15 febbraio 2015

Modi della perfezione

Ripropongo un articolo di Franca D'Agostini uscito sul manifesto il 24 dicembre 2002. Contiene in nuce un importante tassello, sul versante della prassi individuale e collettiva, nella costellazione di pensieri che la filosofa torinese sta costruendo






La perfezione è di questa vita 
Un apologo medievale per ricordarci come l'annuncio della Buona Novella, che stanotte si celebra, dovrebbe comportare una rinnovata teoria della buona vita. E sebbene la nostra cultura difetti di ascesi, un legame di parentela lega gli antichi eremiti agli esteti tardo-moderni, devoti alla liturgia del jogging e della mela biologica: allora come ora, nulla si ottiene se non sacrificando se stessi al culto di se stessi
C'era una volta un eremita. Da più di venti anni viveva in una grotta alle soglie di una foresta. Rispettava gli animali e le piante, pregava Dio costantemente. Vicino alla grotta scorreva un ruscello, e ogni giorno, all'ora del pranzo, sull'acqua del ruscello arrivava galleggiando una mela. L'eremita la sbucciava, gettava le bucce nel torrente e la mangiava. E questo era il suo unico pasto. Passò molto tempo così. L'eremita sapeva che la sua vita era perfetta, e la sua vicinanza a Dio era sicura. Ma un giorno, chissà perché, fu preso dall'incertezza. Si svegliò, bevve l'acqua del ruscello e nell'alba gelida si inginocchiò a pregare sui sassi. Per quanto si sforzasse, però, non riusciva a pregare: non riusciva a creare nella sua mente il vuoto e il silenzio necessari perché vi entrassero l'immagine e la voce di Dio. I suoi occhi erano pieni di immagini, la sua mente era affollata di parole. Cominciò a sentire il calore del primo raggio di sole sul viso. Si gettò a terra, e ancora le immagini e le voci affollavano il suo pensiero e non riusciva a pensare a Dio. Dopo aver trascorso così le ore del mattino, si mise in viaggio. Camminò e camminò. All'imbrunire giunse in una radura dove viveva un altro eremita, proprio come lui. Questo eremita lo accolse con gioia e gli spiegò che amava Dio con tutte le sue forze, e tutto il giorno aveva il privilegio di dialogare con lui. Non aveva bisogno di nulla, disse, eppure Dio nella sua infinita e misteriosa misericordia gli dava un dono ogni giorno: ogni giorno sull'acqua del ruscello gli mandava le bucce e il torsolo di una mela, e questo era il suo cibo, in tutta la giornata. Il primo eremita non rispose, e si avviò in silenzio verso la città. Il secondo eremita non capì, e per tutta la notte si tormentò chiedendosi come avesse potuto offendere il suo fratello. Ma la mattina dopo, l'infinita misericordia di Dio lo consolò mandandogli sull'acqua del ruscello una mela intera. Non è un racconto di Natale, ma spiega in sintesi tutto quel che ci si può aspettare da una teoria della buona vita, o meglio della vita perfetta. D'altra parte, il Natale dovrebbe essere l'annuncio rinnovato della Buona Novella, e la Buona Novella dovrebbe comportare una nuova teoria della buona vita, della perfezione nel vivere. La consuetudine del buon proposito natalizio, anzi, è forse uno dei pochi elementi di coerenza delle attuali celebrazioni: perché il cristianesimo è stato, almeno su questo piano, una grande rivoluzione antropologica (purtroppo incompiuta: soprattutto nella sua richiesta di pace e fratellanza). Dunque vale forse la pena approfondire minimamente la questione: che cosa può essere ancora per noi una buona vita, o, se fosse possibile, una vita perfetta?
I medievali, che raccontavano l'exemplum dei due eremiti (in una forma non molto diversa da questa), lo intendevano come una illustrazione di quanto l'autocompiacimento e l'orgoglio possano recare danno alle conquiste dello spirito. Ma forse non sono l'orgoglio e la vuota vanagloria del primo eremita, a colpirci, nel racconto, quanto il ritornare di quella mela sulle acque del torrente, che riapre le condizioni dell'errore. L'idea che ci scoraggia, è l'idea che la perfezione sia un concetto vuoto, infinito, e negativo, ossia, in altre parole: la perfezione non si soddisfa di sé, e non ci può essere perfezione nella vita che sia anche perfezione nella coscienza.
La narrazione ci dice che una vita perfetta non è tale senza umiltà, ma l'umiltà è la considerazione della propria imperfezione, dunque un secondo insegnamento, più sottile, è che a una vita perfetta occorrerà non essere davvero perfetta, oppure - per dirla in termini dialettici - a una simile vita occorrerà disfarsi della coscienza della propria perfezione, per essere perfetta realmente. Sembra infatti che l'elemento di disturbo, nella santità quotidiana del primo eremita, sia stato l'aver preso coscienza della propria vicinanza a Dio, mentre la superiorità del secondo eremita risalta emblematicamente grazie alla sua incantata e cieca considerazione di Dio. Così troviamo un altro classico insegnamento: la perfezione nella vita sta nel distogliere lo sguardo da se stessi. La perfezione, in altri termini, non potrà essere perfettamente consapevole.
