Il Novecento è già entrato nella storia e sarà probabilmente ricordato come il secolo della violenza. L’evento più distruttivo del XX secolo, la Seconda guerra mondiale, conta cinquanta milioni di morti. Di queste vittime, la metà sono morti in battaglia, l’altra metà sono civili: caduti sotto i bombardamenti aerei, morti nei massacri compiuti dagli eserciti regolari, vittime della Shoah (quest’ultima già di per sé un abisso morale per la qualità della violenza impiegata: l’unico genocidio nella storia completamente privo di natura strumentale, il solo in cui lo sterminio non fu un mezzo ma un fine in sé…). La percentuale dei civili uccisi cresce sempre più, fino ad arrivare al 90-95% nei conflitti dell’ultimo decennio.
Il tema della violenza e la ricerca di modalità nonviolente nella gestione dei conflitti sono quindi al centro della riflessione politica, etica, filosofica in generale. Qui vorrei richiamare l’attenzione su un paradosso che secondo me attraversa queste riflessioni e rischia di bloccarle se non lo si porta alla luce.
Da un lato, si può sostenere che la violenza non esiste e non agisce che per opera dell’uomo; solo l’uomo può essere responsabile della violenza, dall’insulto all’umiliazione, dalla tortura all’uccisione. Soltanto in senso metaforico, allora, possiamo parlare di “violenza” della natura: la natura, certo, può uccidere, ma essa non è “violenta”. Non solo non ha l’intenzione di uccidere, ma non ha alcuna responsabilità dei morti che provoca (pensiamo a un terremoto, all’eruzione di un vulcano, a un uragano). Ma se l’uomo è l’unica fonte possibile di violenza, se solo l’uomo può essere violento, la violenza è allora parte costitutiva della natura umana. Su quali basi, allora, l’etica, la politica, la filosofia possono convincere l’uomo a rinunciare alla violenza?
Si può allora rovesciare il discorso, e sostenere che la violenza sia una caratteristica della natura stessa. Esplosioni, collassi, collisioni (a livello cosmico)… la Terra è in buona parte ancora un magma ribollente e inquieto, sempre pronto a invadere o scuotere la debole crosta fredda sulla quale viviamo. E gli esseri viventi non esibiscono forse una continua e inevitabile successione di violenze? Ogni vivente sopravvive e afferma la propria vita sempre distruggendo altri esseri viventi. I carnivori… gli erbivori… gli onnivori… (le piante sembrano sfuggire a questa logica e sembrano solo “vittime”, ma c’è una spietata guerra fra specie vegetali per accaparrarsi il territorio, ci sono piante, come il rovo e la clematide, il cui comportamento somiglia molto a quello delle potenze imperialiste…).
La violenza umana, dell’uomo sull’uomo, rispetto a quella degli altri esseri viventi, da questo punto di vista si distingue per due caratteristiche: perché è fra individui appartenenti alla stessa specie e perché non è motivata (se non, a volte, indirettamente) dalle necessità vitali della nutrizione. L’uomo, quindi, può produrre un tipo di violenza inedito, ma si distingue dagli altri esseri viventi perché può scegliere di sottrarsi alla violenza, può scegliere la nonviolenza. Allora l’etica, la politica, la filosofia, possono cercare di convincere l’uomo a realizzare fino in fondo ciò che costituisce una sua prerogativa, una sua caratteristica essenziale, e possono proporre un compito per il futuro: la costruzione di una pace stabile fra gli stati, all’interno di essi, fra gli esseri umani; l’assenza di ogni sopraffazione, di ogni brutalità, di ogni offesa, di ogni sfruttamento. (Forse in futuro gli uomini vorranno rinunciare anche alla violenza “naturale” legata alla nutrizione: mangeranno solo cose che non comportino la morte di alcun organismo vivente, solo latte, miele, frutta…?)
D’altra parte − qui l’altro corno del paradosso − se la violenza è insita nella natura stessa, come può l’uomo pretendere di farne a meno, trascendendo le proprie radici? Egli è pur sempre un essere vivente, parte della natura, per quanto abbia, nel corso dell’evoluzione, scelto la strada della cultura.
Contro la “naturalità” della violenza Virginia Woolf, in mezzo agli orrori della Seconda guerra mondiale, rifletteva sul possibile ruolo delle donne, e associava la violenza alla cultura maschile («Nella guerra attuale lottiamo per la libertà, ma la otterremo soltanto se distruggiamo gli attributi maschili, la violenza, l’idolatria del potere. È dunque compito della donna raggiungere l’emancipazione dell’uomo. È la sola speranza della pace.»), ma la Woolf leggeva anche Freud e rifletteva sul problema da lui posto. Alla specie umana, sostiene il padre della psicoanalisi, servono sia Eros che Thanatos: l’impulso a dividere e distruggere sembra convivere nel cuore umano insieme a quello che porta a unire e creare.
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