16 giugno 2011

C'è un solo mondo? (lettera aperta a Franca D'Agostini)



Cara Franca,

tu dici: "V è un predicato di enunciati dichiarativi, o proposizioni (o credenze) dunque non di 'fatti', né di oggetti o entità di vario tipo" (p. 101).
Ma le proposizioni non sono fatti?

Sono d'accordo con te che il concetto di verità, inaggirabile e importantissimo, ci costringe a considerare realtà e linguaggio come piani ontologici distinti. Ma sono veramente distinti?

Tu dici: "con V non parlo solo del linguaggio, ma anche del mondo, e anzi postulo una zona intermedia fra l'uno e l'altro, che è appunto la zona in cui si colloca l'invisibile proprietà V". (pp. 315-316)
Ma il linguaggio non è comunque una parte del mondo? Una proposizione è un fatto che ha la capacità di rappresentare altri fatti, tant'è che il linguaggio può rappresentare se stesso! Con le parole posso parlare delle parole stesse. La situazione sembra essere dunque che c'è la realtà, nella quale esistono alcune sue parti (i soggetti, con il loro linguaggio) che possono riflettere e rappresentare altre sue parti o anche se stesse.

Wittgenstein, nel Tractatus:
2.1 Noi ci facciamo immagini dei fatti
2.12 L'immagine è un modello della realtà
2.141 L'immagine è un fatto.
2.16 Il fatto, per essere immagine, deve avere qualcosa in comune con il raffigurato.
2.18 Ciò che ogni immagine, di qualunque forma essa sia, deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare - correttamente o falsamente - è la forma logica, cioè la forma della realtà.
2.181 Se la forma della raffigurazione è la forma logica, l'immagine si chiama l'immagine logica.
2.182 Ogni immagine è anche un'immagine logica. (Invece, ad esempio, non ogni immagine è un'immagine spaziale.)
2.21 L'immagine concorda con la realtà o no; essa è corretta o scorretta, vera o falsa.
3. L'immagine logica dei fatti è il pensiero.
3.1 Nella proposizione il pensiero si esprime sensibilmente.
3.12 Il segno mediante il quale esprimiamo il pensiero, lo chiamo il segno proposizionale. E la proposizione è il segno proposizionale nella sua relazione di proiezione al mondo.
3.14 Il segno proposizionale consiste nell'essere i suoi elementi, le parole, in una determinata relazione l'uno all'altro. Il segno proposizionale è un fatto.

E' in fondo l'antica questione "Platone vs Aristotele": Aristotele sostiene che c'è un solo mondo, contro Platone che aveva sostenuto l'esistenza di (almeno) due mondi separati: il mondo delle idee e il mondo sensibile.
Il problema metafisico delle teorie che sostengono l'esistenza di più mondi (2, 3 o più) è: cosa esattamente li separa? Coesistono in uno "spazio" comune? Come possono, se non coesistono, essere collegati, in rapporto? (Lo stesso problema si pone in Kant, se interpretiamo "regime fenomenico" e "regime noumenico" come mondi distinti.)
E' molto più semplice pensare a un solo mondo, nel quale coesistono enti anche molto diversi fra loro, che intrattengono rapporti di vario genere. Per esempio ci sono cose che trasformano altre cose in se stesse (gli esseri viventi attraverso il metabolismo), e cose che producono altre cose le quali hanno il potere di rappresentare altre cose ancora o se stesse (gli uomini che parlano o scrivono).
Tu potrai dirmi: ma perché la realtà dev'essere semplice? Chi ci dice che non sia complicata?
Io però riformulo la questione così: è molto più semplice pensare a un solo mondo o è semplicemente più vero che esiste un solo mondo?

Dobbiamo porci le questioni metafisiche come questioni di verità, non come questioni di gusti.

E' proprio vero che il concetto di verità ci obbliga a pensare che esistano più mondi? (la realtà, il linguaggio, la zona intermedia fra i due precedenti)

Con affetto e stima

Giulio

1 giugno 2011

Un "nuovo inizio" della verità, per la rinascita della filosofia






E' in libreria il nuovo libro di Franca D'Agostini!
E' una specie di "summa" (con carattere sistematico, ripartito in quattro:  semantica, logica, epistemologia, pratica) delle tesi della filosofa, che intende rilanciare alla grande una concezione realistica della verità: "p è vera se e solo se le cose stanno così".
D'Agostini riconosce che "c'è una supermetafisica dietro a V.  (...) Non potremmo usare la funzione-verità se non potessimo concepire la grande semplificazione da cui proviene e a cui è legata l'idea di un mondo separato dall'esperienza umana. Questa semplificazione richiede che si fermi la realtà, l'essere, per farlo diventare eternamente il correlato dei nostri enunciati V; richiede che si isolino nel flusso degli eventi reali i fatti correlati agli enunciati; richiede che si considerino realtà e linguaggio come piani ontologici distinti, e capaci di fronteggiarsi e correlarsi."

Proprio sulla base di questo riconoscimento il libro contiene anche un forte invito ai filosofi contemporanei a tornare a pronunciarsi sulla realtà, perché la rinuncia a farlo non è stata la scomparsa della metafisica, bensì "la persistenza ostinata e implicita di una sua versione antica, settecentesca. Dunque il punto è che la metafisica, ossia la nostra concezione di 'fatto' e 'realtà', è rimasta molto indietro: al Settecento, o forse all'Ottocento, mentre alla luce delle nuove evidenze della scienza e della vita forse abbiamo altri 'fatti' con cui fare i conti. (...) ampliate la vostra ontologia, rendete duttile la vostra logica, e non avrete più molte ragioni di scetticismo riguardo alla verità." L'autrice, ricercando la radice delle questioni epistemologiche che hanno portato a questo blocco della riflessione metafisica propone una interpretazione corretta ed equilibrata della filosofia di Kant, vista come un semicostruzionismo derivante dalla volontà di combinare realismo ed empirismo. In questa luce la cosa in sé va intesa solo come indipendenza della realtà, non come sua inaccessibilità: "ci sono cose che non sappiamo/non vediamo (...) allora la tesi dell'in sé equivale a una ragionevole tesi di non-onniscienza: non sappiamo tutto (...)." ma "l'in sé non è inaccessibile".

Nel libro vengono affrontate tutte le questioni importanti riguardo a scetticismo, nichilismo, relativismo (si discute e si argomenta sulla verità delle proposizioni normative). C'è una pagina magistrale sul famoso aforisma di Nietzsche "non ci sono fatti, solo interpretazioni": D'Agostini, in un dialogo virtuale con Nietzsche, gli risponde "è un fatto che non esistono fatti? Se non lo è, come mai dici che le cose stanno così? Inoltre, posto che non sia un fatto bensì un'interpretazione, è un fatto che è un'interpretazione? (...) E' chiaro che non ci intendiamo: usiamo 'fatto' in modi diversi. Più precisamente: io uso 'fatto' in modo mobile e leggero, per riferirmi a una qualsiasi occorrenza, evento, o azione e situazione. Nietzsche usa 'fatto' in modo molto pesante, presumibilmente per riferirsi a fattualità dure, nude e crude. Ma attenzione: io non ho preso nessuna decisione riguardo a come sono fatti i fatti: potrebbero essere interpretazioni o sciami di microparticelle, oggetti del senso comune o astrazioni. Invece si direbbe che Nietzsche abbia già preso questa decisione (se no non direbbe che 'non esistono') Visibilmente, Nietzsche usa qui una metafisica (una concezione della realtà) molto restrittiva, ed è nella luce di questa metafisica che preferisce i fatti-interpretazioni ai fatti-fatti. (...) occorre una metafisica per sbarazzarsi della metafisica".
E più sotto prosegue: "la 'rinuncia' alla metafisica è in verità l'adesione a una metafisica dogmatica, non problematizzata. E più propriamente (...) questa metafisica non problematizzata è (...) un kantismo interpretato in senso iperempirista, con relativo svilimento del realismo, e potenziale deriva costruzionista". Occorre quindi tornare a occuparsi attivamente di metafisica, cercando di portare alla luce quali nuove concezioni della realtà siano adeguate ai risultati odierni delle scienze e agli sviluppi recenti delle vicende umane.

