11 ottobre 2008

La macchina del libero arbitrio, parte I



Era una mattina scintillante di sole. Durante la notte un violento temporale aveva sconquassato l’atmosfera, ma quando uscii di casa il cielo era azzurro e tutto appariva come lavato dalla pioggia: l’aria pulitissima, i contorni delle cose più netti, definiti. Era una di quelle giornate nelle quali sentivi il privilegio di poter essere fra i tre miliardi di uomini che ancora vivono sulla Terra. La luce e il clima mi avevano messo di buonumore, nonostante avessi passato una notte agitata. Mi sentivo leggero, mentre mi dirigevo a passo deciso verso il centro della città con una borsa pesante, piena di lavori in corso.
Quando entrai nel mio laboratorio, dopo aver salutato alcuni colleghi ed essermi chiuso la porta alle spalle, vidi che Robert era già alla sua scrivania e notai anche uno scatolone verde appoggiato sul tavolo delle novità. Il colore insolito attirò la mia attenzione.
− Hai già visto di cosa si tratta?
− Mai prima di te, Alec. Comunque tutto il lavoro arretrato che abbiamo non mi sembra molto interessante, quindi propenderei per aggredire subito il lavoro nuovo.
− Pienamente d’accordo. Apri tu?
− Ma certo.
Le mani paffute di Robert scivolarono velocemente sull’involucro che in breve fu aperto, rivelando quattro pezzi da assemblare, tutti in materiale lucido, nero, probabilmente zirconio riciclato, di cui tre avevano un aspetto abituale: una tastiera, un monitor piatto, un casco bioelettronico. La novità doveva quindi risiedere nel quarto pezzo, il cui aspetto, un parallelepipedo il cui lato più lungo misurava circa sessanta centimetri, sembrava innocuo. Il manuale di istruzioni aveva più l’aspetto di un libro che di un fascicolo. Scrollai la testa.
− Quando si decideranno a capire che la gente vuole istruzioni brevi, oltre che semplici e chiare?
− Queste sono veramente esagerate… 220 pagine! − disse Robert sfogliando il manuale.
Ogni pezzo era avvolto dal cellophane, ma prima di stracciarlo e iniziare il montaggio, guardai la scheda di produzione. Lessi ad alta voce: «MACCHINA DEL LIBERO ARBITRIO (nome provvisorio)». Guardai Robert con aria perplessa; notai che le sue pupille si stavano ingrandendo, ma anche lui aveva un’espressione interrogativa.
− Che roba può essere, secondo te? − gli chiesi.
− Conviene leggere almeno la scheda, Alec. Capisco tu abbia fretta, ma…
− Va bene, va bene.
Lessi oltre:

Caratteristiche del prodotto: la macchina è in grado di aumentare, a diversi livelli e in diverse modalità, il libero arbitrio di chi la sta usando, ovvero aumenta la capacità di compiere scelte liberamente, in modo indipendente da ogni forma di necessità. Contiene inoltre dispositivi che consentono di verificare se scelte già compiute erano libere o no.

Dati tecnici: la macchina combina l’ingegneria neuronica con la biopsicologia applicata. Sfrutta inoltre le leggi psicotemporali di Civita, il campo logico di Piana, la recente teoria matematica dei flussi di realtà (cfr. Slatansky-Frisk, Realtà, iporealtà, iperrealtà, metarealtà, in «Iconica», VIII, 2) e il teorema delle possibilità frazionate di Goffkenshi. Il modello di mente utilizzato è il n. 8934, nella versione corretta dall’ipotesi Blank-Keller-Rogarshami (cfr. «Encyclemata», CLXXXI, 34)