Abbiamo allora una prima soluzione: il secondo eremita sarà esente dall'errore - ancorché meno asceticamente perfetto dell'eventuale successivo eremita, collocato più avanti, lungo il corso del torrente - se e in quanto resterà immune dell'infezione della coscienza di sé. Ma non è vero forse che la perfezione non è di questo mondo? Non è vero forse che Dio - il Dio del Cristianesimo - non chiede la perfezione, ma l'abbandono alla grazia, e che questo vuole dirci il racconto? In un mondo in cui c'è gente che pensa al martirio come il segno di una vita perfetta, e perfettamente compiuta; gente che sventuratamente ha qualche ragione storica e culturale per immaginare tali perfezioni, forse non ci si può accontentare di questo. E conviene ricordare che la tradizione ha snaturato il concetto cristiano di perfezione, esaltandone il momento generico (ama et fac quod vis), e dimenticandone l'esattezza, paradossale, ma inequivocabile. Anzitutto, la perfezione, se non altro nella sua domanda o nel suo problema, deve poter essere di questo mondo (se no non si capisce di quale mondo dovrebbe essere: quale parametro di perfezione potrà darsi in un altrove, se mai eterno infinito e già compiuto? Perché, in un simile altrove, dovrebbe porsi il problema della perfezione?) E a questo scopo, la tradizione filosofica ha elaborato a lungo idee di perfezione meno spaventose, e adattabilissime agli umani: l'idea della perfezione nel proprio genere, o secondo lo scopo, o come compiutezza, o completezza ontologica (un essere tanto più reale quanto più perfetto).
Solo apparentemente stravagante era la tesi di Leibniz: che la perfezione consistesse nell'arte della brevità, nella capacità di scoprire pochi pensieri entro i quali racchiudere tutti i pensieri possibili. L'argomento leibniziano era più o meno questo, e si sarà sorpresi nel vedere quanto ci è vicino. La felicità, anzi la somma felicità dell'uomo consiste nell'essere perfetto, e "nella sua perfezione accresciuta quanto più è possibile", ci dice Leibniz; ora la perfezione è una specie di sovrappiù di salute. "Come la malattia consiste in una lesione delle nostre facoltà, così la perfezione consiste nell'aumento della potenza".
Ma c'è da prestare attenzione a questo passaggio. Nietzsche, afflitto da una madre salutista, interpretava il precetto letteralmente, o comunque in una chiave e con intonazioni sospette di socialdarwinismo. L'idea di Leibniz però nascondeva una precisazione: la facoltà che è in gioco in ogni disquisire sulla malattia e la salute è in verità il pensiero. I criteri di valutazione della salute umana non sono la forza e la prestanza del corpo, ma la "vis cogitandi".
Diligentemente Leibniz ci spiega che per accrescere la vis cogitandi abbiamo rimedi fisici, che agiscono direttamente sui nostri organi, e "per mezzo dei quali si scaccia il torpore, si rinsalda l'immaginazione, e si acuiscono i sensi". Ma non basta: abbiamo anche rimedi che agiscono direttamente sulla mente, e tali rimedi "consistono in certi modi di pensare, per mezzo dei quali si rendono più agevoli altri pensieri". E tra tutti, una specie di miracoloso allucinogeno del pensiero è ciò che chiameremmo una terapia abbreviativa: "il massimo rimedio per la mente consiste nella possibilità di scoprire pochi pensieri dai quali scaturiscano in ordine altri infiniti pensieri".
Forse si trattava di sposare troppo prontamente la causa dell'intelletto, e come ogni ipotesi iperbolica anche questa idea leibniziana di perfezione (peraltro elaborata in un frammento incompiuto, De Organo sive arte magna cogitandi), ha molti punti deboli ed eccepibili. Come si concilia il precetto di accrescere la vis cogitandi, con quello di diminuire la forza della coscienza, allo scopo di ottenere una più adeguata perfezione del vivere? Qui la grande tradizione dell'anti-intellettualismo esulta: a quanto sembra, è un eccesso di vis cogitandi che contamina la vita dello spirito; la dialettica della perfezione infatti, esposta in sintesi nel racconto dei due eremiti, ci dice che non c'è perfezione umana che debba-possa essere coscientemente completa, pena il ricadere nel sommamente imperfetto; dunque gli avvocati dell'intelletto, e della forza del pensiero, si contraddicono miseramente.
Ma la difficoltà è minima, e aggirabile senza sforzo, se si ricorda che quel che in Leibniz è puro intelletto, diventerà ragione in Hegel: e la differenza tra il primo e la seconda, è che il primo resta fermo alla perfezione come dato di un pensiero singolo, di una sola vita, di un singolo corpo; la seconda, invece, è l'idea che sola mancava al cristianesimo per diventare filosofia, ossia l'idea che in gioco non è mai la perfezione di un singolo, di un solo pensiero, ma piuttosto di un insieme che va in ogni epoca costituendosi. Solo rispetto alla ragione come insieme dei pensieri possibili si dà perfezione, e forza (o eventualmente debolezza) del pensiero. Il giovane Hegel, nella Vita di Gesù, fresco di colloqui rivoluzionari e teologici con Hölderlin, rileggerà tutto il Vangelo, sistematicamente sostituendo ragione tutte le volte che si parlava di anima, o di scintilla divina.
