PIETRA Versione scaricabile e stampabile
Davanti allo specchio del bagno, dove si era recato come ogni mattina per radersi, Alberto scoprì che il suo volto era diventato di pietra. I lineamenti, il naso, la fronte spaziosa, il mento largo: tutto aveva la forma ben nota, ma era bloccato in un’espressione neutra, innaturale. Il primo impulso fu di toccarsi la guancia. Si trattava indubbiamente di pietra, una roccia grigia, fredda e liscia. Il taglio degli occhi era esattamente il suo, ma al posto dei bulbi oculari vi era del vuoto da cui usciva una debole luce rossastra. Provò cautamente a infilarci un dito, ma non riuscì a incontrare nessuno ostacolo, né riuscì a individuare la fonte di quella luce interna. Certo era che ci vedeva benissimo. Si guardò intorno: tutto era familiare, l’accappatoio a righe verdi e blu, l’armadietto di legno con lo sportellino di vetro, il tubetto di dentifricio mezzo accartocciato sulla mensola di marmo bianco. Provò a uscire dal bagno e diede una rapida occhiata alla camera da letto. Tutto era in ordine. Tornò a guardarsi allo specchio, sperando questa volta di vedere la sua solita faccia, ma dovette constatare che la realtà era proprio quella. Fece un tentativo di togliersi quel volto di pietra come se fosse stato una maschera, ma si rese conto che la roccia, là dove terminava, in corrispondenza del profilo delle mascelle e delle tempie, era come saldata alla carne, di modo che tirandola anche la pelle della gola si tirava. Le orecchie e i capelli erano rimasti normali. Li tastò affettuosamente, per poi tornare con le dita a toccarsi il volto freddo e duro. Le narici erano ancora due buchi da cui poteva respirare. La bocca era fissata in un lievissimo sorriso ed era leggermente dischiusa, ma la fessura era troppo stretta per poterci infilare un dito. Provò a schiarirsi la gola. Sembrava tutto regolare. Quando però tentò di parlare sentì una specie di gorgoglio, e invece della voce, dalla bocca uscì del vapore che andò ad appannare la parte bassa dello specchio. Non era ancora sicuro che non si trattasse di un’allucinazione. Non riusciva a crederci veramente. Provò a risciacquarsi la faccia con dell’acqua tiepida, come faceva tutte le mattine. Mentre sentiva nascere un senso di pena e di nostalgia per il suo volto naturale, gli venne in mente che quel giorno avrebbe dovuto terminare un lavoro urgente, da consegnare assolutamente l’indomani. Si sciacquò più volte, sperando oscuramente che quello strato di roccia venisse lavato via (ma i suoi occhi? Sarebbero ricomparsi insieme a tutto il resto?). Si coprì il volto con l’asciugamano, che poi abbassò lentamente, di fronte allo specchio. La situazione era immutata, tranne che per il colore della pietra che, essendosi bagnata, adesso era grigio scuro. Finì rapidamente di lavarsi. “Per fortuna che Ada non c’è” pensò. “Devo risolvere assolutamente questo pasticcio prima che lei torni. Morirebbe di paura, se mi vedesse così.” Andò a vestirsi in camera da letto. Mentre si infilava i calzini pensò che avrebbe potuto saltare la colazione. Un problema in meno, e poi non era per niente sicuro di riuscire a mandar giù qualcosa. Neanche un caffè? Già solo il pensiero di doverlo versare in quella fessura di pietra lo impensieriva. La mente gli tornò sul lavoro che avrebbe dovuto terminare quel giorno. Si trattava di rifinire un grande pannello in legno per stampe su stoffa, che gli aveva commissionato la sua cliente più importante. Alberto in città era uno dei pochi incisori in grado di realizzare un’opera del genere, ma se avesse mancato quella consegna avrebbe compromesso il rapporto con la cliente, rischiando di perdere la fonte principale dei suoi guadagni. Finito di vestirsi, Alberto andò a gran passi nel suo stanzone-laboratorio. Tutto era pronto per cominciare, così come lo aveva lasciato la sera prima. Il pannello di legno con delicate decorazioni floreali in altorilievo, a cui lavorava da quattro mesi, era sul cavalletto; tutti gli