Nell'ultima parte del libro D'Agostini si occupa dell'uso di "vero" nella sfera pubblica e nella vita individuale, proponendo una raffinata analisi di alcuni aspetti cruciali della realtà contemporanea, mostrando come la verità sia un'arma scettica contro i dogmatismi e gli autoritarismi, spiegando come l'epoca del nichilismo sia davvero finita con lo sviluppo dell'informatizzazione: "Nell'epoca che stava avvicinandosi al trionfo della democrazia, e dunque alla valorizzazione della libertà degli individui, usciti dallo 'stato di minorità', si registrava una sproporzione oggettiva tra gli strumenti individuali di reperimento delle informazioni e il cumulo di conoscenze che i settori specializzati andavano producendo. Proprio questa sfasatura a un certo punto si chiamò 'nichilismo', o comunque costituì un fattore di decisiva importanza nell'incoraggiare le tendenze nichilistiche della cultura moderna. (...) Qualcosa però cambiava, verso la metà del secolo successivo (...). A partire dal 1955 (data convenzionale di inizio della società 'informatizzata'), con lento processo, la sfasatura tra le facoltà individuali di reperimento delle informazioni e la complessità dei saperi specializzati iniziava a ridursi. (...) Sul Web c'è di tutto, e tutto risulta vero, e non c'è modo di segnalare come falso quel che è falso (...) ma sappiamo anche che da qualche parte il vero c'è (visto che c'è tutto, o quasi), e possiamo fare una grande quantità di confronti incrociati per reperirlo. (...) tutti hanno (potrebbero-dovrebbero avere) diritti, facoltà e risorse per mettere in discussione ciò che si presenta come vero".

Un'introduzione alla verità che vuol essere anche un invito a fare ancora filosofia in senso pieno, forte, socratico, come "democrazia della ragione".

7 marzo 2011

Roberta De Monticelli contro lo scetticismo etico



Nel suo libro La questione morale (Raffaello Cortina Editore) Roberta De Monticelli definisce lo scetticismo etico "la convinzione che non esista verità o falsità in materia di giudizio di valore, e non esista di conseguenza oggettività alcuna in materia di giudizio pratico". Espressioni di tale scetticismo sono le "neosofistiche del XX secolo", tra cui elenca soggettivismo, relativismo e nichilismo.

L'autrice ritiene che tale posizione sia maggioritaria nel pensiero filosofico attuale, ma che vada combattuta. "Combattere lo scetticismo pratico è difendere la serietà della nostra esperienza morale. E' difendere la tesi che (...) la nostra esperienza anche in campo morale è fallibile, sì, ma proprio perché è aperta al vero. (...) Tali sono, se capaci di resistere al vaglio critico, i nostri sdegni e la nostra collera, i nostri rimorsi e i nostri rimpianti, la nostra ammirazione e il nostro disprezzo, la nostra gratitudine e la nostra speranza. Non sono cose vane, 'qualia' soggettivi, sensazioni o stati d'animo senza ragione reale. Nulla appare invano - anche quando ad apparire è un torto, una viltà, un'ingiustizia, un gesto servile - se ciò che appare resiste al vaglio critico, si mostra essere quello che appariva."

Parlando del malcostume italiano, che secondo l'autrice ha radici profonde (l'analisi parte dalle anti-virtù sostenute da Guicciardini nei Ricordi - servilismo, doppiezza, familismo, diffidenza, furbizia, disprezzo verso il prossimo...), individua in una battuta di Fabrizio Corona, "Basta apparire", la quintessenza della nuova situazione immorale italiana. L'indifferenza al crimine: "le arti della servitù (Franza o Spagna purché se magna) non si mettono affatto in opera per difendersi dal potere, ma per parteciparvi. I servi diventano padroni senza smettere di fare i servi.". La novità di oggi, in Italia, rispetto alla situazione cinqucentesca, è "nel modo in cui si occulta l'ingiustizia costitutiva che sta nell'impiego di risorse pubbliche a vantaggio di interessi 'particulari'. (...) Il nuovo statuto della menzogna è l'indifferenza assoluta a ogni prova del contrario: la forza di persuasione del falso, basata esclusivamente sulla sua ripetizione e sulla soppressione delle voci contrarie. (...) Se basta apparire, tutto appare invano: l'apparire non ha niente a che vedere con l'essere, non lo vela né lo svela, non lo manifesta né lo cela. Non c'è alcun essere dietro l'apparire, alcuna realtà, alcun modo in cui le cose stanno in verità."

Nella tensione fra questo "tutto appare invano" e il precedente "nulla appare invano" sta il cuore del discorso della De Monticelli, tenendo conto anche del fatto che l'autrice, in un altro scritto, pone la frase "Nulla appare invano" come principio ispiratore della fenomenologia. (La fenomenologia come metodo di ricerca filosofica e la sua attualità, reperibile nel web)

Proprio da Husserl, il padre della fenomenologia, prende le mosse la terza parte del saggio La questione morale, la sua pars construens: Husserl che concepì fin dal suo primo corso come docente "quello che molti ignorano essere stato il vero progetto di tutta la sua vita: riuscire a confutare lo scetticismo pratico." 

Dei valori, sostiene l'autrice, facciamo esperienza: "Chiameremo "valori" una varietà infinita di qualità caratterizzate da due tratti: la polarità (positiva o negativa) e il grado comparativo (inferiore-superiore). Non c'è che da alzare gli occhi e gettare uno sguardo intorno a sé per incontrarne a piacere. La dolcezza delle colline toscane che vedo da questa finestra, lo splendore del cielo d'estate, la freschezza di questo vinello giovane, la volgarità del linguaggio patibolare catturato dalle registrazioni giudiziarie, l'onestà di quel comportamento, la bassezza intrinseca di ogni adulazione, la bellezza di questo dipinto, l'interesse di questa scoperta, l'ingiustizia di questa legge, la sublimità di quella preghiera."
I valori sono quindi la nostra esperienza dei fatti, i fatti vissuti, sentiti. Su questa base fattuale-esperienziale è possibile fondare una ricerca del vero anche in ambito morale.



Grande fascino e grande capacità di cogliere l'attualità con gli occhi della filosofia nel libro della De Monticelli, che consiglio a tutti.

13 febbraio 2011

Difendere l'indifendibile attaccando l'inattaccabile. Le confusioni di Giuliano Ferrara

Il titolo di questo post si riferisce a Giuliano Ferrara, che sta tentando goffamente di immettere intelligenza tra i sostenitori di Berlusconi.


Il "caso Ruby", dalle indagini dei magistrati di Milano al resoconto mediatico  che  le accompagna, sarebbe secondo Ferrara basato su un atteggiamento "puritano". Ma, come ben spiega Carlo Galli in una nota su Repubblica, l'accezione in cui Ferrara usa il termine puritanesimo è ben lontana dal radicalismo teologico e sociale del movimento religioso inglese sorto nel secondo Cinquecento.
L'indignazione verso il presidente del Consiglio non parte, come Ferrara vorrebbe farci credere, da un moralismo sessuofobico, ma dalle seguenti circostanze:
1) Berlusconi è accusato di due reati gravi e non lo sfiora l'idea che solo per questo potrebbe dimettersi
2) ha voluto inasprire le leggi contro la prostituzione: la coerenza tra pubblico e privato in questo caso è necessaria
3) ha dichiarato pubblicamente di non aver mai avuto rapporti sessuali a pagamento ma le intercettazioni lo smentiscono inequivocabilmente.
4) la tesi che potesse veramente pensare di avere a che fare con la nipote di Mubarak è insostenibile.
Sono queste le cose che indignano: l'uso sistematico della menzogna, l'incoerenza, la mancanza di onore.

Ferrara ha poi attaccato Umberto Eco dicendo che se va a letto tardi per leggere Kant (come Eco rivendicava al Palasharp) ciò non basta per poter capire Kant. Eco quindi non conoscerebbe Kant, mentre Ferrara sì, e avrebbe capito cosa veramente pensava il filosofo tedesco sulla politica. Su questo punto rimando a un articolo di Antonio Sgobba, Il legno storto di Ferrara, dove si esaminano i passi di Kant citati da Ferrara e si contesta punto per punto la sua interpretazione. Buon divertimento!

(Suggerisco poi a Ferrara di leggersi Kant e l'ornitorinco di Umberto Eco, farne un riassunto e poi pubblicarlo insieme ai suoi eventuali commenti critici)

Altra cosa ancora le motivazioni che spingono le donne, e gli uomini che sostengono la stessa causa, a scendere in piazza oggi, domenica 13 febbraio. Il comportamento di un uomo pubblico finisce, anche se privato, per fare da modello, apripista, legittimazione. E' quindi necessario arginare e contrastare, manifestando, la dilagante e misera immagine della donna trasmessa dal premier (anche, indirettamente, attraverso la cultura maschilista di cui sono intrise molte trasmissioni televisive).

9 febbraio 2011

Paolo Flores d'Arcais incalza Saviano



In questa lettera aperta Paolo Flores d'Arcais, filosofo e direttore della rivista Micromega, cerca di dare sostanza politica al discorso di Saviano commentato nel post precedente, cerca di tradurre in proposte concrete quello che molti hanno interpretato come un discorso che annunciasse un possibile futuro impegno politico dello scrittore.
   A me sembra che Saviano abbia fatto quello che gli intellettuali sono chiamati a fare quando la realtà pubblica presenta gravi problemi: indicare una strada, orientare la cultura politica, prendere posizione chiaramente senza che questo implichi un diretto entrare nell'arena politica.
   (In fondo, la stessa cosa che fa Flores dalle colonne di Micromega.)

