12 ottobre 2008

La macchina del libero arbitrio, parte II





II

Il giorno successivo, al contrario del precedente, era burrascoso. Il cielo si presentava come un’immensa coltre di nubi bluastre che rotolavano velocemente su se stesse. In lontananza, da uno squarcio, filtrava qualche raggio di luce. Incontrai Robert fuori dal palazzo della Hoekk, e salimmo insieme in ascensore.
− Come va? − gli chiesi.
− Bene, anche se quella macchina mi inquieta un po’. Sono comunque curioso di vedere cosa farà nell’opzione 1, quella principale.
− Anch’io sono curioso, Robert, ma entro oggi voglio liquidare la questione.
− Ma perché tutta questa fretta? Abbiamo come minimo una settimana, prima di dover consegnare la relazione su un prodotto come quello, data la sua indubbia complessità.
− È vero, ma sento che con una macchina così potremmo essere tentati di allungare indefinitamente i tempi.
− Bah, fossi in te non sarei così sulle difensive. Ad ogni modo sei tu che decidi i tempi, quindi…
− Vedremo. Arrivati in laboratorio, ci sdraiammo innanzitutto nelle comodissime poltrone da relax, per riordinare le idee prima di iniziare.
− Sai cosa? − dissi mentre mettevo a fuoco uno dei dubbi che mi giravano in testa − c’è una questione emersa dagli avvenimenti di ieri che non riesco ad affrontare, troppo sottile per una mente dura, come la mia, ma forse tu, che hai una mente morbida…
− Dimmi pure.
− Per sapere se una mia scelta è stata libera, devo, tornato nella stessa situazione, poterla ribadire identica, o devo poterne fare una diversa?!
Robert rabbrividì.
− Credo tu abbia messo proprio il dito sulla piaga, Alec. Stanotte sono stato sveglio a lungo, a pensare proprio a questo problema. Un tuono spaventoso ci distolse per un momento dalla nostra conversazione. Iniziò una pioggia scrosciante. Era bello starsene all’asciutto a conversare, comodamente rilassati nelle straordinarie poltrone della Hoekk, mentre fuori ogni cosa veniva colpita da miliardi di gocce crepitanti. Con un leggero sorriso sulle labbra, consapevole del fatto che quel tuono era sembrato sottolineare maggiormente le sue parole, Robert riprese:
− Ti dico cosa ho pensato, anche se purtroppo non ho una risposta risolutiva. Allora. Se fai una scelta diversa, confermi la contingenza della scelta, che è una delle componenti del concetto di “libero arbitrio”. Se rifai la stessa scelta, confermi invece che quella scelta dipendeva solo da te, e che quindi è in tuo potere ribadirla. Confermi che era proprio quello ciò che tu volevi… Quindi… Confermi in entrambi i casi una delle due componenti che sembrano richieste per poter definire libera una scelta, ma… una sembra in contraddizione con l’altra! Non puoi confermare entrambe le cose contemporaneamente! Ciascuna delle due altrenative ha infatti il suo rovescio negativo. Ovvero: se fai una scelta diversa, neghi che quella scelta dipendesse in ultima analisi da te stesso…
− Ma perché, scusa?
− Perché la macchina ti fa tornare esattamente alla stessa situazione in cui ti trovavi, e tu quindi torni ad essere esattamente quello che eri.
− E allora?
− Se tu sei identico, ma fai una scelta diversa, vuol dire che è intervenuto qualche altro fattore, che non dipende da te… Giusto?
− Sì, diciamo di sì, anche se comincio a perdere le tracce del tuo ragionamento.
− Concludo. Se ribadisci la stessa scelta, invece, neghi la contingenza, o meglio, può restarti sempre il dubbio che la tua scelta fosse necessaria, dal momento che si è ripetuta uguale.
Qualcosa mi sfuggiva, anche se avevo notato lo sforzo di Robert per essere estremamente chiaro, e avevo ammirato la profondità del suo pensiero.
− In definitiva? – chiesi ancora.
− Alla domanda secca, che hai posto prima che iniziasse a piovere, direi che non c’è una risposta univoca, per due motivi: una è la questione che ho cercato di spiegarti, ovvero che il concetto di “libero arbitrio” può essere interpretato in due modi differenti, a seconda che si sottolinei una o l’altra delle due componenti di cui è formato. L’altra è la questione che la macchina consente di ripetere l’esperimento su una scelta infinite volte, e quindi diventa rilevante, ma mai concludente, la proporzione fra scelte ribadite e scelte mutate.
− Torno a dire, Robert, e confermo dopo aver ascoltato le tue lucide riflessioni, che non capisco l’utilità né il divertimento che può avere una macchina come questa, usata nell’opzione 2. Speriamo che l’opzione 1 ci riservi qualcosa di meglio.
Così dicendo, passai all’azione. Infilato con cura il casco, accesi la macchina. Robert, al mio fianco, si sedette anche lui per seguire meglio ciò che compariva sul monitor. Come il giorno prima, comparve il seguente riquadro:

1. Aumento della capacità di scegliere liberamente
2. Verifica della libertà di scelte già compiute

Scegliendo la prima opzione, comparve un secondo riquadro:




Sotto, alcune scritte spiegavano:

Scegliere una combinazione di livelli nei tre campi.
Livelli con numeri più alti corrispondono a gradi di libertà maggiore.
La durata dell’effetto sul cervello è inversamente proporzionale all’altezza del livello prescelto. Per avere effetti apprezzabili, il livello 0 è consigliato solo in un campo per ciascuna combinazione.
Vivamente sconsigliata ai principianti la combinazione 555.
Combinazione consigliata ai principianti: 101.

− Quale combinazione sceglieresti, Robert?
− Conoscendomi dovresti saperlo: la 101.
− Io invece sono fortemente tentato dal puntare dritto dritto sulla 555, così andiamo subito al cuore delle prestazioni della macchina.
Robert reagì:
− No, senti, se dice “vivamente sconsigliata” ci sarà un motivo! Vorrei evitare di doverti soccorrere per una crisi confusionale.
− Sì, ma non possiamo stare qui a fare le cose per gradi come i principianti. Dobbiamo puntare all’essenziale, capire presto in cosa consiste, se c’è, il bello di questa macchina.
Percepii chiaramente lo sforzo di Robert per restare calmo. La questione dei tempi di lavoro era fra noi fonte di perenni scontri. La sua fronte era attraversata da rughe profonde e aveva gli occhi socchiusi. Dopo un lungo respiro disse, lentamente:
− Se consiglia 101 significa che il campo centrale, quello della personalità, è il più rischioso. Ti propongo un compromesso: imposta 505.
− E sia.
Cliccai nelle caselle corrispondenti alla combinazione 505 e diedi l’invio. Adesso mi tornano in mente le parole di un grande scrittore argentino di molto tempo fa, che sembrano fatte apposta per me, al punto in cui sono con questa storia: «Arrivo, ora,» scrive in uno dei suoi racconti più belli «all’ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono». E prosegue domandandosi come trasmettere agli altri un’esperienza unica, irripetibile, che oltretutto, nel suo caso, implicava «l’enumerazione, sia pure parziale, d’un insieme infinito».