strumenti, perfettamente affilati, erano ben allineati sul tavolino alto. Alle pareti erano appesi i lavori già pronti. Qua e là, sul pavimento, blocchi di legno, gesso, pezzi di cuoio, corde, trucioli. Dal finestrone entrava una luce bianca e calda. Alberto sentì per un momento il desiderio fortissimo di terminare il lavoro. Doveva rifinire tutti gli angoli acuti aggettanti, aguzzarli bene, in modo che risplendessero come lancie di un esercito medievale schierato al sole. In mezza giornata avrebbe terminato, e avrebbe potuto consegnare addirittura con un giorno di anticipo. Poteva mettersi subito all’opera, ma l’idea di avere la faccia ridotta in quello stato non gli dava pace. “Cosa può essere successo?” si chiese. “Non può essere una malattia della pelle, qualcuno deve avermi incollato...” Tornò rapidamente in bagno, di fronte allo specchio, e riprovò a togliersi quella cosa. Infilò i pollici nei buchi degli occhi e provò a tirare verso l’esterno. Sentì il cuoio capelluto tendersi. Non osava insistere. Rilasciò la presa, ma l’idea di rassegnarsi così gli sembrava troppo triste, così si decise a ritentare, e questa volta avrebbe forzato un po’. Si afferrò di nuovo le palpebre di pietra e tirò più forte. Niente. Era proprio una parte di sé, non era incollata né attaccata in altro modo. Con un po’ di paura, serrò la presa e diede uno strattone, ma cominciò a sentire un dolore lungo tutto il bordo del volto di pietra, là dove la roccia era saldata alla carne. Lasciò subito la presa. Si osservò meglio allo specchio. Nel punto di confine tra roccia e carne, lungo tutto il bordo della faccia, vi era una sottile zona intermedia, come se la pietra sfumasse nella pelle. In quel bordo sottile era come se la sua pelle fosse quella di un rinoceronte. Avvertì un leggero senso di nausea. In quel momento squillò il telefono. Si precipitò a rispondere. Sollevò la cornetta, ma non riuscì a dire niente. Dalla bocca uscì invece una nuvoletta di vapore, accompagnata dallo stesso rumore che fanno i ferri da stiro. «...» «Alberto? Sono Ada!» «...» «Sono Ada! Mi senti?!» Riattaccò contrariato. Questa impossibilità di parlare, né di emettere suono alcuno se non quel sordo sbuffo era veramente troppo. “Ora Ada” pensò “sarà sicuramente entrata in allarme. Interromperà qualsiasi cosa per precipitarsi a casa. Domani mattina presto certamente sarà qui. Cosa dirà vedendomi così? Fuggirà? Cercherà di soccorrermi? Forse dovrei chiamare un medico. Ma cosa potrei dirgli? ‘Ho bisogno che venga subito perché mi si è pietrificata la faccia’... No, non posso...” Per un attimo gli tornò in mente l’idea di mettersi al lavoro, ma capì che in realtà non aveva scelta: non sarebbe riuscito comunque a lavorare con la dovuta calma e concentrazione, in quelle condizioni. Avrebbe rovinato il pannello con dei ritocchi affrettati e imprecisi, e allora tanto valeva rischiare di mancare la consegna. Doveva innanzitutto pensare a sé. Si toccò di nuovo la superficie liscia e fredda del volto e fu scosso da un fremito. Gli vennero in mente altri momenti cruciali della sua esistenza. Si era reso conto, negli anni, che il modo migliore per lui di affrontare problemi difficili o decisioni angosciose era quello di essere di fronte a un paesaggio ampio e luminoso, così decise di uscire di casa. Prese le chiavi della macchina e si infilò il giubbotto di jeans. Stava per aprire la porta quando pensò che forse era meglio coprirsi la faccia in qualche modo. Un giornale? Un cappello a larga tesa? Si infilò gli occhiali da sole neri e prese in mano un giornale che avrebbe fatto finta di leggere se avesse incontrato qualcuno. Uscì sul pianerottolo. Fece a piedi i tre piani di scale, senza incontrare nessuno. Varcato il portone del palazzo avrebbe dovuto solo traversare la strada, la macchina era parcheggiata di fronte. C’era qualche passante, ma non lo guardarono. Traversò con passo deciso, il cuore batteva forsennato. Entrato nell’auto si sentì più al sicuro. Era nuova, molto comoda e