6 febbraio 2011

Pensare a ciò che siamo e a ciò che vogliamo

Sabato 5 febbraio, al Palasharp di Milano, l'associazione Libertà e giustizia ha organizzato una grande mobilitazione col titolo DIMETTITI, chiamando a partecipare, fra gli altri, Gustavo Zagrebelsky, Paul Ginsborg, Umberto Eco, Roberto Saviano.



L'intervento di Saviano è stato molto importante. Ha affermato l'enorme diffusione del fenomeno del voto di scambio (dare il proprio voto in cambio di un favore o in cambio di denaro), che falsa la democrazia e annulla il valore del confronto politico. (Oltretutto oggi bastano 50 euro per comprare un voto, mentre ai tempi della Democrazia Cristiana, dice Saviano, per comprare un voto bisognava offrire un posto di lavoro...). Alla base del fenomeno, sostiene Saviano, c'è l'idea che i politici siano "tutti uguali", tutti con gli stessi errori, le stesse mancanze. Ciò rende il votare X piuttosto che Y senza valore. Se è senza valore posso svendere il mio voto, darlo per 50 euro. Oppure posso darlo in cambio di qualcosa di concreto (ma non penso, in questo caso, che quel qualcosa mi spetta di diritto! Che se lo ottengo in cambio del mio voto perdo tutto il resto che mi spetterebbe di diritto).
     Occorre quindi tornare a dare valore al voto, rendersi conto che col voto si può cambiare il destino del proprio paese, col voto si può cambiare la propria vita. Per tornare a dare valore al voto occorre rendersi conto che i politici non sono tutti uguali. La democrazia vive nelle differenze.
      Saviano ha poi anche ricollegato a questo discorso il fenomeno della cosiddetta "macchina del fango": gettare fango su chiunque si oppone al potere (vedi il caso Boffo, vedi la storia della casa di Montecarlo nei confronti di Fini, vedi recentemente gli attacchi a Ilda Boccassini) per dimostrare che anche costoro sono "corrotti", e quindi sono tutti uguali, cioè tutti uguali nell'appartenere al male.
       Quindi: chi vuole ottenere potere scavalcando l'autentico gioco politico della democrazia si avvantaggia dell'idea che la politica sia nel complesso screditata, corrotta, e alimenta questa idea offuscando le reali differenze.
       Occorre mostrare la nostra diversità, dice Saviano, ma non compiacendosi nell'essere minoranza, non compiacendosi di appartenere alla minoranza dei puri. I puri sono la maggioranza, dice Saviano. Il paese è per bene, con una minoranza di criminali. Implicito nel suo discorso è però che questa minoranza riesce a mettere sotto scacco e spesso a dominare sulla maggioranza, anche oscurando le coscienze.
       In positivo quindi , secondo Saviano, occorre:
- ridare importanza al voto
- combattere l'immagine di una classe politica tutta corrotta
- cercare la nostra identità nell'unità con la parte buona del paese, parlando anche alla parte che in questo momento è sotto scacco, dominata
- riferirsi ai modelli storici di resistenza al potere criminiale
- sognare un paese diverso, pensare al nostro essere diversi dai criminali, pensare a ciò che siamo e a ciò che vogliamo costruire.

Mi sembra che Saviano abbia colto un problema centrale nella cultura di sinistra: occorre ricostruire i valori, riscoprirli, rifondarli, dissotterrarli, e l'unico modo per farlo è pensare a cosa abbiamo già di buono, al bene già esistente, e anche fare uno sforzo di immaginazione per pensare a cosa di meglio potrebbe esistere, a cosa vogliamo veramente.

22 gennaio 2011

Sui fondamenti dell'ontologia






Riprendo una questione contenuta già nel post precedente, ma lì non messa bene in luce.
Con l'esplosione otto-novecentesca delle conoscenze scientifiche, le scienze, e in particolare le scienze naturali (e soprattutto la fisica) hanno preteso di sottrarre alla filosofia il compito di rispondere alla domanda "Cosa esiste?".
Rispetto a questa pretesa la filosofia ha reagito in vari modi. Un modo che mi sembra ancora valido è il rilevare innanzitutto la situazione complessa in cui si trovano le scienze, divise almeno in tre grandi regioni: le scienze naturali, le scienze esatte e le scienze "umane". (L'ultimo gruppo di scienze, le scienze "dello spirito" o "storico-sociali" in realtà non sono tanto omogenee fra loro, basta pensare alle differenti prospettive in cui si pongono la storia da un lato, con tutto l'insieme delle storie speciali: storia dell'arte, storia economica... e le discipline con taglio teorico come la psicologia, a sua volta divisa in differenti scuole...). Perché solo le scienze della natura devono avere la pretesa di rispondere alla domanda ontologica? La matematica non ha a che fare con "oggetti"? Le scienze "umane" non si confrontano anche loro con "oggetti"? "Oggetti" nel senso di qualcosa di condivisibile, intersoggettivo, su cui possiamo scambiarci opinioni e su cui possiamo formulare teorie perché tutti possono capire di cosa stiamo parlando.
Da qui, credo, provengono le proposte ontologiche di tipo tricotomico, che parlano di "tre mondi", "tre regni" eccetera, accettando quindi di distinguere fra modalità diverse di esistenza.



Il problema che si pone a questo punto è: perché non estendere anche all'arte la possibilità di dare fondamento all'ontologia? Anche nell'arte si dà il fenomeno per cui ci possiamo confrontare su "oggetti", scambiarci opinioni su di essi. Penso ai grandi personaggi della letteratura, ai mondi creati dall'immaginazione ma che si possono condividere, sono intersoggettivi. Si può anche sostenere che questi oggetti non esistono, ma se già abbiamo accettato di distinguere tipi diversi di esistenza possiamo anche accettare di parlare di oggetti non-esistenti, o addirittura distinguere fra tipi di inesistenza (per esempio potrei dire che i numeri non esistono, ma in un senso diverso da quello in cui non esistono i personaggi della letteratura , e in un senso ancora diverso non esistono le cose del passato...).



La filosofia ha già indagato ampiamente queste possibilità, si è ripresa quindi in mano il suo compito ontologico, ed essa stessa ha, da sempre, a che fare con "oggetti", "oggettività": i concetti filosofici, o "superconcetti", che come mi ricorda Franca D'Agostini sono ben più di tre (il loro elenco, ha scritto, è in linea di principio aperto): i tre ricordati nel post precedente sono solo quelli individuati nel Medioevo e sono la lista minima, la più breve possibile.
Quindi filosofia, scienze, arti, hanno tutte, in misure diverse e in modalità diverse, a che fare con "oggettività" e hanno quindi voce in capitolo per aiutare l'ontologia a dare risposta alla sua domanda fondamentale. La filosofia in particolare,  riprendendosi il suo ruolo di disciplina che riesce a mettere in collegamento saperi e prospettive culturali diverse.


E la religione? La religione no, proprio perché le "oggettività" che produce sono  fortemente conflittuali: pensiamo ai contrasti fra teismo e ateismo, fra monoteismo e politesimo, e fra i monoteismi stessi!

19 gennaio 2011

Il 3 in filosofia: trascendentali, tricotomie, triadi, culture, regni, mondi...




Una serie di analogie, coincidenze, affinità, mi sta girando in testa da un po' di tempo e anche se non ho ancora approfondito la questione voglio intanto condividere queste idee, anche per vedere se altre coincidenze, analogie, affinità di questo tipo vengano in mente ai lettori di questo post.

Cominciamo dai trascendentali medievali: ogni cosa, dice Tommaso, in quanto tale è una, vera, buona.

Essere, verità e bene, dice Franca D'Agostini (in The Last Fumes), sono i tre concetti filosofici fondamentali, i tre concetti ineliminabili, inaggirabili.

Quando si tratta di tracciare una sintesi su quali siano i tipi fondamentali di oggetti, i tipi fondamentali di esistenza, o di oggettività, alcuni autori del Novecento o contemporanei sembrano richiamarsi uno all'altro: 
- Ferraris, recentemente, ha proposto un catalogo del mondo distinto in oggetti naturali, oggetti ideali e oggetti sociali
- Popper ha proposto di distinguere tre mondi: quello degli oggetti fisici, quello dei vissuti (psichici) e quello delle oggettività culturali.
- Frege ha distinto eventi fisici, eventi psichici e oggetti logici
- Penrose distingue il mondo matematico (platonico), il mondo fisico e il mondo mentale; solo una piccola parte del mondo matematico è importante per spiegare il mondo fisico, ma tutto il mondo fisico sembra essere governato da leggi matematiche; solo una piccola parte del mondo fisico dà origine ad attività mentali, ma tutte le attività mentali hanno una base fisica; solo una piccola parte dell'attività mentale riguarda il mondo matematico, ma tutto il mondo matematico sembra avere origine dall'attività mentale... (Come si spiega che ciascun mondo sembra includere tutto il mondo seguente in una paradossale circolarità triangolare?)