− È strano − disse Robert − il contrasto fra la raffinatezza degli elementi scientifici utilizzati e l’uso dell’espressione “libero arbitrio”…
− Già… è un concetto che ha come un sapore antico. Mi ricorda cosa studiate alle scuole medie… Tu lo usi mai?
− Se devo essere sincero credo di averlo usato solo durante l’esame di Storia delle Culture Terrestri dell’Era Pre-Esodo…
Guardai Robert con ammirazione. Provavo un po’ di affettuosa invidia per la sua vasta preparazione umanistica, che spaziava anche verso le culture aliene. Ogni tanto mi ero chiesto se coloro che avevano scelto lui come mio assistente avessero ragionato sul fatto che la sua formazione potesse integrare la mia. Robert aveva studiato nella Comunità Euroafricana, io nelle maggiori università asiatiche, e mi ero presentato alla Hoekk con una laurea in ingegneria biochimica e una specializzazione in logica dei circuiti neurali.
− … ricordo che una delle domande riguardò i caratteri peculiari della cultura greco-cristiana rispetto a quella indo-cinese delle origini, e che citai con successo questo concetto fra quelli caratteristici.
− Ma sei d’accordo con me che non fa parte del linguaggio comune, anche se sia tu che io ne conosciamo il significato?
− Direi di sì.
− Ad ogni modo, Robert, direi di procedere come al solito.
Generalmente il mio modo di provare i nuovi prodotti della Hoekk era molto rapido, e questo era certamente uno dei motivi per cui avevo passato la selezione. Invece di leggere con calma le istruzioni e poi cominciare dal principio, io preferivo buttarmi seguendo l’intuito, cominciare subito a usare la macchina e vedere cosa succedeva (del resto era convinzione dell’azienda che questo fosse anche l’atteggiamento della maggioranza dei clienti che compravano e usavano i prodotti di avanguardia, generalmente giovani fra i quindici e i venticinque anni terrestri); poi, se qualcosa non andava o se c’era qualcosa che non capivo, consultavo le istruzioni come fossero un dizionario o ricorrevo alla pazienza di Robert, che le affrontava con la calma di un decifratore di documenti in lingue aliene.
Seguito dagli occhi attenti di Robert, cominciai col montare il monitor sulla tastiera, mi infilai in testa il casco, collegai il tutto al quarto pezzo. Non restava che accendere. Il pulsante generale era su un lato del casco. Lo schiacciai e diedi un occhiata al video. Compariva un riquadro con un’opzione fra due possibilità

1. Aumento della capacità di scegliere liberamente

2. Verifica della libertà di scelte già compiute

Scegliendo la prima, che costituiva il menù principale del prodotto, vidi che si diramava a sua volta in altre opzioni. Decisi quindi, dopo un cenno d’intesa con Robert, di cominciare con la seconda, che, almeno apparentemente, sembrava la più semplice. Comparve sullo schermo la domanda

Quale scelta intende verificare?