confortevole. Si era infatti deciso da poco a cambiare la sua vecchia Ritmo, ormai colabrodo rugginoso, e aveva scelto, questa volta, una marca francese. Partì velocemente, pensando però di evitare l’autostrada per non dover avere a che fare con eventuale casellante inquisitivo. Aveva in mente un posto ideale, un po’ lontano ma ne valeva la pena. Guidò con impazienza nelle strade di città, e solo quando fu fuori e vide i primi campi cominciò a rilassarsi. Il cielo era azzurrissimo, e il sole faceva luccicare l’asfalto. Vedeva sfrecciare ai suoi lati alberi e caseggiati. Si rese conto che stava ampiamente superando il limite di velocità consentito sulle statali, ma era su un rettilineo e c’era pochissimo traffico. La grande velocità gli faceva bene. Gli dava la sensazione di sfuggire al suo groppo di problemi. Concentrò lo sguardo sull’orizzonte, sul punto più lontano che potesse focalizzare, là dove le due linee convergenti della strada in prospettiva si incontravano, e osservò il mutare e il nascere delle forme in quel punto lontano, che sembrava emettere in continuazione nuovo spazio, nuova strada da percorrere. Rimase così, come ipnotizzato, per una buona mezzora, riuscendo a non pensare a nulla. Alla fine si sentiva calmo, ma sapeva che se avesse ricominciato a pensare sarebbero tornate l’ansia e la paura. Cercò di rimandare ogni pensiero e ogni decisione a dopo, quando si sarebbe trovato di fronte al suo paesaggio. Era cominciata la zona della coltivazione del pioppo, che amava moltissimo. Guardò l’orologio. “Già le undici e mezza!” Dopo poco imboccò una deviazione sulla destra. La strada saliva leggermente, e c’era una serie di curve. Quando arrivò sul posto, una collinetta che dominava una vasta zona pianeggiante, era mezzogiorno in punto. Lasciò la macchina in un piccolo spiazzo e si avviò a piedi nel prato. L’erba era alta e, come prevedeva, il posto era solitario. Arrivato in cima al cocuzzolo si sedette a gambe incrociate. Levò lo sguardo sul paesaggio. Indugiò lungamente sui filari di pioppi che vedeva in lontananza. Lunghi e tremuli, sembravano giocare col vento che gli solleticava le foglie e facevano pensare a persone alte e silenziose, pacifici plotoni in contemplazione, in attesa. Erano loro i veri abitanti di quelle pianure. Spaziò con lo sguardo in tutta la larghezza di quel paesaggio lucente. Una mosca andò a posarglisi sulla punta del naso. La vide ma non ne sentì il tocco. Il suo volto di pietra era insensibile. “Insomma, cosa mi è capitato? Cos’è questa cosa che ho addosso? Possibile che sia una malattia sconosciuta, che capita a me per la prima volta? Quale può essere la causa, l’origine di tutto ciò? È un periodo così buono, questo. Certo non me la sono andata a cercare!” Posò entrambe le mani sul proprio volto, come cercando di farlo tornare normale con il calore delle mani. Toccarlo, adesso, non gli faceva più impressione, ma avrebbe voluto poterlo sciogliere, rompere, togliere. Cominciò a pensare a cosa poteva aver fatto per causare questa trasformazione, e a chi o che cosa potesse avergliela provocata, ma pur riesaminando con cura tutto il periodo recente della sua vita non riusciva a trovare niente di insolito o sospetto, nessuna variazione di rilievo. Il tempo passava e Alberto non aveva preso nessuna decisione. A un certo punto una nuvola oscurò la luce solare e si rese conto che non aveva senso continuare a star lì perdendo tempo prezioso. Voleva venirne fuori prima del ritorno di Ada, e in tempo per finire e consegnare il suo lavoro. Prese in considerazione l’idea di andare in un pronto soccorso, ma aveva paura che non l’avrebbero preso sul serio, e che potessero irritarsi con lui, chiamare la polizia... Di colpo gli venne l’idea. Sarebbe intervenuto da solo. A quel punto gli sembrò l’unica soluzione praticabile. “Come ho fatto a non pensarci subito?” Inspirò profondamente l’aria profumata di quel prato, guardò per l’ultima volta il suo paesaggio, si diresse velocemente all’auto.
