11 ottobre 2008

Il marziano assoluto



Su quanto sia brutta la parola “extraterrestre”, così fredda e spigolosa, credo si possa convenire. Userò quindi il termine “marziano”, il cui suono solare mi piace invece molto, nel senso ampio che è venuto ad assumere, ovvero quello di “essere proveniente da un altro pianeta”. Del resto questo uso è ormai inequivocabile, grazie alle tristi spedizioni (costate veramente troppo in vite umane, ma su questo preferisco sorvolare, dato che le vicende dovrebbero essere note a tutti) che almeno una cosa sono riuscite a chiarire: sul pianeta Marte non c’è vita. Ora, si dà il caso che sulla Terra, prima dell’evento che sto per narrare, nessun marziano fosse mai stato avvistato, osservato, studiato. Si erano invero registrate segnalazioni da parte di individui solitari e di dubbia credibilità, le cui storie venivano talvolta riportate dai giornali, ma che non avevano alcuna risonanza nell’ambiente scientifico, né quindi nella sfera delle credenze pubbliche. Dei marziani invece molto si era scritto nell’ambito della narrativa fantastica, e alcuni film di grande successo e bellezza erano stati imperniati proprio sull’incontro dell’umanità con uno o più marziani. Nell’immaginario comune si era inizialmente formata un’idea tipica del marziano (un essere perlopiù simile all’uomo, ma di colore verde e dotato di antenne), che si era però, proprio grazie all’opera della letteratura e del cinema, in seguito arricchita e sfaccettata fino a coprire un ampio spettro di possibilità. Ma, come già qualcuno ha detto, la realtà ha sempre più fantasia dell’immaginazione umana. In un importante centro sperimentale erano riuniti otto scienziati incaricati di fare il punto delle loro ricerche. Alla fine dei lavori avrebbero dovuto produrre una relazione sintetica e unitaria che potesse informare l’umanità sullo stato delle più avanzate conoscenze scientifiche. Era una consuetudine che si ripeteva da ormai quattro anni, grazie al lascito di un miliardario americano, tale H. G. Robertson. Nel suo testamento Robertson, onde evitare infinite dispute legali nonché teoriche, aveva indicato chiaramente quali dovessero essere le otto discipline degne di essere rappresentate ogni anno in quel simposio. Su chi dovesse poi essere di volta in volta scelto come rappresentante della propria materia (ricevendo così il difficile compito di partecipare alla stesura della relazione, ma anche potendo così beccarsi la considerevole somma offerta in premio), aveva decretato il criterio della quantità di pubblicazioni annue (riuscendo quindi comunque a sollevare un annuale vespaio in merito alla valutazione dell’importanza delle pubblicazioni...). Anche quell’anno, quindi, erano presenti i seguenti personaggi: un matematico, un fisico, un biologo, un chimico, un neurologo, un etologo, un antropologo e un semiologo. Erano nel bel mezzo di una discussione quando udirono un frastuono provenire da fuori. Tutti si precipitarono verso l’ingresso e uscirono nel grande e assolato cortile antistante il palazzo. Una sfera rossa di circa tre metri di diametro, liscia e lucente, magnifica nella sua semplicità, troneggiava al centro dello spiazzo di ghiaia. Vi fu un rapido scambio di sguardi, poi il neurologo si affrettò a rientrare, dicendo: «Vado a sentire cosa ha da dirci in proposito il coordinatore dei servizi di sicurezza». La zona circostante al centro sperimentale, rigorosamente protetta da forze militari, avrebbe dovuto essere impenetrabile agli estranei. Gli altri sette si avvicinarono all’oggetto, senza osare toccarlo, girandogli attorno. «È una sfera perfetta!» esclamò il matematico. «Quanto peserà?» si chiese il fisico. «Sembrerebbe fatta di metallo» ipotizzò il chimico. «La cosa strana è che la sua superficie non presenta alcuna cesura, è tutta omogenea, almeno per quanto riesco a vedere da qui» notò il biologo. «Un oggetto simile non ricordo di averlo mai visto prima» disse l’antropologo. «Come avrà fatto ad arrivare fin qui?» domandò l’etologo. “Cosa può significare la presenza di questo strano oggetto?” pensava tra sé e sé il semiologo. Il neurologo tornò trafelato riferendo che del personale di guardia nessuno sapeva niente. Vi fu un momento di panico generale, subito represso. Nessuno riusciva a credere possibile che un oggetto così visibile e anomalo fosse sfuggito all’attenzione di ventiquattro uomini addestrati e avesse eluso anche tutti i radar piazzati intorno all’edificio. Ma ancora peggio era l’ipotesi alternativa (e soprattutto il fisico tendeva a scartarla) cioè che l’oggetto misterioso si fosse improvvisamente materializzato