Queste tricotomie ontologiche possono essere riconsiderate alla luce della tripartizione delle scienze in scienze naturali, scienze esatte, scienze storico-sociali. Ciascun tipo di scienza ha un suo tipo di oggettività di riferimento: enti fisico-chimico-biologici, enti logico-matematici, azioni umane e loro prodotti.

Si può tentare anche una corrispondenza fra la tripartizione delle scienze sopra ricordate e i tre concetti fondamentali della filosofia secondo la D'Agostini: le scienze esatte si occupano, in fondo, di un valore fondamentale: la verità; le scienze naturali cercano incessantemente di cogliere l'essere (ciò che esiste realmente); le scienze storico-sociali, in quanto centrate sulle azioni umane e i loro prodotti, hanno il bene (individuale, collettivo, o inteso come qualità dei prodotti umani) come sfondo valoriale sempre presupposto o esplicitamente indagato.

Nella grande tripartizione del sistema hegeliano troviamo ancora una volta una riproposizione dei tre trascendentali: l'Idea (verità), la Natura (essere), lo Spirito (bene).

La triade di valori della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, solidarietà. Anche qui, in fondo, una analogia: la libertà con l'essere (uno), l'uguaglianza con la verità (corrispondenza fra...), la solidarietà col bene!

Trovate altre analogie o corrispondenze di questo tipo?

Ci sono poi tante triadi nel pensiero filosofico, ma qui usciamo mi pare dalle corrispondenze ontologico-conoscitive-valoriali che mi sembrano da approfondire e entriamo, credo, nell'amore per il numero 3 che il pensiero sembra avere come caratteristica intrinseca: la tripartizione dell'anima in Platone (e la corrispondente tripartizione in classi sociali), la tripartizione delle topiche freudiane, i tre modi di esistenza per Kierkegaard, le tre vie di uscita dalla volontà per Schopenhauer, le tre Critiche kantiane (e le tre corrispondenti domande fondamentali dell'uomo), la Trinità nella teologia cristiana, la legge dei tre stadi di Comte...

Altri 3 in filosofia?









2 gennaio 2011

Ipotesi sul senso della vita umana (e sul senso della cultura...)





Per l'individuo della nostra specie sono fondamentali due cose:
1) coltivare se stesso, prendendo e rielaborando ciò che di meglio gli altri ci trasmettono/ci hanno lasciato.
2) dare il meglio di sé agli altri, trasmettendo/lasciando tracce di sé.

La prima cosa si scinde in due passaggi: a) capire come, in quale modo, in quale campo, ci si esprime meglio/si possono esercitare meglio i propri talenti; b) coltivarsi, realizzare i propri talenti. (Sempre in rapporto con gli altri e l'umanità in generale)

La seconda cosa è legata al fatto che la specie continua ad esistere anche oltre la nostra morte, e questa è una grande consolazione (rispetto al fatto che la nostra esistenza terminerà): miglioriamo quindi la vita della specie (quindi anche dell'ecosistema in cui la specie esiste...)!
Se riusciamo a trasmettere qualcosa di noi agli altri, questo qualcosa, per quanto piccolo, continuerà ad esistere anche se noi non ci saremo più, anche solo nel modo in cui altri agiranno avendo imparato qualcosa da noi (tutto ciò ovviamente si concretizza maggiormente facendo figli ed insegnando loro qualcosa, o producendo qualcosa che entra in rapporto con altri migliorando la loro vita in qualche modo...)

La durata della specie: la grande consolazione dell'uomo (non religioso...)

Sapere con certezza dell'esistenza di altre forme di vita intelligenti oltre la nostra, a cui potersi "agganciare", sarebbe un'altra grande consolazione.

12 novembre 2010

Spazio e tempo nell'ontologia di Ferraris





Nel volume Documentalità. Perché è necessario lasciare tracce (Laterza 2009) Maurizio Ferraris espone sostanzialmente una ontologia sociale, cioè una teoria filosofica sugli "oggetti sociali" ovvero una teoria del mondo sociale. (Inizia così: "In questo libro parlo di oggetti sociali, cioè di cose come i soldi e le opere d'arte, i matrimoni, i divorzi e gli affidi congiunti, gli anni di galera e i mutui, il costo del petrolio e i codici fiscali, il Tribunale di Norimberga e l'Accademia delle scienze di Stoccolma, e poi ancora le crisi economiche, i progetti di ricerca, le lezioni, le lauree, gli studenti, i monsignori, le assunzioni, le elezioni, le rivoluzioni, i licenziamenti, i sindacati, i parlamenti, le società per azioni, i ristoranti, i giochi, gli avvocati, le guerre, le missioni umanitarie, le tasse, i weekend, i cavalieri medioevali e i cavalieri della Repubblica.")
Premetto che questa non è una vera recensione (anche se la etichetterò come tale in questo blog), perché non ho qui la pretesa né di riassumere il testo né di darne un resoconto critico globale. Mi limiterò a un rilievo critico su un punto specifico, osservando il testo nella prospettiva di un lettore appassionato da anni alla filosofia e interessato ultimamente all'ontologia in quanto settore fondamentale della filosofia e densissimo di problemi.
Ferraris infatti inquadra la sua ontologia sociale in una ontologia: la prima parte del libro si intitola Catalogo del mondo ed è una sorta di ontologia in miniatura, nella quale Ferraris traccia le coordinate della propria impostazione in sede ontologica (ma potremmo anche dire più semplicemente che qui Ferraris espone i fondamenti della sua filosofia).
Sfruttando il riassunto che Ferraris stesso fa nell'Epilogo finale possiamo dire che la filosofia di Ferraris è una metafisica descrittiva di impianto realistico, che utilizza il modello del catalogo, e per la quale il mondo è la totalità degli individui. Ogni individuo è "esemplare": può valere sia come principio di classificazione sia come elemento di una classe (ma le classi non preesistono agli individui). Gli esemplari (gli individui) si dividono in soggetti e oggetti. I soggetti hanno rappresentazioni, gli oggetti no. Gli oggetti si dividono in tre classi: naturali, ideali, sociali. "Gli oggetti naturali stanno nello spazio e nel tempo indipendentemente da soggetti; gli oggetti ideali stanno fuori dello spazio e del tempo indipendentemente da soggetti; gli oggetti sociali stanno nello spazio e nel tempo dipendentemente da soggetti." Inoltre i soggetti "sono anche un tipo di oggetti naturali (ne sono una sottocategoria), in quanto entità biologiche, e (se inseriti in una società) sono anche oggetti sociali".
Nella prima parte del libro, subito dopo aver enunciato la sua tripartizione degli oggetti in naturali, ideali e sociali Ferraris scrive: "Sullo spazio-tempo è necessaria una precisazione. E' solo per comodità di espressione che affermo che gli oggetti naturali e sociali sono nello spazio e nel tempo, e gli oggetti ideali sono fuori dello spazio e del tempo. Questa formulazione ha un sapore un po' kantiano, e fa pensare all'esistenza di due forme pure dell'intuizione e, da ultimo, all'assorbimento degli oggetti nei soggetti, come di fatto avviene in Kant. Per essere precisi bisognerebbe dunque dire che gli oggetti naturali e sociali sono spaziotemporali, mentre quelli ideali non lo sono; ma sospetto che risulterebbe meno chiaro, per cui mi limito a questa osservazione, a scanso di equivoci."(pag. 32)
Resta il fatto che qui non si capisce se per Ferraris lo spazio e il tempo, o lo spaziotempo, siano oggetti o no, e, se sì, se siano naturali o ideali. Se non sono oggetti cosa sono, nel quadro metafisico delineato da Ferraris?
A pagina 8 Ferraris scrive: "se, come ho detto, il mondo è la totalità degli individui e delle loro relazioni, cioè appunto l'insieme degli esemplari, spazio e tempo non sono due forme pure dell'intuizione bensì, leibnizianamente, l'ordine della compresenza e della successione degli individui."
Ferraris sarebbe quindi, come Leibniz, un relazionista riguardo alla natura dello spazio e del tempo (per la distinzione fra sostanzialismo e relazionismo in rapporto al problema della natura di spazio e tempo rimando in questo blog a Spazio e tempo). Quindi spazio e tempo sono per Ferraris relazioni. Ma cosa sono le relazioni per Ferraris? Nella parte dedicata agli oggetti ideali scrive: "Le relazioni sono rapporti ideali che sussistono tra oggetti, ideali e non : (...) sono oggetti ideali spuri, perché dipendono da stati di cose, e non sono semplici, appunto perché si relazionano a stati di cose".
Possiamo allora, forse (cioè se abbiamo bene interpretato il suo pensiero), concludere che lo spazio e il tempo sono per Ferraris oggetti ideali. Ma allora ci troviamo nella strana situazione per cui spazio e tempo, in quanto oggetti ideali, non sono spaziotemporali.
Inoltre c'è un altro problema, direi più sostanziale: Ferraris usa la nozione di "spaziotemporalità" per tracciare una distinzione fondamentale fra oggetti naturali e sociali da una parte e oggetti ideali dall'altra, usa in pratica spazio e tempo per definire cosa sono gli oggetti ideali dicendo che essi si trovano fuori dello spaziotempo, ma contemporaneamente colloca lo spaziotempo all'interno degli oggetti ideali.