Tornato a casa, andò dritto nella stanza da lavoro e scelse il bisturi più affilato che aveva. Si trasferì in bagno, di fronte allo specchio. Cominciò a incidere dal lato sinistro, appoggiando il bisturi sul limite del volto, là dove la pietra era saldata alla carne, nel punto in cui la pelle si faceva improvvisamente spessa e grigia. Prima di affondare la lama fece un grande sospiro. Aveva paura, ma era convinto di non avere altra scelta. Penetrò con la lama di mezzo centimetro. Non sentì alcun dolore, ma si rese conto, facendo leggermente leva col bisturi verso di sé, che lo spessore del volto di pietra doveva essere almeno di un centimetro. Affondò la lama di un altro mezzo centimetro. A quel punto cominciò a sentire un certo dolore. Fece leva con cautela per capire se aveva raggiunto il limite interno della roccia. Sì, sembrava proprio di sì, ma ora doveva, restando a quella profondità, praticare un taglio lungo tutto il bordo del volto. Cominciò lentamente a scendere con la lama, incidendosi la pelle grigia e rugosa. Capì subito che l’operazione sarebbe stata dolorosa. “Forse allora” pensò “è meglio che faccia velocemente, come quando incido il cuoio seguendo una guida di metallo”. Si fece coraggio. Provò mentalmente il gesto. Stava cominciando a sudare. Era estremamente determinato. Con mossa decisa incise lungo tutto il contorno del viso, fermandosi solo un momento all’altezza dell’orecchio destro per girare la mano. Il taglio bruciava e cominciò a sanguinare, ma era sopportabile. “Ora” pensò “viene il peggio. Devo tirarlo via, devo, devo!” Provò piano a staccarlo da una parte, ma non veniva facilmente. Faceva male tirare. Sentì che stava provocando una lacerazione, e si fermò. Il bruciore della ferita stava aumentando. “Anche adesso l’unica è fare tutto di colpo. Se sto qui a tirare piano soffrirò le pene dell’inferno e rischio di svenire prima di aver finito.” Si distese per terra, per prevenire uno svenimento. Non riusciva a decidersi, ma infine pensò che era arrivato a un punto in cui non poteva più tirarsi indietro. Si afferrò con le due mani il lato sinistro del volto. Affondò le dita nel taglio, e quando fu sicuro di avere ben afferrato lo strato di roccia (era ormai sicuro che avesse uno spessore di un centimetro, ma non riusciva a capire come fosse attaccato alla sua testa) strappò con violenza, con una brutalità in cui scaricò la sua paura e insieme la sua rabbia per essersi ritrovato in quella condizione. Scaraventò il volto lontano da sé. Il dolore era terribile. Gli si annebbiò la vista. Sentì che il sangue cominciava ad affluire copioso e fu preso da una nuova paura. Gli balenò un pensiero chiarissimo: “Devo assolutamente correre in un’ospedale o morirò dissanguato”. Si girò su un fianco e cominciò faticosamente ad alzarsi. Vide dalla finestra che si era fatto buio. Era in preda al panico, ma determinato almeno ad uscire. Non osò guardarsi allo specchio. Si precipitò in strada, incurante dei passanti che lo guardavano a bocca aperta. Salì in macchina e partì in direzione dell’ospedale vicino. Arrivato di fronte al cancello dell’ospedale, sentì che le forze si esaurivano. Capì che non ce l’avrebbe fatta. Parcheggiò, appoggiò la testa al volante, e si lasciò andare.
Rapporto dell’ufficiale incaricato, distretto 229 di Polizia Scientifica
Alle ore 9.00 del giorno 27 marzo il sottoscritto si recava di fronte all’ospedale di San ..., in seguito a una telefonata del custode sig. Ravasi. Rilevava la presenza di un auto targata ..., parcheggiata regolarmente. Nell’auto constatava la presenza di abbondanti tracce di sangue, e accertava l’esistenza di una singolare statua, interamente di pietra, rappresentante un uomo con la testa appoggiata al volante. Da notare la straordinaria verosimiglianza e precisione con cui la statua è stata scolpita (“iperrealismo”, secondo l’attendente M. C.), ad es. le minime pieghe del vestito. L’unico punto in cui la statua (vedi foto allegate, protocollo 548) risulta essere opera di fantasia è il volto, che si presenta completamente liscio, privo di qualsiasi lineamento, come un guscio d’uovo. Ciò produce nell’osservatore uno strano contrasto, perché orecchie e capelli sono invece scolpiti in modo mirabile. Campione del sangue è stato già inviato in laboratorio per analisi e riscontri. Con il presente rapporto si intende aprire un’indagine, giacché si ignora allo stato attuale sia la provenienza del sangue sia la provenienza della singolare statua, ma in ogni caso perché la sig.na Ada Romboni ha sporto denuncia (prot. 669) per la scomparsa del sig. Alberto Varani, che risulta essere proprietario dell’auto in questione.