D’improvviso fu come se la mia mente si spalancasse. Avevo la sensazione di vedere un enorme ventaglio, un gigantesco albero dalle innumerevoli braccia: avevo di fronte tutte le cose che avrei potuto fare nel presente (molte più di quante non sospettassi un secondo prima), tutte le cose che avrei potuto vedere e sentire, immaginare e ricordare, pensare e volere; e da ognuna di esse si aprivano altre azioni e omissioni future e altre ancora più future. Da ogni azione sbocciava un fascio di altre azioni possibili e le ramificazioni si estendevano a perdita d’occhio, incanalandosi alcune in progetti eleganti e complessi, mentre altre proseguivano linearmente. Potevo spaziare con la mente su tutte le mie possibili azioni future, e sulle vite che di conseguenza mi si preparavano davanti; ma contemporaneamente a ciò avevo la sensazione di poter vedere con chiarezza i miei pensieri, i sentimenti e le emozioni del passato, il perché avevo fatto una cosa e non quell’altra. Le ragioni dei miei comportamenti passati si esibivano con una limpidezza e una vivacità incredibili, e vedevo riaffiorare innumerevoli cose che mi erano successe ma che avevo dimenticato, cose minime, l’occhiata di un passante, la lieve freddezza di una risposta, una vaga sensazione di malessere dopo un gelato alla vaniglia, il sole sulla pelle, il vento in una passeggiata lungo il mare, musiche e frasi scritte su bigliettini stracciati e un tubetto di vernice rossa spiaccicato sul pavimento e un secchiello capovolto sul quale da bambino saltavo ridendo e pennarelli elettrici, astronavi affollate, lombrichi, gelsi e bachi da seta, banchi di scuola pieni di graffiti e assemblee fumose, un insetto verde dorato e odore di resina, riflessi colorati su una grande bolla di sapone, colla sulle dita, trucioli di legno chiaro ai piedi di una statua intagliata da un robot, gli occhi di un asino, capricci, rimproveri, partite a scacchi, ore passate al computer; ed era, insomma, come se potessi vedere il mio inconscio: una massa immane e infinitamente stratificata, in cui immagini, suoni, rumori, odori, erano intrecciati e collegati in una rete multipla pur non perdendo la loro singolarità. Mi sembrava di aver raggiunto, in così poco tempo, una visione unitaria della mia vita passata: la vedevo tutta, lì, con una sua forma precisa e inconfondibile, e avevo la sensazione di sapere esattamente chi ero e cosa volevo nel mondo.