Newton ha scritto «lo spazio ha il suo modo di esistere, che non si attaglia né a quello della sostanza, né a quello degli accidenti» (rimando ancora al mio post segnalato sopra, in particolare all'Approfondimento 1 in esso contenuto). Lo spazio e il tempo o lo spaziotempo (secondo una terminologia aggiornata alla teoria della relatività) sono certamente nozioni altamente problematiche sulle quali difficilmente oggi un filosofo può indagare senza confrontarsi con la fisica contemporanea. Parlando degli oggetti naturali Ferraris dichiara onestamente: "Non c'è altro. Che io parli così poco di oggetti naturali dipende del tutto prevedibilmente dal fatto che non ho molto da dirne. Non sono un fisico né un biologo (...)". Non intendo certamente rimproverare a Ferraris di non essersi interessato alla fisica, ma noto che spazio e tempo giocano un ruolo importante nella sua impostazione ontologica generale quali nozioni di riferimento per definire ambiti ontologici e non corrisponde a questa importanza una riflessione su come collocare tali nozioni nel suo Catalogo del mondo, quasi come se spazio e tempo fossero appunto qualcosa che non ha bisogno di essere catalogato.

Per chi fosse interessato a una vera recensione al testo di Ferraris rimando a quella di Stefano Vaselli, in APhEx n. 2



19 ottobre 2010

Cosa divide Quine e Meinong e come metterli in relazione

Emilio Sanfilippo, nel suo post La strategia ontologica di Quine spiega la famosa frase di Quine "essere è essere il valore di una variabile vincolata" dicendo che secondo Quine il modo migliore per stabilire che cosa esiste è partire da una buona teoria sul mondo (possiamo intendere: una teoria scientifica) e stabilire quali sono i presupposti ontologici di tale teoria. Associa poi tale idea di Quine con la teoria dell'oggetto di Meinong, che voleva costruire una scienza di tutti gli oggetti, libera dal pregiudizio a favore del reale, che potesse occuparsi anche degli oggetti possibili, pensabili, irreali. Ci sarebbe del relativismo sia in Quine (definiamo ciò che è sempre in relazione a una specifica teoria sul mondo...) sia in Meinong (definiamo che cosa è oggetto sempre all'interno di singoli contesti o domini). Io continuo a vedere (come tutti, in generale) una profonda frattura fra Quine e Meinong, bene evidenziata nel libro di Berto L'esistenza non è logica (ma anche Sanfilippo fa notare la questione cruciale degli oggetti inesistenti...), e ritengo che la frattura sia da far risalire alla divaricazione fra metodo fenomenologico e metodo analitico: la prospettiva di Quine riflette la grande attenzione riservata dalla filosofia analitica ai risultati delle scienze naturali ed esatte, mentre la prospettiva di Meinong riflette l'interesse prioritario della fenomenologia per i vissuti e la loro classificazione, ed è attenta ai prodotti dell'immaginazione, quindi proiettata verso l'arte. L'ontologia attuale è quindi attraversata da questa scissione, che può rivelarsi però feconda se si prende coscienza della storia e delle motivazioni che stanno alla base delle due diverse prospettive filosofiche, quella fenomenologica e quella analitica, e soprattutto se si cerca di metterle in comunicazione e in rapporto di scambio considerando la loro comune radice nelle finalità più ampie della filosofia in generale.

6 ottobre 2010

FILOSOFIE NEL MONDO e Filosofia analitica

Questo video mostra l'intervento di Franca D'Agostini al 64° Convegno del Centro Studi Filosofici di Gallarate dal titolo FILOSOFIE NEL MONDO tenuto nel settembre del 2009. D'Agostini introduce alla filosofia analitica (in questo risiede anche l'interesse di questa lezione) distinguendo innanzitutto fra Tradizione analitica e Filosofia analitica, ripercorrendo la questione della distinzione "analitici e continentali" e mostrando infine la vitalità della filosofia analitica in Australia. Focalizza il suo intervento su tre questioni che mi sembrano molto importanti: 1) Tutte le filosofie nel mondo "non occidentale" sembrano essere filosofie "continentali", mentre la filosofia analitica ha delle mire imperialistiche, vuole porsi come "La Filosofia". Ma allora? Vuol dire che non ci riesce? Se ci riesce, come e in che senso ci riesce (visto che nel mondo "non occidentale" si va in direzioni diverse)? 2) Il rapporto con l'Occidente di tutte le filosofie "non occidentali" è problematico perché l'Occidente è in realtà diviso, l'Occidente in realtà non sta in occidente... 3) Nelle diverse lingue ci sono diverse metafisiche? La "nostra" metafisica viene dalla nostra lingua; c'è una stretta connesione tra linguaggio e metafisica e forse questo è un problema in quanto la metafisica insita nel nostro linguaggio potrebbe impedirci di vedere le altre metafisiche, le altre filosofie "non occidentali". Dallo stesso link è possibile accedere agli altri interventi del Convegno, nell'ordine: Filosofia latinoamericana - Pio Colonnello Filosofia islamica - Stefano Minetti La Scuola di Kyoto - Brian Schroeder La "Sindrome antimetafisica cinese" - Mario Cadonna Filosofia russa - Chiara Cantelli Filosofia africana - Lidia Procesi Filosofia analitica nel mondo - Franca D'Agostini Philosophia occidentalis - Ugo Perone

14 settembre 2010

Varzi e Berti: metafisica analitica e metafisica classica


Due lezioni tenute alla Cattolica nel 2007 nelle quali i due filosofi mostrano soprattutto le convergenze fra la tradizione aristotelica e la ricerca attuale in ambito analitico. Interessante in particolare la conclusione della lezione di Varzi nella quale viene presentato l'asse realismo/convenzionalismo, intorno al quale è organizzato anche il discorso del suo volume recente Il mondo messo a fuoco.

7 settembre 2010

Fiori da "Rosso Floyd" di Michele Mari




"Pur trattando prevalentemente di personaggi storici e di fatti reali questo romanzo è da intendersi come opera di fantasia in ogni sua parte. La confabulazione delle voci, appartenenti di volta in volta a individui realmente vissuti o viventi, a personaggi inventati, a esseri fantastici, obbedisce a una retorica strutturale e linguistica, e non vuole in alcun modo avere un valore documentario. Anche se non venisse inficiata da una discreta quantità di di 'falsi', infatti, la precisione onomastica, cronologica e topografica dei riferimenti è strettamente funzionale alla finzione, proprio come si dà nei sogni.

...
Tutto ciò che è fonte di angoscia è oggetto di repressione: uscito dal suo muro privato, forte della sua falsa identità, Pink manda i deboli e i diversi ad essere fucilati contro il muro, ma quando l'angoscia sarà di nuovo libera la prima cosa ad esserne investita sarà proprio quel muro, che crollerà: ma si tratterà di una liberazione, o della definitiva condanna di chi, come Pink, rimane schiacciato?
L'arte, dunque, non salva: ma tutto questo può essere detto solo in forma artistica.
...
... Syd era un cantastorie con il gusto dell'assurdo, e la sua psichedelia era la stessa di Lewis Carroll... Le prime canzoni dei Pink Floyd sono nate così: lui canticchiava ossessivamente frasi senza senso, per giorni interi alle volte, finché Roger o Rick, rintronati da quell'ecolalia demenziale, dovevano ricavarne una canzone... Delirii verbali così gliene ho sentiti uscire di bocca a migliaia dieci anni prima che si inventasse i Pink Floyd, e se devo credere a sua sorella non ha mai smesso di produrne... desemantizzare il mondo per dare un senso al mondo, è così che la vedo...
...
...la musica ha a che fare con se stessa, le parole con il mondo...
...
Il 20 ottobre di quest'anno si è spento a Tallahassee (Florida) Paul Dirac, il poeta dell'antimateria. Come definire altrimenti un genio che con una fantasia pari solo al suo rigore teorico ha immaginato l'esistenza di mondi alternativi rivoluzionando per sempre la nostra percezione dell'Essere? Anticipando di due anni la scoperta di Carl Anderson, Dirac dimostrò infatti l'esistenza del positrone, un anti-elettrone con carica positiva ed energia negativa: da qui l'ipotesi di un mondo separato dal nostro (il cosiddetto 'mare di Dirac') interamente formato da anti-particelle. Una simile intuizione ci sembra appartenere al sogno e alla poesia più che alle scienze esatte: lo conferma l'insistenza di Dirac sul concetto eterodosso di 'bellezza matematica', e la sua convinzione che una teoria caratterizzata dalla bellezza formale e dall'eleganza abbia più probabilità di essere giusta.
...
...è facile vedere le cose dalla fine, ti sembra che il destino sia evidente sin dall'inizio, scolpito a lettere di fuoco nella pietra, così i prescelti hanno sùbito una luce speciale, e chi si ferma per strada ti sembra un poveretto, un suicida: come, sei sulla barca della gloria e scendi? ... Si crea un film altamente drammatico, un film dove tutto è fatale, un incontro, una parola detta per caso... Così chi arriva alla gloria ci arriva perché doveva, perché era speciale, e noi giù ad adorare... Il pensiero che qualcosa poteva andare diversamente non ci sfiora, se ci sfiora lo respingiamo indignati...
...
Per abito mentale gli storici non credono al caso, lo sanno tutti..."