Davanti allo specchio del bagno, dove si era recato come ogni mattina per radersi, Alberto scoprì che il suo volto era diventato di pietra. I lineamenti, il naso, la fronte spaziosa, il mento largo: tutto aveva la forma ben nota, ma era bloccato in un’espressione neutra, innaturale. Il primo impulso fu di toccarsi la guancia. Si trattava indubbiamente di pietra, una roccia grigia, fredda e liscia. Il taglio degli occhi era esattamente il suo, ma al posto dei bulbi oculari vi era del vuoto da cui usciva una debole luce rossastra. Provò cautamente a infilarci un dito, ma non riuscì a incontrare nessuno ostacolo, né riuscì a individuare la fonte di quella luce interna. Certo era che ci vedeva benissimo. Si guardò intorno: tutto era familiare, l’accappatoio a righe verdi e blu, l’armadietto di legno con lo sportellino di vetro, il tubetto di dentifricio mezzo accartocciato sulla mensola di marmo bianco. Provò a uscire dal bagno e diede una rapida occhiata alla camera da letto. Tutto era in ordine. Tornò a guardarsi allo specchio, sperando questa volta di vedere la sua solita faccia, ma dovette constatare che la realtà era proprio quella. Fece un tentativo di togliersi quel volto di pietra come se fosse stato una maschera, ma si rese conto che la roccia, là dove terminava, in corrispondenza del profilo delle mascelle e delle tempie, era come saldata alla carne, di modo che tirandola anche la pelle della gola si tirava. Le orecchie e i capelli erano rimasti normali. Li tastò affettuosamente, per poi tornare con le dita a toccarsi il volto freddo e duro. Le narici erano ancora due buchi da cui poteva respirare. La bocca era fissata in un lievissimo sorriso ed era leggermente dischiusa, ma la fessura era troppo stretta per poterci infilare un dito. Provò a schiarirsi la gola. Sembrava tutto regolare. Quando però tentò di parlare sentì una specie di gorgoglio, e invece della voce, dalla bocca uscì del vapore che andò ad appannare la parte bassa dello specchio. Non era ancora sicuro che non si trattasse di un’allucinazione. Non riusciva a crederci veramente. Provò a risciacquarsi la faccia con dell’acqua tiepida, come faceva tutte le mattine. Mentre sentiva nascere un senso di pena e di nostalgia per il suo volto naturale, gli venne in mente che quel giorno avrebbe dovuto terminare un lavoro urgente, da consegnare assolutamente l’indomani. Si sciacquò più volte, sperando oscuramente che quello strato di roccia venisse lavato via (ma i suoi occhi? Sarebbero ricomparsi insieme a tutto il resto?). Si coprì il volto con l’asciugamano, che poi abbassò lentamente, di fronte allo specchio. La situazione era immutata, tranne che per il colore della pietra che, essendosi bagnata, adesso era grigio scuro. Finì rapidamente di lavarsi. “Per fortuna che Ada non c’è” pensò. “Devo risolvere assolutamente questo pasticcio prima che lei torni. Morirebbe di paura, se mi vedesse così.” Andò a vestirsi in camera da letto. Mentre si infilava i calzini pensò che avrebbe potuto saltare la colazione. Un problema in meno, e poi non era per niente sicuro di riuscire a mandar giù qualcosa. Neanche un caffè? Già solo il pensiero di doverlo versare in quella fessura di pietra lo impensieriva. La mente gli tornò sul lavoro che avrebbe dovuto terminare quel giorno. Si trattava di rifinire un grande pannello in legno per stampe su stoffa, che gli aveva commissionato la sua cliente più importante. Alberto in città era uno dei pochi incisori in grado di realizzare un’opera del genere, ma se avesse mancato quella consegna avrebbe compromesso il rapporto con la cliente, rischiando di perdere la fonte principale dei suoi guadagni. Finito di vestirsi, Alberto andò a gran passi nel suo stanzone-laboratorio. Tutto era pronto per cominciare, così come lo aveva lasciato la sera prima. Il pannello di legno con delicate decorazioni floreali in altorilievo, a cui lavorava da quattro mesi, era sul cavalletto; tutti gli strumenti, perfettamente affilati, erano