Cominciai a pensare a situazioni e a momenti della mia vita passata, e vidi che mentre pensavo sul video balenavano immagini e scritte con date, orari, frasi, ma scorrevano velocemente. Poi capii che seguivano fedelmente l’andamento dei miei ricordi, esibendo immagini e, in basso, scritte e cifre che contenevano dati e informazioni relative alle immagini stesse. La cosa era sorprendente. Una riproduzione così fedele del flusso di coscienza non l’avevo mai vista. C’erano stati dei tentativi precedenti, che ora mi tornavano in mente (una macchina della GBE che però riproduceva un’immagine ogni cinque secondi, e spesso sfuocate), ma mai visto niente di simile. Con la coda dell’occhio notai che anche Robert spalancava gli occhi e restava come inebetito di fronte a quel prodigio: aveva infatti intuito che stava osservando in tempo reale il contenuto della mia mente nel suo fluire incessante. Mi resi ben presto conto che ai fini del nostro lavoro era meglio non guardare lo schermo in quella fase: infatti se mi concentravo su di esso il flusso di immagini e dati rallentava fino a fermarsi. Ripresi quindi a pensare senza guardare il monitor, e subito mi si impose una questione preliminare. Che interesse poteva avere il verificare la libertà di una mia scelta passata? Avevo mai avuto dubbi in proposito su qualche scelta? Ma, innanzitutto: che significato preciso aveva il termine “libertà” applicato a una scelta? Decisi che si imponeva un chiarimento. Tolsi il casco, naturalmente dopo avere effettuato la procedura standard di scollegamento temporaneo durante l’accensione, onde evitare la bruciatura di alcuni circuiti bioneuronici. Guardai Robert. Non fu necessario dirgli quali fossero i miei dubbi, perché li aveva letti sul monitor un attimo prima. Sul monitor, infatti, comparivano proposizioni che seguivano fedelmente l’andamento del pensiero. Il volto di Robert era visibilmente animato da una forte eccitazione intellettuale.
− Prima di parlarne… accidenti, Alec! Ma hai visto che roba? Altro che le carabattole per “leggere il pensiero” della GBE, qui c’è un balzo in avanti! La definizione delle immagini e il numero di “istantanee” della tua mente… saranno circa 23 al secondo… Sembra di vedere un film!
- Calma, Robert. Ricordati che stiamo lavorando e dobbiamo andare all’obiettivo. Ancora non abbiamo capito a che cavolo serve questa macchina. Cosa rispondi alle mie domande di prima?
− In senso generale, inteso come una facoltà umana, il “libero arbitrio” è ciò che consente all’uomo di sentirsi responsabile delle proprie azioni, padrone di se stesso, degno di approvazione per le cose buone che ha fatto e colpevole per i propri errori. In particolare, se non sbaglio, si definisce libera una scelta se è contingente e se dipende unicamente dal soggetto stesso.
− Con “contingente” intendi “indeterminata”?
− No, perché una scelta dev’essere determinata dal soggetto che la compie.
− E allora?
− Scusa Alec, ma abbiamo qui un bel manuale di istruzioni. Non potremmo…
− Non vorrai adesso metterti a leggere il manuale dal principio!
− No, ma ci sarà pure un glossario… Vediamo se c’è la definizione di “contingente”.
− Ok, vai, ma veloce.
Robert carpì il volumotto delle istruzioni. Lo aprì come se avesse a che fare con un istrice. Dai movimenti che fece con le pagine capii che per prima cosa aveva guardato i nomi degli autori, il copyright, l’indice. Dopo qualche secondo mi guardò raggiante.
− Trovato!
− Ebbene?
− Dice: “Una scelta si definisce contingente se, alle identiche condizioni in cui si è verificata, avrebbe potuto essere diversa”. Ma scusa, − aggiunse Robert − se questa macchina è in grado di verificare la contingenza di una scelta significa che… − e si fermò a pensare. Robert era di statura media, grassoccio, biondo e di carnagione chiara. Il viso largo era dominato da grandi occhi griogioverdi, che mentre pensava diventavano particolarmente acquosi.
− Che? − lo incalzai
− … beh, che è in grado di superare una sorta di barriera metafisica legata all’irreversibilità del tempo. Nella realtà, l’istante in cui si compie una scelta non può più ripresentarsi identico, quindi non possiamo mai essere nelle identiche condizioni in cui abbiamo compiuto una certa scelta e verificare la sua contingenza!
− Senti caro, credo tu sappia che questo modo di intendere il tempo è stato superato scientificamente già da secoli!
− Sì, ma io non sto parlando del tempo fisico, sto parlando del tempo vissuto! Il tempo vissuto è irreversibile, non credi?
− E allora i ricordi cosa sono, buchi nel tempo vissuto?
− I ricordi sono eventi mentali che accadono comunque nel presente, si svolgono nel flusso unidirezionale del tempo vissuto.
− Sì, d’accordo, ma torniamo a noi. Ti ricordo ancora che stiamo lavorando. Quale può essere l’utilità di questa opzione 2: “verifica della libertà di scelte già compiute”?
− Mi consenti un’altra occhiata al manuale d’istruzioni?
− D’accordo, ma nella mia relazione scriverò innanzitutto che se per capire una macchina devo prima leggere le istruzioni allora voglio istruzioni lunghe al massimo venti pagine, non duecento!
− Allora vediamo… Precauzioni, Montaggio… Ecco: Scopi e utilità del prodotto! Dunque… Robert scorreva velocemente le pagine, in cerca dell’informazione che in quel momento ci serviva. Come avrei fatto a lavorare, senza il suo aiuto?
− Qui pone due domande che mi sembrano cruciali.
− Dài, leggi.
− “Vi sono stati casi in cui avete sostenuto di non aver avuto scelta, mentre altri affermavano che avreste potuto benissimo scegliere diversamente? Vi sono stati casi in cui credevate di aver potuto scegliere diversamente mentre altri sostenevano che non avevate scelta?”
Queste domande furono come un sasso gettato in uno stagno: cominciarono a venirmi in mente vaghi ricordi di accuse subite, di scuse e giustificazioni, di sensi di colpa, di pietà e comprensione ricevute. Da questo groviglio emotivo emerse pian piano un ricordo, un fatto che si era verificato da poco ma che già stavo cominciando a dimenticare. Riemerse e si impose alla mia attenzione in tutta la sua chiarezza. Mi rinfilai subito il casco. Sul monitor appariva la scritta

Quale scelta intendi verificare?

