere alla vita di svilupparsi al suo interno a un certo punto della sua storia.”
In questa nuova concezione la vita non è più probabile ma necessaria, come se appartenesse alla trama stessa dell’universo: se essa non fosse una manifestazione obbligatoria delle proprietà combinatorie della materia, il suo naturale inizio sarebbe stato assolutamente impossibile. Il principio antropico forte è stato spesso criticato non solo perché lontano dalle nostre credenze più comuni, ma anche perché inteso in senso finalistico. Questa lettura, però, è sbagliata: il principio antropico forte non ci dice che la vita è un punto di arrivo (anche perché è davvero difficile pensare che prima o poi la vita non abbia fine), ma ci dice che essa è un passaggio inevitabile, così come lo è stato l’aggregazione di atomi per la formazione di corpi celesti e la costituzione, da parte di questi ultimi, delle galassie.
Ma parlare di necessità non sottrae alla vita la propria bellezza e unicità? Anche se molti ritengono di sì, il mio punto di vista è diametralmente opposto: credo che questa visione possa aiutarci a superare il nostro innato narcisismo per scoprire che la stessa bellezza e straordinarietà appartiene anche a tutto il resto.

Fonti

  • E. Di Mauro – R. Saladino, Dal Big Bang alla cellula madre – L’origine della vita, il Mulino, Bologna, 2016

  • R. Dawkins, Il gene egoista – La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori, Segrate (MI), 1976

  • https://www.cicap.org/n/articolo.php?id=200068 (Consultato: 13 giugno 2016)

  • http://www.scienzagiovane.unibo.it/letture/big-bang.html (Consultato: 9 giugno 2016)

  • http://www.cattolicanews.it/studi-e-ricerche-energia-entropia-e-complessita (Consultato: 12 giugno 2016)

  • http://www.istanze.unibo.it/oscar/vita/vita01.htm (Consultato: 14 giugno 2016)

  • http://www.scienzaeconoscenza.it/articolo/che-cosa-sono-i-quark.php (Consultato: 9 giugno 2016)

  • https://it.zenit.org/articles/dal-big-bang-al-principio-antropico-una-straordinaria-storia-universale/ (Consultato: 15 giugno 2016)