Michele Mari, Rosso Floyd, Einaudi 2010

Che cos'è il nichilismo?

Riporto qui, per orientare la risposta alla domanda posta nel titolo, alcune tesi di base del testo Logica del nichilismo di Franca D'Agostini (Laterza 2000).

L'autrice ritiene che il termine "nichilismo" abbia due significati principali, collegati fra loro. Il primo è l'idea dell'esigenza di un trascendimento della dimensione in cui ci si trova (linguaggio, pensiero, mondo, storia, ragione...) ma accompagnata dall'impossibilità di compierlo realmente; la difficoltà di stare dentro a una certa dimensione ma insieme il non riuscire ad uscirne (da Kant in poi). Il secondo è il pluralismo, il primato della differenza, l'idea che non vi siano ordini generali né gerarchie di valore e di senso perché non si può (più) fare riferimento alla totalità, all'insieme, al tutto (Nietzsche: "il tutto non è più tutto") e hanno primato la singolarità, la parte, il particolare.

Quindi "nichilismo" = 1. la verità non esiste + 2. esistono molte possibili verità

6 settembre 2010

Gianni Vattimo e Franca D'Agostini discutono sulla verità




In questo divertente, intrigante, appassionante video in tre puntate Gianni Vattimo e Franca D'Agostini discutono intorno al concetto di verità.

Vattimo sostiene la necessità di dire addio alla verità come pura conformità della proposizione alla cosa, e sostiene che la verità è sempre anche frutto di un accordo all'interno di una comunità di riferimento. D'Agostini sostiene invece che non si possa fare a meno della concezione realistica della verità: la verità è "come le cose stanno".

La discussione a tratti è anche molto accesa (tenere sotto controllo le emozioni è difficile anche per autentici filosofi e anche se si tratta di questioni abbastanza astratte...!!!), e il punto cruciale della disputa che viene a un certo punto messo a fuoco (ma il nodo non viene sciolto e i due rimangono in disaccordo) riguarda la base argomentativa delle proposizioni valoriali/normative, in altri termini: esistono verità normative basate su fatti? Ci sono o no verità sui valori? Come si argomentano i valori? Con i fatti? Con le interpretazioni e il dialogo?

Vattimo rifiuta che possa essere la natura a costituire la base fattuale per discorsi valoriali, ma solo la cultura; D'Agostini sostiene che ad esempio la proposizione "non uccidere" si basa sul fatto che esiste un impulso naturale alla sopravvivenza.

Invito i lettori del blog a guardare il video (assolutamente da non perdere!!!) e a lasciare commenti prendendo posizione in merito: si tratta a mio parere (il fondamento dei valori) di uno dei nodi più difficili per la filosofia ma anche di una questione mai così attuale come nel mondo contemporaneo.

5 settembre 2010

Franca D'Agostini intervistata


Un buon modo per avere un'idea rapida della filosofia di Franca D'Agostini è vedersi questa intervista in cinque domande, fatta in occasione della sua partecipazione alle "vacances de l'esprit" insieme a Gianni Vattimo.


Allieva di Gianni Vattimo e formatasi nello studio della filosofia francese contemporanea, è approdata poi verso un orientamento filosofico di tipo analitico utilizzando anche la logica ma sempre mantenendosi ben ancorata alla grande tradizione classica della filosofia.
E' a mio avviso una pensatrice molto raffinata, estremamente attenta e aperta a cogliere ciò che di valido accade nel panorama filosofico attuale.
Il valore del suo lavoro consiste essenzialmente nella sua volontà di rilanciare la filosofia come chiarificazione ed elaborazione dei concetti fondamentali (verità, realtà, essere, bene, giustizia...), quindi la filosofia nel suo valore fondativo e orientativo.

Franca D'Agostini insegna Filosofia della scienza al Politecnico di Torino e Analisi del discorso politico all'Università del Piemonte orientale, collabora alla "Stampa" e al "manifesto".
Opere principali:
Analitici e continentali, Cortina 1997
Breve storia della filosofia nel Novecento, Einaudi 1999
Logica del nichilismo, Laterza 2000
Disavventure della verità, Einaudi 2002
Le ali del pensiero. Corso di logica elementare, Paravia 2003
Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza. Dieci lezioni sulla filosofia contemporanea, Carocci 2005
The Last Fumes. Nihilism and the Nature of Philosophical Concepts, Davies Group Publications 2008
Paradossi, Carocci 2009
Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri 2010
I mondi comunque possibili. Logica per la filosofia e per il senso comune, Bollati Boringhieri 2012
Menzogna, Bollati Boringhieri 2012
Realismo? Una questione non controversa, Bollati Boringhieri, Torino 2013

Cfr. in questo blog:
Qualcosa esiste, ma come?
Capire Hegel
Tornare al sistema
Paradossi e creatività filosofica
Fuga dall'ontologia?
Perché non possiamo pensare alla vita come se fosse una partita a scacchi
Che cos'è il nichilismo?
Un "nuovo inizio" della verità, per la rinascita della filosofia (una quasi-recensione al libro Introduzione alla verità) 
C'è un solo mondo? (lettera aperta a Franca D'Agostini) 
La questione non è quanti mondi, ma piuttosto "Che cosa c'è?" (la risposta di F. D'A. alla precedente lettera aperta)
"C'è davvero una realtà in sé?" = "C'è Dio?"
Era ora, Franca!
 La verità è strumento del potere o il potere teme sempre la verità? (dibattito Vattimo/D'Agostini sulla verità)
Il diabattito Vattimo/D'Agostini prosegue su La Stampa 
L'ultimo libro di Franca D'Agostini (I mondi comunque possibili)
Sul realismo. Intervento di Franca D'Agostini in una discussione fra Stefano Vaselli e Giulio Napoleoni
D'Agostini intervista Priest
La vera "questione controversa": la metafisica. Riflessioni su "Realismo? Una questione non controversa"

Ho assegnato alle mie due classi del quarto anno (una di liceo scientifico una di liceo classico) come lettura estiva Verità avvelenata, e ho intenzione di lavorare con loro su questo testo anche nel corso dell'anno scolastico che sta per iniziare. Ritengo che la competenza argomentativa, compresa la capacità di riconoscere le fallacie, specialmente quelle presenti nel dibattito pubblico, sia uno degli obiettivi essenziali di un buon corso di filosofia.