ben allineati sul tavolino alto. Alle pareti erano appesi i lavori già pronti. Qua e là, sul pavimento, blocchi di legno, gesso, pezzi di cuoio, corde, trucioli. Dal finestrone entrava una luce bianca e calda. Alberto sentì per un momento il desiderio fortissimo di terminare il lavoro. Doveva rifinire tutti gli angoli acuti aggettanti, aguzzarli bene, in modo che risplendessero come lancie di un esercito medievale schierato al sole. In mezza giornata avrebbe terminato, e avrebbe potuto consegnare addirittura con un giorno di anticipo. Poteva mettersi subito all’opera, ma l’idea di avere la faccia ridotta in quello stato non gli dava pace. “Cosa può essere successo?” si chiese. “Non può essere una malattia della pelle, qualcuno deve avermi incollato...” Tornò rapidamente in bagno, di fronte allo specchio, e riprovò a togliersi quella cosa. Infilò i pollici nei buchi degli occhi e provò a tirare verso l’esterno. Sentì il cuoio capelluto tendersi. Non osava insistere. Rilasciò la presa, ma l’idea di rassegnarsi così gli sembrava troppo triste, così si decise a ritentare, e questa volta avrebbe forzato un po’. Si afferrò di nuovo le palpebre di pietra e tirò più forte. Niente. Era proprio una parte di sé, non era incollata né attaccata in altro modo. Con un po’ di paura, serrò la presa e diede uno strattone, ma cominciò a sentire un dolore lungo tutto il bordo del volto di pietra, là dove la roccia era saldata alla carne. Lasciò subito la presa. Si osservò meglio allo specchio. Nel punto di confine tra roccia e carne, lungo tutto il bordo della faccia, vi era una sottile zona intermedia, come se la pietra sfumasse nella pelle. In quel bordo sottile era come se la sua pelle fosse quella di un rinoceronte. Avvertì un leggero senso di nausea. In quel momento squillò il telefono. Si precipitò a rispondere. Sollevò la cornetta, ma non riuscì a dire niente. Dalla bocca uscì invece una nuvoletta di vapore, accompagnata dallo stesso rumore che fanno i ferri da stiro. «...» «Alberto? Sono Ada!» «...» «Sono Ada! Mi senti?!» Riattaccò contrariato. Questa impossibilità di parlare, né di emettere suono alcuno se non quel sordo sbuffo era veramente troppo. “Ora Ada” pensò “sarà sicuramente entrata in allarme. Interromperà qualsiasi cosa per precipitarsi a casa. Domani mattina presto certamente sarà qui. Cosa dirà vedendomi così? Fuggirà? Cercherà di soccorrermi? Forse dovrei chiamare un medico. Ma cosa potrei dirgli? ‘Ho bisogno che venga subito perché mi si è pietrificata la faccia’... No, non posso...” Per un attimo gli tornò in mente l’idea di mettersi al lavoro, ma capì che in realtà non aveva scelta: non sarebbe riuscito comunque a lavorare con la dovuta calma e concentrazione, in quelle condizioni. Avrebbe rovinato il pannello con dei ritocchi affrettati e imprecisi, e allora tanto valeva rischiare di mancare la consegna. Doveva innanzitutto pensare a sé. Si toccò di nuovo la superficie liscia e fredda del volto e fu scosso da un fremito. Gli vennero in mente altri momenti cruciali della sua esistenza. Si era reso conto, negli anni, che il modo migliore per lui di affrontare problemi difficili o decisioni angosciose era quello di essere di fronte a un paesaggio ampio e luminoso, così decise di uscire di casa. Prese le chiavi della macchina e si infilò il giubbotto di jeans. Stava per aprire la porta quando pensò che forse era meglio coprirsi la faccia in qualche modo. Un giornale? Un cappello a larga tesa? Si infilò gli occhiali da sole neri e prese in mano un giornale che avrebbe fatto finta di leggere se avesse incontrato qualcuno. Uscì sul pianerottolo. Fece a piedi i tre piani di scale, senza incontrare nessuno. Varcato il portone del palazzo avrebbe dovuto solo traversare la strada, la macchina era parcheggiata di fronte. C’era qualche passante, ma non lo guardarono. Traversò con passo deciso, il cuore batteva forsennato. Entrato nell’auto si sentì più al sicuro. Era nuova, molto comoda e confortevole. Si