Cercai di concentrarmi. Mi trovavo in casa di amici. La serata si era svolta piacevolmente, fino a quel momento. La coppia che ospitava me e la mia fidanzata Renate era formata da persone deliziose. Avevano preparato una cena a base di pesce importato direttamente dal pianeta Vertigalio, cibo costosissimo oltre che squisito. La conversazione era molto fluida e piacevole, ma gradualmente, forse per effetto del vino africano, fra Renate e i nostri ospiti si era creata della tensione. A un certo punto era scoppiata una lite furibonda, Renate era bersagliata da un fuoco incrociato di critiche sprezzanti e reagiva attaccando a più non posso. Io ero completamente paralizzato. Ero perfettamente presente nella situazione, ma non riuscivo a spiccicare parola. Il mio imbarazzo era stato fortissimo quando Renate mi aveva lanciato un’occhiata profonda. In quel momento mi stava chiedendo, pur senza dirmelo, di intervenire, di parlare, di dire qualcosa in sua difesa, di mostrare di essere dalla sua parte. Ma io niente, pur avendo capito benissimo cosa mi stava implicitamente chiedendo. In generale, reggo male le situazioni in cui si sprigiona aggressività. Dopo poco Renate aveva preso la sua roba ed era andata via. Era infuriata e lo era, a quel punto, anche con me. In seguito, quando ci eravamo rivisti lei e io, c’era stata una discussione fra noi dove lei diceva che le era sembrato incredibile quel mio atteggiamento. «Come hai potuto startene zitto!», mi aveva detto, e io cercavo di spiegarle come in quel momento, quando lei mi aveva guardato, io non riuscissi, pur essendo dalla sua parte, a fare altro che star lì, penando, senza dir niente. A lei questo sembrava inconcepibile: «Avresti potuto benissimo dire per lo meno che non eri daccordo con quel modo di fare! Anzi, avresti dovuto, visto che lo pensavi, dirlo!». Ricordare quella serata e questa recente discussione con Renate mi turbava non poco, ma mi sembrava che il tutto si prestasse al gioco che la macchina del libero arbitrio mi proponeva. Infatti adesso, usandola, avrei potuto finalmente sapere se aveva ragione Renate o se avevo ragione io, cioè se quando lei mi aveva guardato quella sera io avessi avuto realmente la possibilità di scegliere e quindi di comportarmi diversamente da come avevo fatto oppure no. Potevo assolvermi dalle sue accuse o ero realmente colpevole di vigliaccheria, di scarsa generosità? («Sei avaro di te stesso!» mi aveva detto.) Decisi dunque che quello sarebbe stato il caso che avrei sottoposto ad esame con la macchina. Guardai il video. L’immagine di Renate che mi scoccava la sua occhiata profonda, implorante aiuto, campeggiava nettissima, al punto che mi turbò rivederla. Sotto erano riportati i dati relativi a quella serata, e in particolare l’ora precisa, al decimo di secondo, in cui avevo scelto, se di scelta si trattava, di restare zitto. Era incredibile la fedeltà con cui quella macchina riusciva non solo a seguire il flusso dei miei pensieri, ma anche a tradurlo in immagini, parole e cifre. Un’altra cosa mi stupiva. Evidentemente la macchina mi avrebbe ora riportato a quel momento, l’occhiata di Renate. Ma dato che gli spostamenti temporali, per quanto perseguiti instancabilmente dalla ricerca scientifica, non erano – e come sapete non sono tuttora – accessibili all’uomo, la macchina doveva basarsi su una riproduzione esatta del mio vissuto di quel momento passato, andando a ripescarne la traccia nei meandri delle spirali neuroniche. Ciò rappresentava una novità assoluta sul piano tecnologico. Sul monitor compariva ora una scritta che mi invitava, se volevo procedere all’esperimento, a premere il tasto rosso sul casco. La scritta mi avvertiva anche che, per la durata della verifica, avrei perso ogni memoria di quanto accaduto dal momento prescelto al presente, e che l’avrei riacquistata allo scadere del periodo di verifica. La cosa era un po’ inquietante, ma, fiducioso nei test di innocuità che sempre venivano fatti sui propri prodotti dalla Hoekk, e dopo aver scambiato un cenno con Robert, che annuì con fare rassicurante, schiacciai il fatidico tasto. Immediatamente ripiombai nella tempestosa situazione emotiva di quella serata, riprovai esattamente la stessa sensazione penosa di paura mista a vergogna e angoscia, e rividi, come fossi stato lì, la stessa scena. Gli occhi di Renate si puntarono su di me penetrandomi... Dopo pochi secondi ritornai alla realtà. Sul video compariva la scritta:

nelle identiche condizioni, lei ha compiuto la stessa scelta.

Ero un po’ scombussolato dall’esperienza appena trascorsa; il cuore mi batteva ancora forte, come allora, e avevo ancora la bocca un po’ secca, ma ero contento per l’esito dell’esperimento. Tolsi il casco e mi girai di scatto verso Robert. Ero sicuro, conoscendolo, che avesse seguito tutta la vicenda nei minimi dettagli, leggendo quello cha era accaduto e seguendo l’esperimento attraverso il monitor. Saltando ogni preambolo gli dissi:
− Dunque avevo ragione io, nella discussione con Renate! Era vero che non avrei potuto, in quel momento, fare altro! Era al di fuori della mia portata, quindi non ero imputabile di alcuna colpa. La macchina parla di scelta, ma visto che si è ripetuta identica significa che era in realtà una “scelta obbligata”… Insomma, non ho, in realtà, fatto una vera scelta! Robert sembrava imbarazzato. Arrossì, e non capivo il motivo di questo suo stato d’animo. Cercai di calmarmi e gli chiesi nel tono più normale e neutro possibile:
− Che c’è? Qualcosa non va? Non sei convinto?
− Devo essere sincero, Alec, ma tutta la faccenda e anche il modo che hai tu di interpretare l’esito dell’esperimento non mi quadrano.
− Non capisco… Cosa c’è che non quadra?
− Beh, insomma. Innanzitutto: tu dici che non si è trattato in realtà di una scelta, che non potevi agire diversamente da come hai agito, ma stai considerando proprio quell’episodio come esempio di una scelta che ti interessava verificare fosse stata libera o no. E soprattutto: il fatto che nell’esperimento tu ti sia comportato nello stesso modo si potrebbe interpretare in maniera diametralmente opposta a come lo interpreti tu. Si potrebbe dire che in quella circostanza, quando Renate ti chiedeva implicitamente manforte, avresti potuto agire diversamente ma non l’hai fatto, ed ora nell’esperimento hai confermato la tua scelta, quindi sei proprio tu che hai scelto di non agire come voleva Renate.
− Oddio, Robert, vai piano perché sto perdendo le tracce del senso di tutto questo problema. Calma. Ragioniamo. Io dico: il fatto che nelle identiche condizioni, riprodotte artificialmente dalla macchina, mi sono ora comportato nello stesso modo prova che in quel momento non potevo fare diversamente!
− Sì, ma come ti ho appena spiegato si tratta secondo me solo di una possibile interpretazione. È possibile anche l’altra, che ti ho detto prima… che potevi agire diversamente, ma hai confermato la tua scelta passata.
− Ma allora questa macchina a che cazzo serve!!?? − sbottai, ma subito ripresi il controllo − Scusa, Robert, mi sono un po’ irritato perché rivivere tutta quella situazione con Renate mi ha scosso.
− Non proccuparti. Piuttosto, guarda un po’ cosa c’è ora sul monitor…
Robert stava puntando il suo indice grassottello verso la macchina. Campeggiava questa scritta:

vuole riprovare?

Robert ed io ci girammo contemporaneamente uno verso l’altro. Gurdandoci negli occhi, ci veniva da ridere.
− Ma che vuole ancora? − dissi.
Robert, con la sua infinita pazienza, tirò un sospirone e cominciò a pensare. Trascorse un minuto di silenzio, nel quale sia lui che io cercammo di metabolizzare il significato di quella nuova scritta. Poi Robert disse, ma c’ero arrivato anch’io:
− Dato che puoi rivivere quel momento del passato senza nessuna memoria delle tue esperienze successive, niente impedisce che tu possa riviverlo una seconda volta!
− Già. Diedi un’occhiata all’orologio e considerai i tempi di lavoro. Era ancora abbastanza presto. Dal momento che la cosa era molto breve (evidentemente la macchina limitava l’esperimento al tempo utile per compiere la scelta) decisi di riprovare, anche se mi costava un po’ rivivere quelle emozioni sgradevoli. Rimesso il casco, schiacciai di nuovo il tasto rosso. Le sensazioni furono identiche. Rividi gli occhioni di Renate che mi scrutavano, e riemersi dopo pochi secondi. Il monitor diceva ancora: nelle identiche condizioni, lei ha compiuto la stessa scelta. Dopo un paio di secondi comparve di nuovo la scritta:

vuole riprovare?

Stavo cominciando ad irritarmi di nuovo:
− Dài, Robert, ma è pazzesco! Ma quante volte dovrò provare, secondo te, per essere sicuro che avevo ragione io?
− Sempre ammesso, ribadisco, che la tua interpretazione sia quella corretta!
− Sì, sì. Ma lasciamo perdere per ora quella complicazione. Ora mi interessa sapere cosa dice la macchina sulla quantità di volte necessarie per avere una risposta definitiva. Robert riprese in mano il manuale di istruzioni. Questa volta la consultazione fu più laboriosa, ma dopo qualche minuto, mantre io facevo esercizi di rilassamento, Robert mi lesse quanto segue: “Non ci sono limiti alla possibilità di ripetere un esperimento di verifica sulla libertà di una scelta passata.”
− E sulla questione di come interpretare gli esisti degli esperimenti non dice?
− Sì, dice, ma entra in questioni matematiche troppo complesse per essere affrontate così sui due piedi… tira in ballo il calcolo delle probabilità modali basato sui numeri immaginari… un casino… È pieno di formule astruse… Da una lettura veloce ti confesso che non capisco dove vada a parare.
− Ci vorrebbe Stakowsky, oppure dovremmo andare a chiedere ai cervelloni che hanno progettato questa macchina. No, entrambe le cose sono troppo lunghe da fare. Non abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Sui tempi di consegna delle relazioni sono rigidissimi, ormai l’abbiamo capito. Via, dobbiamo cavarcela da soli. Del resto mica possono pretendere che un comune mortale ne sappia così tanto di matematica… Ma insomma, continuo a dire che questa manìa delle istruzioni difficili deve finire! Credo che inizierò la mia relazione proprio da questo.
− E allora che si fa?
− Vabbè, senti, riproviamo un po’ di volte. Per farla breve: riprovai per otto volte, sempre con lo stesso esito. Cominciavo a essere stanco. Rivivere le emozioni di quella serata, e in particolare le emozioni di quel momento così penoso e difficile, mi stava stressando. Avevo i battiti del cuore sempre alti, la bocca completamente asciutta e iniziavo a sudare. Ma la curiosità era più forte, e provai ancora. La nona volta accadde qualcosa di diverso. L’occhiata di Renate scoccò verso di me e io reagii venendomene fuori con una frase nei confronti dei nostri ospiti: “Ma insomma, io sono stufo! Non vi accorgete che la state tormentando? Non mi importa niente della cena che ci avete offerto, se poi vi comportate così!!”.
Feci appena in tempo a vedere le facce stupite della coppia e il sorriso grato di Renate (tutte cose simulate dalla macchina in base ai dati reali in suo possesso, evidentemente), quando l’esperimento ebbe fine. Sul video campeggiava la scritta:

nelle identiche condizioni, lei ha compiuto una scelta diversa.