Quando l’effetto fu terminato mi guardai attorno e ritrovai il laboratorio, Robert che mi guardava preoccupato, la finestra e il rumore della pioggia scrosciante. Mi rimaneva solo una sensazione di forte benessere, ma quella chiarezza sconcertante, quella visione così potente, erano perdute nella loro ricchezza: me ne restava la forma, ma non il contenuto. Mi sentivo benissimo ma completamente spossato, inerte. Robert ruppe il silenzio.
− Alec, non sono riuscito a seguire nulla sul monitor, perché il tuo flusso di coscienza era troppo veloce. Immagino che l’esperienza sia stata molto intensa e molto bella, a giudicare dalla tua espressione. Credo però che… che ci sia un problema.
Quando Robert parlava di problemi con quel modo esistante mi metteva subito in allarme. Una scossa adrenalinica mi strappò dal mio torpore estatico.
− Problema? Quale problema? Ti assicuro, Robert, che è fantastico. Ora capisco il senso di questa macchina. Ti dà come un sensazione di… mi verrebbe da dire di onnipotenza, ma non è esattamente quello che vorrei dire. Mi rendevo conto che spiegare a Robert sarebbe stato troppo difficile. L’unico modo per capire era provare su di sé.
− Sì, vedo, Alec, ma…
− Dài, deciditi a parlare! Non muoio mica!
− Hai effettuato quest’ultimo esperimento con la macchina senza avere nessuna scelta particolare da compiere, senza avere una decisione da prendere. Come possiamo verificare se la tua capacità di scegliere liberamente era realmente aumentata, nei due minuti in cui ha avuto effetto la macchina? Vedi? Il monitor ora è vuoto, non ti dà nessuna risposta, nessuna indicazione.
− Ti assicuro, Robert, che la macchina funziona. È qualcosa. Qualcosa di forte. In ogni caso… ma non potevano chiedermelo prima? Sarebbe bastata una scritta, come nell’opzione 2. Ti ricordi? “Quale scelta intende verificare?” Qui avrebbero dovuto chiedermi: “Quale scelta intende effettuare?”.
− È vero. Probabilmente lo davano per implicito, o forse era scritto sulle istruzioni e non hanno ritenuto necessario ripeterlo a video…
− Accidenti, questa è una manchevolezza che va sicuramente segnalata nella relazione. Stai prendendo appunti, vero, di tutto quello che succede?
− Certo, come al solito.
− Bene, allora segna questa come una delle cose più importanti: le istruzioni essenziali vanno messe tutte a video.
− Subito. Mentre Robert scriveva, io mi sforzavo di ricordare cosa avevo visto e capito su me stesso e sulle mie possibilità, ma non ci riuscivo. Mi sembrava, ora, di muovermi con la mente in uno spazio angusto: poche cose davanti, pochi pensieri e sempre uno per volta, qualche ricordo ogni tanto. “Come si fa a vivere così?” mi chiesi per un attimo.
− Beh, allora non c’è che riprovare − incalzai, deciso a ripetere prima possibile quell’esperienza.
− Sì, ma devi prima trovare una scelta da compiere con la quale rivolgerti alla macchina, se no è inutile…
− Inutile non direi proprio. Comunque sì, hai ragione. Dunque, vediamo. Una scelta da compiere… Oddio, così all’improvviso non è facile da trovare.
− Beh, una ce ne sarebbe, già bella e pronta: la scelta su quale scelta sottoporre alla macchina…
− Robert, cerchiamo di non complicarci la vita. Andiamo sul semplice. Ci serve una scelta semplice, non una meta-scelta… Se no poi impazziamo per capire quello che succede.