Fiori da "La stiva e l'abisso" di Michele Mari


"- Sì, sì, lo so, ma vi degnerete di descrivere? di narrare partitamente? Il mio spirito è assetato di fatti, non capite? di dettagli, di frammenti colorati e corposi del mondo di fuori. Sono stanco di pensare, di ricordare, immaginare, sognare: io voglio vedere, e per questo devo rimettermi ai vostri occhi. Dunque?
...
Parole, parole, vuotissime parole che non significano nulla. Potessi averne di piene, che corrispondano ai fatti e ne serbino gli spigoli acuti, la pesantezza, la grana. Parole come ciottoli scabri che malta non leghi, sottratte all'ambiguità della frase e del tono, sode, polpute, non irretite dal petulante codazzo di congiunzioni ed avverbi! Ogni tanto penso come sarebbe bello se da quella porta entrasse il Segretario Fiorentino, o messer Dante, o Tacito, o il divino Omero, ah! Di loro mi fiderei, sì, mi lascerei portare dove vogliono loro, senza fare domande.
...
Sognare è... Sognare è vivere un'altra vita, altre vite
...
- E' a questo punto che noi... sì, noi... facciamo cose.
- Eh?
- Ci... ci amiamo, cioè no, sì, amoreggiamo.
- Mi aspettavo che dicessi una cosa del genere. Adesso dimmi delle storie.
- Ma sono queste, le storie.
...
'Se socchiudi la finestra vedi prima una striscia di luce, poi un pezzettino di paesaggio sempre un poco più grande, e anche se non finisci d'aprirla puoi immaginare come il paesaggio continua, il fiume continua a scorrere a valle, il cielo resta più o meno grigino, gli alberi ancora agitati dal vento: ma se tu ci sei, nel paesaggio? Se tu sei quel paesaggio? Cosa saprai allora? Cosa vedrai?Un altro dovrà farsi alla finestra per te, e vedere, e dirti'.
...
Scrivere è bello se lo fai nel tramonto, quando rientri nel tuo appartamento dopo una giornata operosa e assecondi l'impulso di ascoltarti in profondo, e allora ti cali dentro di te come in una miniera, e ne ritrai i minerali da scolpire e da far rilucere al giorno come imprevedibili prismi, quello, quello è il momento...
...
Come potrà dunque scrivere chi, come me, nel suo appartamente giace ininterrottamente da mesi? Chi dentro di sé passa la totalità del suo tempo, al punto da non saper più com'è il fuori, cos'è il fuori? Costui crederà di scrivere una storia, ma sarà solo il suo informe delirio.
...
- Io sono il passaggio ed il tempo, io sono fucina di forme, io sono la bocca e il boccone, la gola ed il ventre, io sono le storie che sono.
...
- Ti compiango: e sì che ormai dovresti averlo capito, che non è il valore delle cose a contare, ma il cambio, l'andare di là e tornare di qua, però con la testa ancora di là..."

Michele Mari, La stiva e l'abisso, Bompiani 1992, Einaudi 2002

4 settembre 2010

Fiori da "Verderame" di Michele Mari




"Tutte le combinazioni erano possibili, bastava sbizzarrirsi con la mente e qualsiasi risultato aveva una sua fantastica plausibilità: tanto più fantastica, tanto più plausibile.
...
Hercule Poirot avrebbe osservato che quando due cose si contraddicono in modo inspiegabile vuol dire che in realtà si spiegano a vicenda...
...
...quegli altri per eccellenza che sono i mostri...
...
Io non ero uno scienziato che indaga per amore della verità: ero un esteta in erba che indagava per amore del brivido e dell'effetto...
...
Eravamo nel 1969, e allora non potevo sapere cosa fosse il revisionismo, non potevo ancora disprezzare convenientemente chi sostiene che fascismo e resistenza più o meno si equivalevano...
...
E poi dicono che la storia non si fa con i ma e con i se... Oggi che so quanto male abbia fatto l'hegelismo all'umanità so che le storie più belle sono tutte fatte di ma e di se, soprattutto di se..."

Michele Mari, Verderame, Einaudi, Torino 2007

28 luglio 2010

Perché non possiamo pensare alla vita come se fosse una partita a scacchi

Mio padre mi ha insegnato a giocare a scacchi quando ero bambino. All'inizio, naturalmente, perdevo sempre. Poi, piano piano, ho cominciato a migliorare fino alla fatidica partita in cui sono riuscito a batterlo. Nel periodo in cui stavo sensibilmente migliorando (quell'estate, ricordo, lessi L'idiota di Dostoevskij) a un certo punto mi sono reso conto di una cosa. Se riuscivo a formulare un "piano di gioco", una strategia per arrivare alla vittoria o anche solo per guadagnare un pezzo, spesso capitava che le mosse fatte per realizzare quella strategia, mosse di attacco, fossero a mia insaputa anche mosse difensive che andavano a parare suoi piani di attacco nei miei confronti. Giocando sempre con in mente un "piano" (che andava costantemente rivisto, aggiornato, riaggiustato) prevenivo possibili pericoli anche ignorandoli. Ciò confermava quanto avevo letto nelle indicazioni preliminari di un antico manuale di scacchi (che sempre mio padre mi aveva messo in mano): l'autore raccomandava "Mai una mossa senza scopo!" (seguivano subito dopo considerazioni sul fatto che mosse casuali quasi certamente indeboliscono la propria posizione e costituiscono perdite di tempo di cui l'avversario può avvantaggiarsi). Questa regola mi aveva subito affascinato, e avevo cominciato a pensare se fosse una regola che potesse valere anche per la vita in generale. In quel periodo, da ragazzo, ero ossessionato dal problema di individuare regole generali da seguire per vivere nel modo migliore. La regola di vivere perseguendo un progetto o più semplicemente ponendosi degli obiettivi è certamente una regola degna di attenzione per chi sia alla ricerca di "formule" per un buon vivere. Volendo seguire l'analogia con il gioco degli scacchi potremmo dire che se perseguiamo un progetto, se ci poniamo degli obiettivi e agiamo di conseguenza, le nostre azioni porteranno a uno sviluppo del nostro essere che potrà essere utile a rispondere anche a situazioni impreviste. Molti anni dopo le prime esperienze scacchistiche di cui parlavo all'inizio, studiando filosofia e imbattendomi nelle teorie sull'azione (G.H. von Wright, Habermas, Bubner...) tornai a interessarmi della questione. Aristotele definisce un'azione come un comportamento finalizzato a raggiungere un certo scopo. Secondo von Wright agire significa provocare intenzionalmente un mutamento nel mondo. Avere un'intenzione, un fine, sembra essere parte del concetto stesso di azione, e si può valutare un'azione in base all'efficacia con la quale riesce a realizzare il proprio scopo, oppure in base alla razionalità dello scopo rispetto a fini ulteriori (si apre qui tutto il discorso sulla razionalità pratica e sull'etica...). Un'azione è razionale se realizza efficacemente il proprio scopo. Uno scopo è razionale se è coerente con fini generali, cioè se rientra in un piano coerente di miglioramento delle proprie condizioni (e, meglio ancora, delle condizioni di tutto ciò che ci circonda...). Ma chiediamoci: fino a che punto può essere utile agire sempre in modo razionale? Si può applicare la regola generale degli scacchi "Mai una mossa senza scopo!" alla propria vita, trasformandola in "Mai un'azione senza scopo!"?? A volte non ci è chiaro lo scopo per cui stiamo facendo qualcosa, ma è meglio così. In certi contesti lasciarsi "guidare dall'istinto" o "dall'intuizione" può essere meglio che farsi guidare dalla ragione. Quali sono questi contesti? Pensiamo a cosa succederebbe se facendo l'amore pretendessimo di sapere esattamente perché facciamo una cosa piuttosto che un'altra. Un altro contesto nel quale l'agire razionalmente può essere bloccante o controproducente è quello di una rilassata e intima conversazione tra amici o tra partner, dove il bello è proprio il "lasciarsi portare" dalle associazioni mentali, avendo anche la capacità di seguire quelle dell'altro (come del resto anche nel fare l'amore il bello non è solo il seguire i propri desideri ma anche il riuscire a sentire e seguire quelli del partner). Qualcosa di analogo accade nella comunicazione fra paziente e terapeuta in una psicoterapia a orientamento psicoanalitico o più semplicemente nel cosiddetto "ascolto attivo" proprio di tutte le relazioni d'aiuto. C'è poi tutto un ambito di situazioni nelle quali avere un obiettivo preciso può essere controproducente. Penso alla creazione artistica, ma anche in certa misura alla ricerca scientifica. In questi contesti, per quel che ne sappiamo, si parte spesso con idee vaghe, intuizioni, problemi da risolvere di cui non si conosce la soluzione. Si lavora proprio su questa vaghezza, sull'idea di qualcosa che vogliamo comunicare ma che non è a noi stessi chiaro, su un enigma che ci tormenta, su un nodo che non riusciamo a sciogliere. La soluzione, l'opera compiuta, la si costruisce strada facendo, senza sapere prima esattamente dove ci condurrà il nostro lavoro (l'aveva già teorizzato Platone quando si era posto il problema di rispondere alla questione sofistica sulla impossibilità della ricerca di conoscenza: se so già non ho bisogno di conoscere, se non so non so nemmeno cosa cercare, e aveva risposto con la sua teoria del conoscere come ricordare...). Un ultimo (ma non per questo meno importante!) contesto è quello del dialogo euristico, così definito da Franca D'Agostini in Verità avvelenata: "si ha un dialogo euristico quando A sostiene p e B sostiene non-p, e A e B sono interessati all'accertamento della verità, dunque si confrontano non tanto per avere ragione quanto per sapere chi ha ragione, e qual è la ragione migliore". Tale tipo di dialogo è essenziale quando sono in gioco dispute sui valori, differenze culturali che portano a confronti fra culture. Sono temi tipici delle teorie sulla gestione nonviolenta dei conflitti (Gandhi, Capitini, Galtung, Patfoort e altri) ma anche della tradizione ermeneutica (della quale sempre Franca D'Agostini ha "distillato" alcune regole fondamentali nel suo recente Verità avvelenata)
Forse allora potremmo tornare alla questione della regola "Mai una mossa senza scopo!" e dire che se vogliamo mantenerla per applicarla alla vita dobbiamo trasformarla in "Mai un'azione senza consapevolezza del senso!". Nei rapporti liberi e creativi con gli altri, nei contesti dove esercitiamo la nostra libertà e creatività possiamo (dobbiamo) abbandonare l'idea di uno scopo prefissato, di un chiaro piano d'azione, e accettare l'idea di un'azione senza scopo, o con uno scopo non chiaro, pur avendo però ben chiaro il senso di quello che stiamo facendo, anche proprio per distinguerlo dai contesti nei quali invece uno scopo preciso e un'azione razionale rispetto ad esso sono fondamentali. Più in generale quindi è importante cercare sempre di riconoscere le esperienze che si stanno vivendo: l'essere presenti, dentro le situazioni, in sintonia o in contrasto con il contesto, ma essere comunque in rapporto con ciò che ci circonda e con noi stessi.