Si affollarono subito nella mia mente una serie di pensieri. “Allora aveva ragione lei... Era vero che avrei potuto comportarmi diversamente, che avrei potuto aiutarla, dire qualcosa!” Il senso di colpa tornò a farsi sentire. Mi rivolsi a Robert, cercando di respirare con calma per prendere un po’ di distacco.
− Ma allora secondo te questa volta, questo nono esperimento, annulla i precedenti otto?
− Beh, se rimaniamo nella tua interpretazione direi di sì, nel senso che ora, con questo nono esperimento, abbiamo la prova… diciamo “empirica” che la tua scelta era contingente: effettivamente avresti potuto scegliere di comportarti diversamente.
− Quindi aveva ragione Renate?
− Sì, anche se il fatto che per otto volte tu abbia ripetuto la stessa scelta dovrà pure significare qualcosa…
− Il fatto che non ci siano limiti alla possibilità di ripetere l’esperimento mi inquieta. A questo punto vorrei una risposta. Ancora una volta calcolai i tempi di lavoro. Potevamo concederci ancora un po’ di ricerche. Decisi che avrei riprovato ancora ventuno volte, in modo da arrivare a trenta esperimenti. Mi ci volle mezz’ora. Esito complessivo: per cinque volte la mia scelta si rivelò diversa da quella che si era realmente verificata (andando sempre, con qualche variante, nella direzione di un’espressione liberatoria, che mi faceva uscire dall’imbarazzo); per venticinque volte fu identica.
Mi sentivo come un eroe, alla fine di quei trenta esperimenti, ma come un eroe che ha compiuto una grande impresa per poi perdere la strada. Mi rivolsi a Robert con aria stanca ma decisa.
− Io a questo punto vorrei trarre delle conclusioni, se no la macchina, almeno nell’opzione 2, è perfettamente inutile. Ma ti assicuro, Robert, che ho le idee piuttosto confuse e mi rifiuto di ricorrere a quelle terribili istruzioni zeppe di formule matematiche!
− Va bene, cerchiamo di ragionare con calma.
− Sì, ma cerchiamo anche di andare al sodo. Robert si mostrò infastidito da questa mia ultima battuta:
− Allora, Alec, siamo alle solite: tu vuoi una risposta, vuoi trarre delle conclusioni, hai questa ossessione di stare nei tempi di lavorazione su un prodotto, vuoi stringere, e vuoi stringere in fretta, ma tu stesso devi riconoscere che qui non c’è modo di fare in fretta, dato che affermi di avere le idee confuse e non abbiamo tempo di decifrare il manuale della macchina!
− Ok, ok, frena. Hai ragione tu. Intanto senti, che ne dici di prenderci una pausa?
− Mi sembra un’ottima idea.
Usciti dal laboratorio, andammo a prendere un po’ d’aria fresca nel giardino che circondava il palazzo della Hoekk. Il rumore dei nostri passi sulla ghiaia e il ronzare di un’ape mi fecero tornare il senso della realtà. La giornata era così bella che era molto difficile non essere distratti dai colori e dalle forme. Ci fermammo a guardare i pesci rossi nella grande vasca del giardino. Sentivo il calore del sole sulla pelle.
Fu Robert a rientrare in argomento, con grande cautela:
− Dunque senti, cercando di stare coi piedi per terra…
− Sì, ma sentiti libero di dirmi anche tutti i tuoi dubbi.
− Va bene, ma partiamo da una cosa molto semplice. Il caso che tu hai voluto sottoporre alla macchina è un caso nel quale a te era sembrato di non essere stato libero, giusto?
− Sì, in quella situazione il mio restare zitto mi era sembrata l’unica cosa che fossi in grado di fare.
− Bene. Ora arriva questa macchina e ti dice che in realtà dentro di te c’era anche la possibilità di agire diversamente.
− Sì.
− Ma ti dice anche che questa possibilità non era tanto possibile. Era possibile ma era poco possibile…
− Intendi il fatto che per un sesto delle volte, su trenta, ho agito diversamente.
− Infatti. Quindi volendo trarre una conclusione si potrebbe dire: il tuo restare zitto non era una necessità assoluta, ma era la cosa più alla tua portata in quel momento. Per agire come voleva Renate avresti dovuto fare un sforzo particolare. Resta il fatto che era nelle tue possibilità agire diversamente.
− E perché non l’ho fatto?