lì. Il gruppo si aggirò per un bel pezzo nei pressi della grande sfera, congetturando e sospirando. Fu l’etologo a sbloccare la situazione. «Colleghi» disse con voce decisa «siamo qui da quasi un’ora che giriamo intorno a questa sfera. Se si fosse trattato di un’arma segreta o di un cavallo di Troia riuscito a penetrare le nostre difese allo scopo di distruggerci, avrebbe avuto ormai tutto il tempo di farlo. Propongo quindi di rompere gli indugi e comportarci come qualsiasi scienziato si comporta di fronte a un fenomeno imprevisto: analizziamolo! Trasportiamo l’oggetto nel laboratorio principale. Là disponiamo di tutta l’attrezzatura necessaria a sottoporre a sperimentazione qualsiasi cosa. Perché non anche questo?» Dopo qualche titubanza la proposta venne accolta. Si constatò che l’oggetto non era molto pesante, e venne fatto allora rotolare fino al centro della grande sala piena di apparecchiature scientifiche, strumenti raffinatissimi frutto delle più recenti tecnologie. Proprio nel momento in cui tutti e otto si apprestavano a tastare, misurare, annusare, stimolare, interpellare, radiografare, sezionare, surriscaldare eccetera, accadde l’imprevedibile. La sfera rossa rivelò essere una specie di guscio d’uovo: si ruppe in miriadi di frammenti, che schizzarono via dappertutto ma senza provocare danni, lasciando vedere cosa c’era al suo interno. Un rapido disegno di ciò che essi videro di primo acchito non è possibile, in quanto per poter descrivere in poche parole un oggetto è innanzitutto necessario che questo abbia un’identità stabile, mentre ciò che essi videro dopo la rottura del guscio fu qualcosa che mutava forma, dimensioni e colore almeno cinquanta volte al secondo, una rapidità decisamente superiore alla capacità visiva dell’occhio umano. Per loro era un po’ come guardare un film dove ogni fotogramma contenesse un’immagine diversa. Il risultato era un frullio di forme indistinte, che li lasciò letteralmente a bocca aperta. Dopo un po’ il ritmo di quelle straordinarie mutazioni cominciò a rallentare, e raggiunse gradualmente una velocità che permetteva agli astanti di vedere chiaramente tutti i passaggi, fluidamente continui, da una forma ad un’altra. La prima cosa che riuscirono a distinguere fu una specie di grande fuso di un rosa madreperlaceo, che andava via via riducendosi e appiattendosi fino a diventare un disco giallastro dello spessore di una trentina di centimetri, con i bordi ondulati, che galleggiava nell’aria roteando su se stesso. Ben presto il disco cominciò a ramificarsi: lungo tutta la circonferenza del suo bordo spuntarono dei bottoncini rossi, che come bocci velocissimi si allungavano e si ingrossavano sempre più, mentre il centro del disco andava riducendosi, fino a che l’insieme assunse l’aspetto di un grosso timone roteante la cui materia, da molle e bagnata che era, andava mutandosi in dura e trasparente, simile al ghiaccio, cangiando il proprio colore in uno stupendo verde smeraldo. Ma ecco che i bracci del timone cambiavano angolazione e si fondevano tra loro, dando luogo ad una struttura a cubo fatta come di tubi d’acciaio saldati alle estremità da globi che sembravano gigantesche ciliegie candite. Queste ultime poi sprizzarono aculei blu sempre più lunghi, mentre l’insieme si trasfigurava in un groviglio informe, peloso e massiccio, da cui poi spuntarono cilindri neri con bizzarre efflorescenze iridate... Gli otto scienziati, attoniti, non riuscirono inizialmente a fare altro che assistere impietriti e ipnotizzati a quel pirotecnico spettacolo di costitutiva instabilità ontologica. Le forme che assumeva erano ora geometriche ora organiche, ma la cosa principale era che non stava un momento in pace, non si stabilizzava mai, neanche per la consistenza e il colore. Questa caleidoscopica girandola visiva di strutture e configurazioni sempre diverse era accompagnata da ondate di odori stranissimi, alcuni nauseanti, altri squisiti, che avevano scarsa somiglianza con gli odori consueti: una delle zaffate più piacevoli che investirono le nari dei presenti fu un profumo descrivibile solo come incrocio fra la lavanda e le pesche mature, con lontane reminiscenze di mimosa. A un certo punto invece stavano quasi per svenire (ma per fortuna durò poco) perché si sprigionò un pestilenziale puzzo che stava fra la plastica bruciata e il burro irrancidito. Contemporaneamente alle mutazioni di forma, ma non sincronizzati con esse, anche i suoni non mancavano. Rumori, versi, timbri, si susseguivano incessanti in una sorta di colonna sonora anch’essa estremamente eterogenea: sibili acutissimi, come sbuffi