Robert sembrava un po’ deluso che la sua idea non fosse stata risolutiva, ma convenne con me che era meglio andare sul semplice. Ben presto ci rendemmo conto che scelte importanti, scelte di vita, né io né lui ne avevamo realmente davanti. Eravamo soddisfatti sia dal punto di vista affettivo, sia da quello professionale. Le scelte che, realisticamente, avremmo dovuto affrontare riguardavano cose meno importanti: dove trascorrere le vacanze? cosa scegliere come prossima lettura di svago? Alla fine, più che altro per tagliare corto, optai per sottoporre alla macchina una scelta che sapevo mi sarei trovato di fronte nel giro di pochi giorni: cosa regalare a Renate per il suo compleanno? Le alternative non erano molte. Conoscevo bene i suoi gusti. Era una scelta semplicissima, banale, che in realtà non mi poneva problemi anche perché ormai sapevo che Renate accettava volentieri, di anno in anno, regali dello stesso tipo; non si aspettava sorprese, quindi in generale non mi dovevo scervellare per trovare cose nuove da regalarle. Robert convenne che proprio per il suo carattere di estrema semplicità e banalità questa scelta si prestasse a verificare senza problemi l’effetto della macchina. I problemi con Robert vennero invece quando gli comunicai che intendevo procedere impostando la macchina sul 545.
− Ma Alec, si tratta di un grado meno dell’opzione 555, quella sconsigliata ai principianti! Coinvolgere subito il campo della personalità, e ad un livello così alto… Perché non provi con 515?
Forte della meravigliosa esperienza provata con l’opzione 505, riuscii a superare tutte le remore di Robert, e imposi che il prossimo esperimento si sarebbe svolto con l’opzione 545.
Infilai il casco, digitai 545 e mi concentrai sul problema di cosa regalare a Renate. Diedi l’invio.
Il tutto si svolse nello spazio di un minuto. Di nuovo provai la sensazione di spalancamento dello spazio mentale. Mi trovavo al centro. Davanti a me un ventaglio di possibilità, che certamente partiva molto più ristretto rispetto a quello dell’esperimento precedente, ma si estendeva indefinitamente investendo l’interezza delle mie vite possibili a partire da quelle poche alternative iniziali. Dietro di me la massa intricata delle esperienze passate, dalla quale emergevano alcune ragioni specifiche, alcuni motivi con i quali mi trovavo ad avere ora a che fare. Era come se dovessi manipolare le ragioni che emergevano e innestarle sul ventaglio delle possibilità. Avevo di fronte, chiarissimamente, una serie di cose che avrei potuto scegliere di regalare a Renate, innanzitutto quelle che sapevo avrebbero incontrato i suoi gusti: un profumo importato dal pianeta Micronesian, un nuovo programma da inserire nella camera nutrizionale, l’ultima novità in fatto di calzature autopulenti, un saggio sulla vita degli insetti sociali. Secondariamente, vedevo altri oggetti che avrei potuto regalarle facendole una sorpresa. Per ciascuna di queste cose, vedevo chiaramente quale sarebbe stata la sua reazione, che uso ne avrebbe fatto e come il nostro rapporto ne sarebbe stato leggermente modificato. In quale direzione, dunque, volevo mandare Renate? In quale direzione intendevo spingere il nostro rapporto? La ragione principale, che emergeva dal mio passato, era la volontà di confermare a Renate il mio amore e mantenere il rapporto così com’era nel presente. Ma, mi chiesi, perché farlo? Perché consolidare questo rapporto? Era proprio questo, che volevo? Le ragioni della stabilità, della continuità, del valore di un rapporto ormai forte e sano, del valore di Renate come persona, mi apparirono sullo stesso piano di quelle del cambiamento, del rischio, dell’avventura, dell’ipotetico valore di un’altra donna. Vedevo chiaramente che stava solo a me decidere quali ragioni fossero le più importanti, le più valide. Stava solo a me assegnare un peso a queste diverse ragioni. Questa volta, pensai rapidissimamente, voglio rischiare, gettare un ombra su questo rapporto con Renate, vedere come reagisce lei, e se reagisce male peggio per lei, continuerò a sottrarre, a minare la solidità del rapporto. O regge, e allora vuol dire che il rapporto è veramente solido, o non regge, e allora sarò pronto per tentare una nuova relazione, lascerò Renate, senza paura…
L’effetto della macchina si interruppe bruscamente. Sul monitor campeggiava la scritta:

Lei ha scelto di non regalare nulla a Renate.

Ero di nuovo mentalmente scombussolato, ma questa volta di più e avevo anche un po’ di nausea. Durante il minuto trascorso sotto l’effetto della macchina mi ero sentito benissimo, con una grande forza mentale, con la strana sensazione che la grande potenza mentale che mi sentivo di avere fosse sprecata, sproporzionata per una scelta così piccola e semplice, ma adesso guardavo sbigottito il monitor e solo con grande fatica riuscivo a ricordare con quale ragionamento fossi arrivato a quella bizzarra decisione. Non riuscivo assolutamente a riconoscermi nella scelta di non fare nessun regalo a Renate. Immaginavo il suo volto deluso, e già solo questa immagine mi rattristava.
− No… non è possibile che io abbia pensato una cosa simile…
− In effetti, Alec, − rispose prontamente Robert, che aveva cercato di seguire il tutto restando incollato al monitor − non sarebbe da te. Spero tu non abbia intenzione di rispettare la decisone che hai preso sotto l’effetto della macchina!
− No, non credo, ma…
− Ma…? − Mi fa però impressione il fatto che comunque questi pensieri li ho fatti io, a questa scelta sono arrivato io…
− Sì, tu, ma un tu modificato dalla macchina!
− Ma la macchina non può aver cambiato la mia personalità, può solo aver reso più libera la mia vera personalità…
− Sì, Alec, ma secondo me questa macchina ha passato il limite oltre il quale non ha più senso dire che tu potresti scegliere diversamente, ma occorre piuttosto dire che un altro potrebbe realizzarsi invece di te! La frase di Robert mi fece piombare in uno stato di profonda riflessione introspettiva. Mi rendevo conto che dentro di me quella decisione bizzarra, per quanto la sentissi estranea, lentamente, mentre ne parlavo con Robert, stava prendendo piede, con tutto il capovolgimento di valori che si tirava dietro. “Perché restare attaccati alle sicurezze?” Questa domanda mi frullava in testa e non riuscivo a scacciarla, ma contemporaneamente provavo orrore e paura per questa specie di metamorfosi interiore di cui avvertivo i primi segnali. Il senso di nausea aumentava, accompagnato da paura e da una sorta di vertigine. Sì, era proprio come aveva detto Robert, mi sentivo come se un’altra persona stesse pian piano, nei miei pensieri più reconditi, facendosi strada dentro di me. Improvvisamente provai un moto di disgusto e di rabbia verso la macchina ed esplosi:
− Ma questi sono matti! Questa è roba pericolosa!
− Alec, ricorda però che tu hai voluto saltare subito ai livelli più alti. Forse, se avessimo fatto le cose con calma, per gradi, come suggeriva la macchina…
− No! Sarebbe stato peggio! − urlai − Così sarei scivolato lentamente verso un’altra personalità senza neanche accorgermene. Adesso, invece, avverto chiaramente lo stacco, e posso difendermi. Il mio io originario sta reagendo!
Lo sfogo violento mi aveva fatto bene. Sentivo di stare tornando nella mia cara, vecchia identità. Mi presi dieci minuti di pausa, spiegando a Robert che avevo bisogno di ritrovare il mio equilibrio. Adagiato in poltrona, lasciai che la nausea passasse naturalmente, e indugiai a lungo sul pensiero di Renate, che mi avrebbe accolto con il suo consueto abbraccio al ritorno dal lavoro. La mia Renate. Sì, l’amavo veramente, con tutte le sue paure, le sue incertezze. Amavo la sua enorme vitalità, il suo coraggio, la sua mente capace di sottili argomentazioni, l’attenzione e la presenza con la quale riusciva a vivere ogni situazione, il suo corpo caldo e avvolgente.
− Credo di sapere cosa scriverò nella mia relazione su questa macchina. Ne sentiranno delle belle. − dissi a Robert con calma e fermezza
− Non resta che provare l’opzione 555.
Robert sgranò i suoi grandi occhi color salvia su di me:
− Cosa?? Dopo quello che è successo vuoi ancora provare la macchina, e oltretutto al grado di massima potenza!!??
− Diversamente, caro Robert, non potrei dire di conoscere a fondo la macchina, e la mia relazione perderebbe valore.
− Il tuo argomento non fa una piega, ma non potremmo, da quanto è già successo, per induzione, capire cosa succede al livello 555?
− Come sai meglio di me, Robert, con l’induzione non si va molto lontano. No, data la complessità di questa macchina, nel passaggio da 545 a 555 possiamo aspettarci di tutto. L’unica è un duro impatto con la realtà: proverò subito cosa succede utilizzando l’opzione 2 al massimo livello.
− Mi arrendo. Tanto alla fine sei comunque tu che devi decidere e sei tu che ti assumi la responsabilità delle relazioni che escono da questo laboratorio. Decidemmo che, per avere un riscontro oggettivo sulla differenza tra 545 e 555, avrei riproposto alla macchina la stessa scelta in merito al compleanno di Renate.
Rimesso il casco e tirato un lungo respiro, impostai la 555 e mi concentrai nuovamente sul problema di quale regalo scegliere. Diedi l’invio.
Anche qui il mio compito di scrittore è arduo, e riconosco con rammarico di aver trovato una soluzione che tende ad allontanarsi dal registro narrativo per abbracciare quello saggistico, ma confido di rientrare prima possibile nella pura narrazione. La rete delle motivazioni e l’albero delle possibilità esistevano, così come le avevo “viste” nell’esperimento precedente, ma ero io, che non esistevo più. Non che la volta precedente mi fossi visto, personificato, tra le motivazioni e le possibilità, ma avevo avuto la netta sensazione di essere “localizzato” tra passato (motivazioni) e futuro (possibilità). Mi ero sentito lì, in un luogo preciso, un luogo mentale, un punto nel mio spazio mentale. Adesso invece ero come svaporato. Non era la sensazione di essere disincarnato, puro spirito, o cose del genere. Molto di più: non mi sentivo più da nessuna parte… ero, se così posso dire, lo spazio entro cui esistevano motivazioni e possibilità. Non ero localizzato in alcun punto, ero lo spazio in cui esisteva una molteplicità indefinita di punti. Un’emozione paradisiaca pervadeva questo spazio. Se un’entità, per esistere, deve avere un’identità, allora non ero più un’entità. Esistevo ancora, ma come potenzialità di modifica in relazione alle motivazioni e alle possibilità che contenevo: ero, per cercare di essere precisi, una struttura, non una sostanza… Una sensazione stranissima e affascinante. Durò pochi secondi. Il tempo però di osservare con infinito distacco la varie possibilità che avevo di fronte… Al termine, ero troppo stralunato per poter fare qualsiasi cosa e mi ci vollero dieci minuti di respirazione profonda ad occhi chiusi per riprendermi. Quando mi riebbi, vidi Robert seduto in poltrona con gli occhi lucidi persi nel vuoto. Evidentemente aveva letto il monitor ed ora stava pensando. Con grande curiosità lo guardai anch’io.
La scritta diceva:

la scelta è stata trascesa
ovvero
qualsiasi opzione è indifferente
ovvero
non c’è realmente bisogno di scegliere