− Evidentemente la motivazione che c’era per spingerti a ciò non era abbastanza forte, oppure potremmo dire che tu non le hai assegnato abbastanza forza in quel momento.
− È per questo, quindi, che dopo Renate ce l’aveva con me: perché non ho tenuto abbastanza conto del suo bisogno di aiuto in quella circostanza… Sì, mi sembra una conclusione plausibile, però adesso mi viene un altro dubbio. Dopo dieci tentativi la contingenza della mia scelta era 1 su 10. Dopo trenta tentativi era 5 su 30. Quindi da un decimo siamo passati a un sesto. Chi ci dice che proseguendo, riprovando 100, 300, 1000 volte la proporzione non si riduca sempre più? Da un sesto si potrebbe passare a un quarto, a un terzo, fino ad arrivare a un mezzo. E addirittura le cose potrebbero capovolgersi, cioè si potrebbe verificare che a un certo punto risultino più le volte in cui agisco diversamente di quelle in cui ripeto la stessa scelta.
− È vero, non c’è nessuna garanzia in proposito.
− Sai cosa? Resta il fatto che per ora continuo a non capire tanto l’utilità o il divertimento di una macchina come questa. Forse l’uso principale, quello che dà il senso a tutto quanto, è l’opzione 1, l’aumento della capacità di scegliere liberamente.
− Penso anch’io − disse Robert − però mi piacerebbe fare un altro esperimento con l’opzione 2, prima di passare alla 1.
− Si può fare…
− Ti spiace se uso io la macchina, questa volta?
In teoria avrei dovuto essere sempre io a usare le macchine. Robert aveva il ruolo di assistente, ma ormai lo conoscevo bene e sapevo che potevo fidarmi delle sue capacità. Non sarebbe stata la prima volta che gli lasciavo fare il mio lavoro e io diventavo assistente. − D’accordo, non c’è problema. Cosa intendi verificare?
− C’è stato un momento importante nella mia vita… una svolta, della quale mi piacerebbe conoscere il grado di libertà… sapere se era in mio potere scegliere diversamente.
− È una cosa riservata? Sai che per regolamento non posso lasciarti solo con la macchina…
− No, Alec, non c’è problema. Riguarda il mio orientamento affettivo.
Ci conoscevamo già bene Robert ed io. Due anni prima mi aveva presentato il suo compagno, con cui stava da sei anni, Willy. Ogni tanto Renate ed io uscivamo con loro a cena, o si andava a passeggiare lungo il fiume.
− Forse non te l’ho ancora raccontato − riprese Robert − ma prima di mettermi con Willy ho passato un periodo di confusione, riguardo all’orientamento del desiderio, e prima ancora ho avuto alcune storie etero.
− Me ne avevi accennato.
− Beh, nel periodo di confusione mi ero rivolto a un terapeuta, il quale mi aveva proposto un percorso per diventare decisamente etero.
− E perché mai?
− Credo fosse un espediente per mettermi di fronte alla necessità di una scelta. In effetti, di fronte a questa prospettiva terapeutica ho dovuto prendere una decisione, e ho capito quello che veramente volevo.
− È questa decisione, che intendi verificare?
− Sì, ma non vorrei che mi fraintendessi. Sappiamo benissimo che l’orientamento affettivo e sessuale non è questione di scelta. Nessuno può scegliere l’orientamento del proprio desiderio. Sappiamo anche che l’orientamento può cambiare nel corso della vita, o che può agire sotterraneamente per un periodo e poi emergere, all’improvviso o gradualmente. Nel mio caso, in quel momento, quando mi sono rivolto alla psicoterapia, si è trattato della scelta di realizzare un desiderio che sentivo, ma che sentivo in maniera confusa, problematica. Nel momento in cui ho deciso di realizzarlo, ho anche capito che quello era, per me, il desiderio prevalente, forte, il vero desiderio.
− Capisco. In effetti mi sembra un caso interessante. Ma sei sicuro che provare la macchina su una cosa del genere non possa crearti qualche problema?
− No, anzi. Ormai sulla questione del mio orientamento non ho più dubbi. Mi interessa sapere quanto fossi libero, in quel momento, di realizzarlo o meno.
Rientrammo in laboratorio. Seguii Robert con molto interesse, affascinato soprattutto dal poter “vedere” sul monitor il suo flusso di coscienza. Anche Robert decise di ripetere lo stesso esperiemento per trenta volte. Il risultato, nel suo caso, fu sempre lo stesso:

nelle identiche condizioni, lei ha compiuto la stessa scelta.

Alla fine Robert era abbastanza stanco. Evidentemente anche per lui rivivere quel momento, che sicuramente non era stato facile, comportava un notevole dispendio di energia, per quanto ogni volta la cosa durasse poco più di un minuto. Questa volta toccò a me cercare di aiutarlo a interpretare il risultato.
A tutta prima Robert appariva costernato:
− Ma allora, Alec, che significa? Non avrei potuto scegliere diversamente… Ciò vuol dire che non avevo scelta? Quindi la mia scelta non è stata libera? Ma allora non posso neanche chiamarla una scelta…
− Innanzitutto calma. Bevi qualcosa e rilassati. Gli porsi una bottiglietta di succo di frutta fresco, presa dal distributore automatico. Accettò volentieri, e vidi che mentre beveva, piano piano il suo viso si distendeva e riacquistava la luce consueta.
− Allora, Robert. Qual è il problema?
− Io credevo di aver avuto un ruolo, nella storia dell’evoluzione del mio orientamento affettivo. Credevo di essere stato bravo, in quel momento difficile, quando ero in confusione. Credevo insomma di aver fatto la scelta giusta, e adesso scopro che non posso neanche chiamarla “scelta”, dal momento che non avevo alternative.
− Ma tu stesso prima, dicevi che in materia di orientamento affettivo e sessuale non si tratta di scegliere.
− Sì, ma io a un certo momento ero confuso fra orientamento “etero” e “omo”, e ho dovuto scegliere quale realizzare.
− E come hai fatto a scegliere?
− Ho considerato l’ipotesi del terapeuta, e mi sono reso conto che rinunciare ai miei desideri verso gli uomini significava rinunciare a una parte importante del mio io. Era come rinunciare a un lato fondamentale del mio carattere… sarebbe stata come una auto-mutilazione… mi spaventava, mi dispiaceva, mentre invece l’altra ipotesi, che poi si è profilata, cioè rinforzare e realizzare quei desideri, pur se mi appariva difficile, mi sembrava più fattibile e mi ridava il buonumore.
− E perché ti appariva “difficile”?
− Per il fatto che sapevo per certo che avrebbe implicato la rinuncia al poter concepire biologicamente un figlio all’interno della coppia che avrei formato.
− Però vivevi questa ipotesi, di realizzare una relazione con un uomo, come quella meno pericolosa per la tua identità.
− Sì, Alec.
− Ma allora, scusa, si può dire che non avresti potuto scegliere diversamente. No?
− In che senso?
− Nel senso che non ti era indifferente diventare, diciamo così, “omo” o “etero”.
− Infatti. Percepivo le due prospettive in maniera anzi molto differente, molto sbilanciata.
− Quindi avresti potuto scegliere diversamente solo se tu fossi stato un altro!
− Ma se la mia scelta era necessaria…
− Necessaria ma libera, cioè corrispondente alla tua natura. Necessaria nel senso che condotta sulla base di un motivo, il desiderio affettivo e sessuale, che di per sé è vincolante e non è oggetto di una possibile scelta, ma libera nel senso che solo tu potevi riconoscere questo desiderio e decidere di realizzarlo, nessun altro al posto tuo poteva farlo. Il terapeuta ti ha solo spinto a uscire dalla confusione in cui ti trovavi. Robert rimase per un po’ a pensare, con i suoi occhi chiari che vagavano acquosi nella stanza. Poi disse:
− Sì, credo tu abbia ragione…
Si trattava anche qui di un problema di interpretazione dei risultati della macchina. Mi resi conto che mi ero sforzato di tranquillizzare Robert con argomenti che lui stesso, in circostanze più tranquille, e soprattutto se non lo avessero riguardato in prima persona, avrebbe prodotto senza difficoltà. Ero riuscito ad imitare il suo stile argomentativo, e mi complimentai con me stesso per esserci riuscito in modo così efficace. Decidemmo che, per quel giorno, ci saremmo dedicati ad altri lavori e l’indomani avremmo provato l’opzione 1. Quella sera, a casa, raccontai a Renate della macchina. Lei non aveva voglia di tornare sull’episodio che avevo scelto per il primo esperimento, ma ascoltò con molta attenzione il mio racconto. Mi resi conto che mi sentivo molto stanco, alla fine di quella giornata. Entrammo presto nella camera antigravitazionale. Prima di addormentarmi, ripensai ancora a quanto era successo la mattina. Quella macchina aveva risvegliato in me alcuni dubbi che forse non si sarebbero mai manifestati, non solo sui singoli casi che gli avevamo sottoposto: più in generale su come noi umani arriviamo ad agire, su ciò che sta alla base del nostro comportamento, e anche su come ne parliamo e ci pensiamo. La sensazione complessiva, comunque, non era di maggiore chiarezza riguardo a tutto ciò, ma di maggiore confusione. Mi immaginai Robert di fronte a quest’ultima mia constatazione. Avrebbe probabilmente risposto: “Per arrivare a una maggiore chiarezza devi passare attraverso una maggiore confusione”. Il sonno sopraggiunse, pesantissimo.

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