di pentole a pressione; un gorgoglio cavernoso, come se del semolino stesse ribollendo nel fondo di una grotta; una serie di suoni articolati, come una lingua sconosciuta pronunciata velocissimamente; un boato assordante che sembrava provenire da un’orchestra di soli contrabbassi suonati all’unisono; un ticchettio dal ritmo irregolare, fra lo sfrigolare dell’olio nella padella e il cadere di gocce di pioggia su una lamiera; uno strepito prolungato ma molto variato, che avrebbe potuto essere prodotto dal fracassarsi di centinaia di gusci d’uova; un brevissimo ma molto armonioso accordo consonante ricco di timbri liquidi, che facevano pensare a un organo suonato sott’acqua; uno sciabordare sordo e mugghiante; scrosci, scoppi, frizzi, frullii... Il tempo passava e l’“essere” continuava a non avere un momento di continuità, di calma. Sprofondava e si gonfiava in vertiginose metamorfosi. Gli otto uomini però cominciarono a riprendersi dallo stupore estatico in cui erano piombati. I loro cervelli ripresero a funzionare normalmente, dato che il “fenomeno” mostrava comunque una certa costanza: la sua continuità stava proprio nel non essere mai uguale a se stesso. Il matematico cominciò a prendere appunti sulle forme geometriche che via via comparivano, sia per il loro interesse intrinseco, sia per vedere se c’era un ordine nella successione, se cioè ritornavano forme uguali e in che misura. Il fisico, che aveva gli occhi strabuzzati e stralunati ed era paonazzo, cominciò a trafficare con i suoi aggeggi per tentare qualche esperimento. Il chimico e il biologo cominciarono a confabulare tra loro, decisi nell’intenzione di prelevare un pezzetto di quella “materia in movimento” per osservarla al microscopio, ma incerti sulla strategia da adottare per farlo. Il neurologo si era messo a sedere e stava immobile, impassibile, in contemplazione di ciò che stava accadendo. L’etologo e il semiologo, elettrizzati, corsero a prendere una videocamera per filmare il tutto. L’antropologo, dopo vari rimuginamenti, sbottò: «Signori, mi sembra evidente, perché è l’unica spiegazione possibile, che ci troviamo di fronte a un essere proveniente da un altro pianeta». «Già» disse il fisico «questo spiega molte cose...» Ci fu un rapido passaggio di sguardi fra gli otto, e tutti parvero tacitamente convenire sull’ipotesi che si trattasse di un marziano. Vi fu un momento di esitazione generale. Si trattava, a questo punto, di tentare un approccio, un avvicinamento. Il biologo si era munito di una speciale pompetta che poteva prelevare minime particelle di tessuto senza provocare dolore, ma non osava procedere, temendo possibili reazioni negative da parte del marziano. Il matematico continuò a prendere appunti, il neurologo osservava imperterrito senza far nulla, l’antropologo si tormentava i capelli, etologo e semiologo andarono avanti a filmare. Il fisico, dopo aver messo da parte alcuni delicati strumenti di rilevamento e misura che aveva inizialmente preparato, si diresse verso un angolo della stanza e tornò reggendo un lungo e sottile bastone di legno. «Che intenzioni hai?» chiese preoccupato l’antropologo. «Ho pensato che è inutile andare troppo per il sottile. La prima cosa da fare è provare a toccarlo e vedere come reagisce.» «E vorresti usare quello?» incalzò l’antropologo indicando il bastone. «Suggerisci qualcosa di meglio? Con questo almeno posso tenermi a una certa distanza!» Fu così che a un certo punto, mentre tutti gli altri in qualche modo stavano a guardare, il fisico protese il bastone, avvicinandone lentamente la punta verso quella massa in continuo movimento. Quando mancavano pochi millimetri il marziano era una spirale elicoidale marroncina, con venature azzurre, emetteva un rantolo sinistro e piagnucoloso ed emanava odore di erba bagnata. Il bastone lo toccò delicatamente. Appena venne toccato scomparve del tutto. Svanito! Ci fu un’esclamazione generale, e un’altra subito dopo, quando riapparve, sempre nella stessa forma. Prese poi a scomparire e riapparire a intermittenza, lasciando tutti, ma soprattutto il fisico, di sasso. Non riusciva letteralmente a credere ai suoi occhi. Si decise a toccarlo una seconda volta. A questo punto il marziano reagì replicando se stesso. Non era più uno solo: erano almeno trenta, disseminati in tutto il laboratorio. Tutti e trenta ripresero a mutare rapidamente (ma, notò il matematico, ognuno aveva mutazioni diverse). I trenta poi ridivennero uno, che scomparve. Poi riapparvero tutti insieme. Gli scienziati erano completamente esterrefatti. I trenta marziani si dissolvevano, ne riappariva uno, diventavano