Allora è vero che la coscienza individuale della propria individuale perfezione contamina e snatura la perfezione stessa, rendendola imperfetta: ma questa coscienza, ossia questa visione di sé come individui isolati, migliori o peggiori degli altri singoli individui, non è pensiero. Quando il valore degli altri spaventa, come accade all'eremita che incontra il secondo eremita, è perché si guarda ad essi dal punto di vista di quel che il giovane Hegel scopre essere il Maligno: il volto di Dio, colto nello spavento e nella solitudine senza Dio, ovvero: nella chiusura dell'individualità "orgogliosa" non psicologicamente, ma nella sua costituzione spirituale.
Al di là di questo, che è ancora in gran parte nelle nostre speranze (ed è molto lontano da questa fase della storia dell'occidente), una connessione inaspettata tra l'intellettualismo di Leibniz e la vicenda dei due eremiti è ciò che rende le due visioni di una vita perfetta per noi immediatamente emblematiche.
Si tratta di un'idea di semplificazione, di riduzione di complessità. L'ars brevis, o meglio la terapia della semplificazione, è ciò che sistematicamente insegue la vita complicata dell'occidente tardo-moderno. Leibniz ci dice: trovate il modo di individuare pochi pensieri sufficientemente ampi da pensare insieme ad essi la totalità dei pensieri possibili. Un consiglio apparentemente ingenuo, ma che ha ancora molto da dirci. È innegabile infatti che l'idea di complessità, vantato principio anti-riduzionistico degli anni Sessanta, non ha più alcuna forza eversiva e innovativa, essendo diventata un fatto delle strutture e delle istituzioni. Una scienza ipercomplessa fronteggia oggi disarmati individui alla perenne ricerca di strategie di semplificazione. Al tempo stesso, l'universo ci risulta enormemente ridotto nei tempi e nei modi, le lingue e i pensieri globalizzati hanno dismesso ogni differenza e intensità. Infine, paradossalmente, i profeti della semplicità oggi sono coloro che detengono e orientano la produzione di sovrappiù. Insomma, sappiamo che c'è un dissesto, nella nostra cultura e nella nostra vita, e che tale dissesto riguarda proprio il gioco dinamico del semplice e del complesso, dei pochi pensieri che racchiudono infiniti pensieri (come non ricordare che proprio la logica, erede dell'ars brevis, ossia della mnemotecnica medievale, è all'origine di quella esplosione economico-commerciale e culturale che è il mondo informatizzato), delle troppe cose che circondano vite alla disperata ricerca (più o meno consapevole) di qualche semplicità da eremiti medievali.
E arriviamo così all'ultimo passo di questo percorso. C'è evidentemente un difetto di ascesi nella nostra cultura, ma sarebbe sbagliato contrapporre le grotte e le foreste del medioevo agli eccessi del presente consumistico. Al contrario, non è difficile in fondo vedere nel primo eremita la versione antica e nobile di un perfezionismo da esteti tardo-moderni, di quell'anoressia metropolitana che incomincia con il jogging in central park, e con la mela - biologica - sbocconcellata prima di andare al lavoro, ripuliti dalla pratica devozionale di doccia-e-ginnastica. Anche l'esteta tardo-moderno sa che nulla si ottiene, nello spirito e nel portafoglio, se non si sacrifica se stessi al culto di se stessi. Anche un simile esteta valuterà scoraggiato, prima o dopo, la liturgia delle proprie scarpe da ginnastica. Certo, gli eremiti contemporanei vivono in isole costruite all'interno delle città; non ci sarà un altrove in cui fuggire, per consumare lo sconforto del proprio fallimento, e difficilmente ci sarà la provvidenza enigmatica del torrente. Le vite in questione, più che afflitte dalla coscienza di sé, restano ancora troppo stipate di cose, anche soltanto per vedere o avvertire la propria inquietudine.
Ma si dovrebbe leggere il racconto, credo, per quel che ci è prossimo, e non per la sua distanza. In particolare, bisognerebbe leggerlo come un richiamo alla verità violata della nostra cultura, che è sorta narrativamente dalla divinizzazione del povero e del poco, e logicamente dal paradosso diventato regola e verità (il Dio fatto uomo, la redenzione della carne, la vita che ritorna dalla morte, e infine i due grandi ossimori del cristianesimo: la gloria della croce, e il potere dell'amore), salvo poi prontamente dimenticare l'una e l'altro, la povertà e il paradosso, che, rispettivamente, costituivano il suo mythos e il suo logos. La storia dei due eremiti potrà apparire allora come la storia di due vite perfette, tanto la prima quanto la seconda: la prima, per quello a cui rinuncia, e la seconda per la sfida che la aspetta.