12 luglio 2010

Non essere, possibilità, valore: Nozick, Borghini, Piana, Musil

Altro motivo (mi riferisco al post precedente) per sostenere la plurivocità del non-essere: sembra abbastanza evidente che oggetti/eventi possibili e oggetti/eventi impossibili non esistono in sensi diversi! Forse a scuola andrebbe formato, coltivato ed educato, accanto al senso della realtà, il senso della possibilità nell'accezione di Musil che Borghini cita all'inizio del suo Che cos'è la possibilità: "Chi lo possiede (...) immagina: qui potrebbe , o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com'è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è". Dico questo perché, come ben spiega Borghini nella sua Introduzione, c'è un forte nesso tra realtà e possibilità: l'identità di qualcosa si definisce anche in relazione alle sue possibilità, capacità, potenzialità, "in tutto ciò che è, in tutto quel che succede ci sono i germi di ciò che potrà essere e che sarà, di ciò che potrà accadere e che accadrà", e soprattutto la sfera dei valori, fortemente connessa con quella delle emozioni (cfr. sempre Borghini; Nozick ha fatto di questo nesso uno dei perni del suo libro La vita pensata), non può essere indagata, trasmessa e posseduta se non viene coltivato il senso della possibilità, riferito non solo al futuro, ma anche al presente (cosa possiamo fare) e al passato (cosa sarebbe potuto accadere). Occorre dare la giusta importanza a ciò che non è ma che potrebbe essere, anche solo per capire l'importanza delle regole, delle norme, delle leggi, cioè di ciò che serve a tracciare confini nel campo delle possibilità umane. Rispetto alla questione dell'istruzione e dell'educazione penso quindi al peso maggiore che andrebbe dato al rafforzamento dell'immaginazione, intendendo sia la capacità di spaziare nel fantastico, sia quella di esplorare l'immaginoso, ma anche quella di ragionare sul possibile (saper condurre "esperimenti mentali"). Sulla distinzione tra fantastico e immaginoso rimando ancora a Piana: Elementi di una dottrina dell'esperienza e Le regole dell'immaginazione.

5 luglio 2010

Plurivocità del non-essere e orientamento verso il valore. Il concetto di "realtà" in Nozick

In un post dell'ottobre 2008, Ontologia come valorizzazione, sostenevo: "ciò che esiste è sicuramente più importante di ciò che non esiste. Se una cosa non c'è non conta nulla, non dobbiamo tenerne conto, non può influenzarci, condizionarci eccetera". Alla luce di considerazioni per me recenti, tuttavia, sono costretto a rivedere questa posizione, o quantomeno a sollevare un dubbio in proposito. Se fra le cose che non esistono mettiamo (oppure, in termini quiniani-varziani, "se ammettiamo che non esistono") gli oggetti/eventi "finzionali", gli oggetti/eventi passati e gli oggetti/eventi futuri, è molto difficile dire che queste cose non contano nulla. Un personaggio letterario può essere più influente e famoso di una persona reale; non parliamo di quanto possa influenzarci e condizionarci il passato. Quanto al futuro, a volte una previsione o un'attesa può essere di gran lunga più importante per noi di quello che stiamo vivendo nel presente. Ma una delle ipotesi che vorrei proporre in questo post è la seguente: accanto a una plurivocità dell'essere (tesi che non mi voglio impegnare qui a sostenere ma che altrove ho suggerito con qualche argomentazione) si può sostenere una plurivocità del non-essere. Il senso in cui non esiste Sherlock Holmes è diverso dal senso in cui non esiste (più) Napoleone! Anche tra oggetti/eventi passati ed oggetti/eventi futuri c'è differenza: quelli passati non sono più modificabili, quelli futuri (probabilmente) sì! Resta invece ancora valida l'idea, per me, che uno dei risultati di una futura "ontologia per tutti" sia proprio quello di orientare e far capire ciò che è importante e ciò che non lo è. Qualcosa del genere nel pensiero contemporaneo, una sorta di ontologia (basata sul concetto di realtà) che però al tempo stesso è anche una mappa dei valori la si può trovare nel libro di Robert Nozick (il filosofo ritratto nella foto) La vita pensata. Ovviamente Platone resta l'esempio fondamentale. Traccio di seguito un percorso di citazioni nel testo La vita pensata (The Examined Life, 1989), in modo da dare un'idea dei concetti fondamentali che utilizza e di come ha impostato il suo discorso. "Certe volte una persona sente di essere più reale. Voi ... quando vi sentite più reali?... Qualcuno potrebbe pensare che la domanda è confusa. In tutti i momenti in cui la persona esiste, esiste, e quindi deve essere reale. ... possiamo però distinguere vari gradi di realtà. Consideriamo anzitutto i personaggi letterari. Alcuni sono più reali di altri. Pensiamo ad Amleto, Sherlock Holmes, Lear, Antigone, Don Chisciotte, Raskolnikov. Nessuno di loro esiste, eppure sembrano addirittura più reali di certe persone che conosciamo e che esistono. ... La loro realtà consiste nella loro vivacità e incisività, nella coerenza con cui sono mossi o afflitti da un determinato fine. ... Le caratteristiche che esibiscono ne fanno nuclei più concentrati di organizzazione psicologica. Simili personaggi letterari diventano simboli, paradigmi, modelli, epitomi. Sono fette estremamente concentrate di realtà. ... Opere d'arte, dipinti, pezzi musicali o poesie spesso sembrano fortemente reali. ... forse è che esse, proprio per le loro qualità, trattengono e ripagano più durevolmente l'attenzione che dedichiamo loro. In ogni caso le percepiamo più equilibrate e più nitide; le percepiamo più vividamente. Anche altre caratteristiche diverse dalla bellezza, come l'intensità, la potenza e la profondità, danno luogo a questa vivezza di percezione. ... Anche i matematici delineano oggetti e strutture in cui proprietà molto nette si intrecciano in una rete fittamente stratificata di possibilità, relazioni, implicazioni combinatorie. Chiedere: 'Le entità matematiche esistono?' - la domanda che fanno i filosofi della matematica - non coglie il senso della loro vivida realtà- ... Stando alla tradizione, Platone riteneva che le Forme - che secondo le sue teorie erano le entità più reali - fossero (come) numeri. La sfera della matematica, con la sua chiarezza, attira la nostra attenzione per questa sua realtà. Così come alcuni personaggi letterari sono più reali, lo sono anche alcune persone. Socrate, Buddha, Mosè, Gandhi, Gesù... ... Anche noi, però, siamo più reali in certi momenti che in altri, più quando siamo in un certo modo piuttosto che in un altro. Sovente le persone dicono di sentirsi più reali quando stanno lavorando con molta concentrazione e attenzione... si sentono più reali quando si sentono più creative. Alcune dicono durante l'eccitazione sessuale, altre quando sono lucide e imparano cose nuove. Siamo più reali quando tutte le nostre energie sono focalizzate, la nostra attenzione è concentrata, quando siamo attenti, nel pieno dell'efficienza, e usiamo i nostri (positivi) poteri. Concentrandoci intensamente mettiamo più a fuoco anche noi stessi. ... La sfera del reale, di ciò che possiede più di un certo grado di realtà, non coincide con ciò che esiste. I personaggi letterari possono essere reali pur non esistendo; le cose esistenti possono avere solo il grado minimo di realtà richiesto per esistere. E' possibile situare il limite inferiore della realtà al livello dell'esistenza; niente di ciò che è meno vivido e nitido di ciò che esiste potrà essere definito reale. Ma la realtà ha diversi gradi, e la realtà che qui ci interessa particolarmente sta al di sopra di questo limite inferiore minimo. ... La "realtà" è la categoria valutativa fondamentale, oppure ce n'è un'altra ancora più fondamentale che serve a comprendere e valutarla? La categoria più basilare, per come la vedo io, è quella della realtà."