trenta, poi uno, poi zero, poi trenta, poi zero, uno, trenta, uno, zero, trenta, zero, uno, trenta, uno, zero, trenta, zero, uno, trenta, uno, zero, trenta... Il neurologo, stizzito, si rivolse al fisico: «Non ti azzardare a toccarlo ancora, se no questo chissà cosa ci combina. Ma ti rendi conto in che guaio ci hai cacciati?». Il fisico, incazzato: «Io vi ho cacciati in che cosa? Io sono stato l’unico a fare qualcosa qui dentro!!!» «Calma, calma» disse l’antropologo. «Non mi sembra proprio il caso di mettersi a litigare di fronte a...» Tutti gli altri stavano per intervenire caoticamente nella discussione, quando il marziano tornò ad essere uno e, meraviglia delle meraviglie, si fermò in una forma stabile: divenne un piccolo cubo bianco che stava fermo, immobile, posato sul pavimento al centro della stanza, senza più emettere alcun suono né alcun odore. La tensione che si stava creando fra gli otto scienziati immediatamente scemò. Si avvicinarono, zitti, a osservare, pronti a cogliere ogni possibile mutamento o movimento. Niente. Già, niente, il cubo restava sempre uguale, ma quello che cominciò a cambiare fu l’ambiente circostante, e mutò con una velocità tale che non fecero in tempo ad accorgersene: in breve si ritrovarono, sempre nella stessa posizione in cerchio con il cubo bianco al centro, proiettati nell’immenso spazio cosmico. Molto vicino a loro vi era un grande pianeta, del quale potevano osservare i rilievi montuosi ma che senz’altro non era la Terra. Le stelle, che avevano una configurazione mai vista, brillavano di una luce chiara e fredda, ma soprattutto li colpì la profondità del nero in cui erano immersi, sospesi, senza poter respirare. Erano tutti paralizzati dal terrore, ma anche questo durò molto poco, solo qualche istante. Dopodiché lo scenario tornò quello consueto del laboratorio. La scossa emotiva era stata violentissima. Ognuno sentì il bisogno di sdraiarsi e riprendere fiato. Mentre gli otto si lasciavano andare su speciali poltrone rilassanti, di cui il laboratorio era ben fornito, e guardavano un po’ inebetiti il vuoto, cercando di ritrovare se stessi e di riordinare le idee, il cubo bianco salì lentamente, galleggiando nell’aria. I vari pezzi e frammenti di metallo rosso sparsi dappertutto si ricomposero a formare la sfera, che lo racchiuse. Infine, sotto gli sguardi stanchi ma ancora curiosi degli scienziati la sfera gradualmente impallidì, si fece sempre più rarefatta, fino ad annullarsi definitivamente. Nei giorni seguenti gli otto elaborarono una relazione dettagliata di tutto quello che avevano visto, sentito, provato. I media di tutto il mondo vennero informati. Il video che riprendeva il marziano nel pieno delle sue evoluzioni più spettacolari venne trasmesso in televisione via satellite più volte. Tutti lo videro, tutti acquistarono la videocassetta per poterselo rivedere a piacimento, tutti comprarono il libro, che uscì qualche mese più tardi, scritto a sedici mani, dove ognuno degli otto esprimeva la sua ipotesi sulla natura e la provenienza del marziano. Fu una volta per tutte assodato che esistono forme di vita diverse oltre a quelle terrestri, e fu altresì sospeso il giudizio sulla verità delle più importanti teorie scientifiche fino ad allora accreditate (sulla natura della materia, sulla natura delle forme viventi, sulle condizioni di identità ontologica, eccetera), ma in mancanza di ulteriori esperienze e prove ci si dovette accontentare di pure ipotesi alternative. Nel frattempo, in un punto molto, molto lontano dell’universo, c’era chi pensava così: «Tutti hanno finito per chiamarmi “il marziano”, ma il vero nome che avrebbero potuto usare per me non è venuto in mente a nessuno. Possibile che non abbiano pensato chi potevo essere? Questa volta, proprio questa volta che ho voluto mostrarmi per quello che realmente sono, senza assumere sembianze umane, non sono stato riconosciuto! Non potevo, semplicemente, dirgli chi sono, perché per farlo avrei dovuto usare il loro linguaggio, e questo li avrebbe insospettiti. Non avrebbero potuto credere che un essere così diverso da loro, proveniente di sicuro da un remoto altrove, potesse parlare la loro lingua. Avrebbero pensato a un trucco, a un raggiro. E io che credevo bastasse mostrarmi a loro perché capissero. Ma non basta, non basta! Tanti quindi, ancora, continueranno a pensare che io non esisto. Ma chi, allora, chi può avere, secondo loro, messo su questa grande baracca dell’universo? Chi può, secondo loro, aver deciso che il nulla era veramente troppo poco, come compagno di giochi?»

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