− Come ti senti, ora? − mi chiese Robert, ansioso.
− Ora sto bene, ma è stato sconvolgente. Sperimenti un altro modo di esistere…
− Con un’identità fluida? − azzardò Robert
− Senza identità. E hai visto che bel risultato? Sarebbe come dire che qualsiasi regalo va bene? Mi sa che è lo stesso tipo di risposta ogni volta che imposti il 555. Comunque, Robert, ti assicuro che un conto è leggere quella scritta, che sembra banale, un conto è vivere l’esperienza di ciò che ci sta dietro. In ogni caso credo che l’opzione 555 vada gustata senza avere nessuna scelta particolare da sottoporre alla macchina, oppure con scelte veramente importanti. Solo così si può apprezzare veramente l’equivalenza delle possibilità, se osservate da un punto di vista… superiore, esterno a qualsiasi individualità.
− Tu parli di “equivalenza delle possibilità” come se si trattasse di una risposta generale della macchina, se impostata sul 555. Ma ricordiamoci che ti sei rivolto alla macchina proprio con una scelta semplice. Cosa sarebbe accaduto se ti fossi sottoposto all’esperimento, con 555, avendo di fronte una scelta morale?
− Intendi una scelta fra bene e male? Non credo che si possano considerare equivalenti, nemmeno dopo averli considerati con l’opzione 555. Già, non ci avevo pensato…
− Azzardo un’ipotesi, anche perché non credo che noi potremmo fare, qui e ora, un esperimento su vere scelte radicali, come quelle fra un progetto di vita buona e uno di vita scellerata. Dovremmo, per poterlo fare, trovarci realmente di fronte alla scelta se infrangere o no la legge, ad esempio, e dovremmo avere motivazioni forti, per essere di fronte ad una scelta di questo tipo, non trovi?
− Sì, non saprei proprio, ora, cosa farmi venire in mente.
− Quindi non possiamo che avanzare ipotesi. Ne azzardo una: forse, nell’opzione 555, automaticamente le strade “cattive”, “malvagie”, sarebbero messe fuori gioco.
− Perché?
− Perché se è vero che si prova un’assenza di identità e si è in grado di osservare con distacco totale le varie alternative non si può andare verso il male. Il male voluto, scelto, implica, credo, un forte, fortissimo senso di sé, il considerare le proprie ragioni più importanti e superiori a quelle della comunità, e più forti di quelle di coloro contro i quali si compie l’azione malvagia o criminosa. Un criminale, un individuo che scelga coscientemente di perseguire il proprio interesse ai danni degli altri, sfruttandoli e opprimendoli o addirittura sopprimendo la loro vita, non può sentirsi privo di identità.
− Ma allora, specularmente, non potremmo dire che anche il buono, il giusto, devono avere un forte senso di sé? Il sentirsi capaci di migliorare il mondo… Te lo immagini un Gesù senza senso di identità?
− Un Gesù no, ma un Buddha nel momento dell’illuminazione sì. Uscire dalla propria identità, dal proprio io, era uno degli obiettivi delle religioni orientali, e si traduceva, nella prassi, in un atteggiamento di piena accettazione della realtà. Chi accetta la realtà così com’è non può fare del male a nessuno.
− Ma nemmeno, mi verrebbe da dire, può fare del bene…
− Se riesce a convincere anche gli altri ad accettere la realtà si va verso l’eliminazione radicale del male.
− Ma se la realtà fosse malvagia, almeno in parte? Non ci sarebbe il bisogno di agire, di fare il bene contro il male, di cambiare le cose? Come si può accettare tutto, se nel tutto è compreso il male?
− Alec! Mi stupisci! Hai una vena metafisica che non mi aspettavo proprio di trovare, in te!
− Oddio, Robert, mi rendo conto che stiamo allontanandoci dall’obiettivo. Voglio scrivere al più presto la mia relazione su questa macchina.
− Ti dirò che avrei molta curiosità di provarla ancora io, ma… mi rendo conto che il lavoro è tanto… Oggi, hai visto, c’è un altro scatolone verde su tavolo delle novità… Non l’avevo visto. Ma non mi meravigliai più di tanto. Sapevo che i ritmi di produzione della Hoekk erano pazzeschi.
− … Vedrò − concluse Robert − di comprarmene una quando verrà messa in vendita.