era infatti deciso da poco a cambiare la sua vecchia Ritmo, ormai colabrodo rugginoso, e aveva scelto, questa volta, una marca francese. Partì velocemente, pensando però di evitare l’autostrada per non dover avere a che fare con eventuale casellante inquisitivo. Aveva in mente un posto ideale, un po’ lontano ma ne valeva la pena. Guidò con impazienza nelle strade di città, e solo quando fu fuori e vide i primi campi cominciò a rilassarsi. Il cielo era azzurrissimo, e il sole faceva luccicare l’asfalto. Vedeva sfrecciare ai suoi lati alberi e caseggiati. Si rese conto che stava ampiamente superando il limite di velocità consentito sulle statali, ma era su un rettilineo e c’era pochissimo traffico. La grande velocità gli faceva bene. Gli dava la sensazione di sfuggire al suo groppo di problemi. Concentrò lo sguardo sull’orizzonte, sul punto più lontano che potesse focalizzare, là dove le due linee convergenti della strada in prospettiva si incontravano, e osservò il mutare e il nascere delle forme in quel punto lontano, che sembrava emettere in continuazione nuovo spazio, nuova strada da percorrere. Rimase così, come ipnotizzato, per una buona mezzora, riuscendo a non pensare a nulla. Alla fine si sentiva calmo, ma sapeva che se avesse ricominciato a pensare sarebbero tornate l’ansia e la paura. Cercò di rimandare ogni pensiero e ogni decisione a dopo, quando si sarebbe trovato di fronte al suo paesaggio. Era cominciata la zona della coltivazione del pioppo, che amava moltissimo. Guardò l’orologio. “Già le undici e mezza!” Dopo poco imboccò una deviazione sulla destra. La strada saliva leggermente, e c’era una serie di curve. Quando arrivò sul posto, una collinetta che dominava una vasta zona pianeggiante, era mezzogiorno in punto. Lasciò la macchina in un piccolo spiazzo e si avviò a piedi nel prato. L’erba era alta e, come prevedeva, il posto era solitario. Arrivato in cima al cocuzzolo si sedette a gambe incrociate. Levò lo sguardo sul paesaggio. Indugiò lungamente sui filari di pioppi che vedeva in lontananza. Lunghi e tremuli, sembravano giocare col vento che gli solleticava le foglie e facevano pensare a persone alte e silenziose, pacifici plotoni in contemplazione, in attesa. Erano loro i veri abitanti di quelle pianure. Spaziò con lo sguardo in tutta la larghezza di quel paesaggio lucente. Una mosca andò a posarglisi sulla punta del naso. La vide ma non ne sentì il tocco. Il suo volto di pietra era insensibile. “Insomma, cosa mi è capitato? Cos’è questa cosa che ho addosso? Possibile che sia una malattia sconosciuta, che capita a me per la prima volta? Quale può essere la causa, l’origine di tutto ciò? È un periodo così buono, questo. Certo non me la sono andata a cercare!” Posò entrambe le mani sul proprio volto, come cercando di farlo tornare normale con il calore delle mani. Toccarlo, adesso, non gli faceva più impressione, ma avrebbe voluto poterlo sciogliere, rompere, togliere. Cominciò a pensare a cosa poteva aver fatto per causare questa trasformazione, e a chi o che cosa potesse avergliela provocata, ma pur riesaminando con cura tutto il periodo recente della sua vita non riusciva a trovare niente di insolito o sospetto, nessuna variazione di rilievo. Il tempo passava e Alberto non aveva preso nessuna decisione. A un certo punto una nuvola oscurò la luce solare e si rese conto che non aveva senso continuare a star lì perdendo tempo prezioso. Voleva venirne fuori prima del ritorno di Ada, e in tempo per finire e consegnare il suo lavoro. Prese in considerazione l’idea di andare in un pronto soccorso, ma aveva paura che non l’avrebbero preso sul serio, e che potessero irritarsi con lui, chiamare la polizia... Di colpo gli venne l’idea. Sarebbe intervenuto da solo. A quel punto gli sembrò l’unica soluzione praticabile. “Come ho fatto a non pensarci subito?” Inspirò profondamente l’aria profumata di quel prato, guardò per l’ultima volta il suo paesaggio, si diresse velocemente all’auto.
Tornato a casa, andò dritto nella stanza da lavoro e scelse il bisturi più affilato che aveva. Si trasferì in bagno, di fronte allo specchio. Cominciò a incidere dal lato sinistro, appoggiando il bisturi sul limite del volto, là dove la pietra era saldata alla carne, nel punto in cui la pelle si faceva improvvisamente spessa e grigia. Prima di affondare la lama fece un grande sospiro. Aveva paura, ma era convinto di non avere altra scelta. Penetrò con la lama di mezzo centimetro. Non sentì alcun dolore, ma si rese conto, facendo leggermente leva col bisturi verso di sé, che lo spessore del volto di pietra doveva essere almeno di un centimetro. Affondò la lama di un altro mezzo centimetro. A quel punto cominciò a sentire un certo dolore. Fece leva con cautela per capire se aveva raggiunto il limite interno della roccia. Sì, sembrava proprio di sì, ma ora doveva, restando a quella profondità, praticare un taglio lungo tutto il bordo del volto. Cominciò lentamente a scendere con la lama, incidendosi la pelle grigia e rugosa. Capì subito che l’operazione sarebbe stata dolorosa. “Forse allora” pensò “è meglio che faccia velocemente, come quando incido il cuoio seguendo una guida di metallo”. Si fece coraggio. Provò mentalmente il gesto. Stava cominciando a sudare. Era estremamente determinato. Con mossa decisa incise lungo tutto il contorno del viso, fermandosi solo un momento all’altezza dell’orecchio destro per girare la mano. Il taglio bruciava e cominciò a sanguinare, ma era sopportabile. “Ora” pensò “viene il peggio. Devo tirarlo via, devo, devo!” Provò piano a staccarlo da una parte, ma non veniva facilmente. Faceva male tirare. Sentì che stava provocando una lacerazione, e si fermò. Il bruciore della ferita stava aumentando. “Anche adesso l’unica è fare tutto di colpo. Se sto qui a tirare piano soffrirò le pene dell’inferno e rischio di svenire prima di aver finito.” Si distese per terra, per prevenire uno svenimento. Non riusciva a decidersi, ma infine pensò che era arrivato a un punto in cui non poteva più tirarsi indietro. Si afferrò con le due mani il lato sinistro del volto. Affondò le dita nel taglio, e quando fu sicuro di avere ben afferrato lo strato di roccia (era ormai sicuro che avesse uno spessore di un centimetro, ma non riusciva a capire come fosse attaccato alla sua testa) strappò con violenza, con una brutalità in cui scaricò la sua paura e insieme la sua rabbia per essersi ritrovato in quella condizione. Scaraventò il volto lontano da sé. Il dolore era terribile. Gli si annebbiò la vista. Sentì che il sangue cominciava ad affluire copioso e fu preso da una nuova paura. Gli balenò un pensiero chiarissimo: “Devo assolutamente correre in un’ospedale o morirò dissanguato”. Si girò su un fianco e cominciò faticosamente ad alzarsi. Vide dalla finestra che si era fatto buio. Era in preda al panico, ma determinato almeno ad uscire. Non osò guardarsi allo specchio. Si precipitò in strada, incurante dei passanti che lo guardavano a bocca aperta. Salì in macchina e partì in direzione dell’ospedale vicino. Arrivato di fronte al cancello dell’ospedale, sentì che le forze si esaurivano. Capì che non ce l’avrebbe fatta. Parcheggiò, appoggiò la testa al volante, e si lasciò andare.
Rapporto dell’ufficiale incaricato, distretto 229 di Polizia Scientifica
Alle ore 9.00 del giorno 27 marzo il sottoscritto si recava di fronte all’ospedale di San ..., in seguito a una telefonata del custode sig. Ravasi. Rilevava la presenza di un auto targata ..., parcheggiata regolarmente. Nell’auto constatava la presenza di abbondanti tracce di sangue, e accertava l’esistenza di una singolare statua, interamente di pietra, rappresentante un uomo con la testa appoggiata al volante. Da notare la straordinaria verosimiglianza e precisione con cui la statua è stata scolpita (“iperrealismo”, secondo l’attendente M. C.), ad es. le minime pieghe del vestito. L’unico punto in cui la statua (vedi foto allegate, protocollo 548) risulta essere opera di fantasia è il volto, che si presenta completamente liscio, privo di qualsiasi lineamento, come un guscio d’uovo. Ciò produce nell’osservatore uno strano contrasto, perché orecchie e capelli sono invece scolpiti in modo mirabile. Campione del sangue è stato già inviato in laboratorio per analisi e riscontri. Con il presente rapporto si intende aprire un’indagine, giacché si ignora allo stato attuale sia la provenienza del sangue sia la provenienza della singolare statua, ma in ogni caso perché la sig.na Ada Romboni ha sporto denuncia (prot. 669) per la scomparsa del sig. Alberto Varani, che risulta essere proprietario dell’auto in questione.
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