La mia relazione fu per molti aspetti decisamente negativa. A parte gli enormi difetti delle istruzioni, sia quelle cartacee (troppo lunghe e difficili) sia quelle in video (incomplete), restava indubitabilmente pericolosa l’opzione 1: l’uso del campo della personalità poteva generare, sostenevo basandomi sulle mie esperienze, stati confusionali, crisi d’identità. Ma anche nell’ipotesi di eliminare completamente dalle possibili opzioni il campo della personalità restava un problema di fondo: scelte compiute sotto l’effetto della macchina sarebbero state realmente più libere? L’incredibile aumento di consapevolezza delle proprie reali possibilità e motivazioni non generava di per sé una variazione nella personalità? A compiere una scelta enormemente più consapevole rispetto a quella che avrebbe compiuto senza far uso della macchina, non sarebbe quindi stato comunque un altro io? Quanto all’opzione 2, la presentavo come inconcludente: qualsiasi risultato, argomentavo, era interpretabile in modi diametralmente opposti e restava sempre il dubbio su cosa sarebbe successo iterando l’esperimento molte altre volte. Nella conclusioni della mia relazione volli però rivalutare la macchina. Se andava scartato, per la pericolosità e la paradossalità dei risultati, il suo utilizzo in relazione all’azione, la ritenevo invece utilissima in relazione alla conoscenza. Uno strumento potentissimo per la conoscenza di sé. Se usata con le dovute cautele avrebbe potuto sostituire egregiamente, suggerivo, un percorso di psicoterapia. E in fondo, mi chiedevo in chiusura, l’aumento della conoscenza di sé, se adeguatamente rielaborata, digerita dal soggetto, non produce forse scelte realmente più libere? In definitiva il problema restava l’accelerazione artificiale di un naturale processo di progressiva presa di coscienza di sé. Acquisire troppo velocemente questa coscienza ne rendeva gli effetti non realmente padroneggiabili dal soggetto. Tutta la potenziale positività sarebbe dunque dipesa dalla capacità di moderazione e gradualità nell’uso della macchina. Né Robert né io abbiamo avuto notizia che la macchina del libero arbitrio sia mai stata messa sul mercato terrestre. Apparentemente, fu la mia relazione finale a bloccare ogni produzione e ogni vendita. Ma sia io che Robert siamo sicuri che versioni modificate di tale macchina, magari con altri nomi, siano state messe in vendita su altri pianeti, pur non avendo notizie certe in proposito. Forse vogliono provarla su piccoli gruppi sociali prima di immetterla in un mercato umano globale come quello terrestre. Temono, probabilmente, che una sua diffusione massiccia in società standardizzate come quelle attuali possa provocare rivoluzioni, guerre civili, gravi crisi sociali. Pensano che individui decisamente aperti all’avventura, al cambiamento, alla sperimentazione, alla novità, alla ricerca dell’originalità, al rischio, siano tutto sommato ingovernabili, e che una società composta tutta di individui di questo tipo sia esplosiva. Ma, mi chiedo, hanno ragione? Non possiamo pensare che invece una società di persone con un libero arbitrio spinto ai massimi livelli possa evolvere verso forme politiche sempre più complesse e sempre migliori? Come si può crescere se non si rischia mai? D’altra parte anche rischiare soltanto, senza mai costruire qualcosa di solido e sicuro, finisce per essere logorante e autodistruttivo. Non escludo, comunque, di vedermi ricomparire davanti, nella vetrina di qualche negozio di bioelettronica, da un giorno all’altro, quella strana macchina, e spero di non aver esagerato con la negatività della mia relazione, togliendo ai dirigenti della Hoekk il coraggio di provare a venderla.

1 commento:

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie