12 ottobre 2008

La macchina dell'esperienza




LA MACCHINA DELL'ESPERIENZA   Versione scaricabile e stampabile




Avvertenza: Questo racconto prosegue idealmente (stessi personaggi e stesso contesto) il racconto "La macchina del libero arbitrio" (pubblicato nel blog in due parti).



I

Scrivere la relazione sulla macchina del libero arbitrio era stato come liberarsi di un problema troppo complesso. L’avevo scritta a casa, concentrato, ma nelle pause che mi concedevo durante la scrittura il pensiero correva a quell’altra scatola verde sul tavolo delle novità, la cui presenza non avevo notato e che mi aveva indicato Robert.
Renate era contenta che avessi deciso di lavorare un po’ in casa, e mi portava ogni tanto generi di conforto: una tisana di liquirzia e cedrina, deliziosa, un cioccolatino al miele di lavanda, caramelle di lampone fatte da lei con i lamponi che coltivava in terrazza. Era una fase in cui stavamo molto bene insieme.
Mi disse che mi vedeva inquieto e gli spiegai che i ritmi di lavoro che la Hoekk ci imponeva erano serrati, ma che il lavoro ultimamente era diventato più interessante. Sì, ero agitato, ma era anche un’eccitazione positiva. Avevo infatti ricollegato mentalmente l’insolito colore verde della scatola contenente la macchina del libero arbitrio con la notizia, appresa qualche tempo prima alla Hoekk, dell’arrivo di tre filosofi nel gruppo dei creativi, e la presenza di un’altra novità di quel genere stimolava la mia curiosità, già forte per natura.
Il giorno in cui, ultimata la relazione, mi recai nuovamente in laboratorio ero decisamente allegro. La strada che facevo a piedi per arrivare in centro passava da uno dei grandi parchi della città. C’erano alcune persone in pantaloncini corti e scarpe da ginnastica che correvano, qualche mamma con bimbo in passeggino. Passai accanto a un signore seduto in panchina che leggeva un grosso volume dalla copertina arancione. Sbirciai il titolo: La vera religione è la matematica. “Però,” pensai fra me “una lettura impegnativa! ... così di mattino presto, al parco…”.
Aspirai con piacere, a pieni polmoni, l’odore dell’erba fresca, zuppa di rugiada, e per un minuto mi fermai a contemplare una quercia imponente. Ammiravo la grande ampiezza dei suoi rami frondosi e pensai che un equivalente ampiezza, rovesciata specularmente, dovevano avere le sue radici. Robert, puntualissimo come al solito, mi accolse calorosamente, e ci dedicammo subito all’apertura della scatola verde. L’unico pezzo familiare che conteneva era un casco bioelettronico. Era bianco, con riflessi iridati, quasi fosse di madreperla, ma doveva essere sicuramente una plastica integrata. Gli altri pezzi, tutti dello stesso materiale, erano strani: una grossa sfera, un piccolo display quadrato con tastierino numerico, e quattro tavolette che, da un lato, presentavano una superficie morbida, rossastra. Le quattro tavolette erano collegate da cavi trasparenti blu alla sfera e così anche il display.
Robert ed io ci scambiammo un’occhiata silenziosa: guardando i componenti della macchina non ci si capiva nulla.
Con mio grande sollievo, le istruzioni consistevano in un fascicoletto di non più di cinque pagine. Presi la scheda di produzione. Robert era accanto a me e la leggemmo in silenzio:

MACCHINA DELL’ESPERIENZA (nome provvisorio)
Caratteristiche del prodotto: la macchina è in grado di produrre, nel vissuto del soggetto che la utilizza, qualunque esperienza egli desidera. È necessario programmare la durata delle esperienze, a partire dall’immediato futuro, servendosi di un timer. La durata massima è virtualmente illimitata.

Dati tecnici: modello di mente n. 5332, modello di interazione mente-cervello n. 315; teoria Nozick-Ricoeur del flusso identità/coscienza; teoria Piana-Bonomi dell’immaginazione; microbiochip ASAD 5.7; neuroni organico-elettronici FTAH nella versione scalare.

− Che significherà “virtualmente illimitata”? − disse Robert
− Non capisco − risposi, sentendo contemporaneamente una vaga sensazione di disagio.
− E come diavolo fa la macchina a sapere i desideri di chi l’adopera?
− Non scordarti che attraverso il casco può avvenire trasmissione di informazioni dal cervello alle macchine nei due sensi…
− Sì, questo lo so ma… − sorrise guardandomi − questa volta sono io l’impaziente. Che ne dici di leggere con calma le istruzioni?
− Questa volta te lo concedo, dato che sono così corte. Inoltre non saprei proprio come inziare ad usare la macchina, dato che i suoi componenti non li riconosco. Robert lesse a voce alta le istruzioni, saltando alcune parti che gli sembravano non rilevanti.

PROGRAMMAZIONE DELLO SCOLLEGAMENTO AUTOMATICO
La scatola con il display contiene il timer ed è programmabile usando il tastierino numerico. Occorre innanzitutto inserire anno, giorno e ora presente. La durata di ogni sessione va programmata in anticipo inserendo anno, giorno e ora nel riquadro “tempo di fine esperienza”. Attenzione: nel corso del tempo programmato sarà completamente persa la memoria di tutto ciò che riguarda l’esistenza della macchina. Il soggetto quindi ignorerà che si tratti di esperienze prodotte artificialmente. Ciò è stato voluto dagli ideatori della macchina per consentire al soggetto una piena simulazione del reale, senza che le relative emozioni venissero inquinate dalla consapevolezza del trattarsi di una percezione illusoria. Ciò ovviamente comporta lo svantaggio che il soggetto non potrà scollegarsi volontariamente dalla macchina fino a quando non scatterà lo scollegamento automatico in base all’impostazione del timer. Nel caso in cui, nel corso di una sessione, si verifichi un incendio o altre condizioni pericolose per la vita del soggetto la macchina si scollegherà automaticamente. Ciò è garantito dal dispositivo di sicurezza ATACHIvers.9, lo stesso rilevatore attualmente in uso presso le cabine di pilotaggio delle astronavi. […]

POSIZIONE DEL CORPO Si consiglia la posizione sdraiata, supini, braccia stese lungo i fianchi, gambe piegate, piedi al suolo. Mani e piedi (che devono essere nudi), vanno rivolti verso il pavimento e affondati per bene nel materiale morbido delle quattro tavolette. […]

DURATE PROLUNGATE E OPZIONE “DURATA ILLIMITATA” Nel caso in cui si sia predisposta la necessaria assistenza esterna, sia per quanto riguarda i bisogni fisiologici del soggetto, sia per quanto riguarda il rifornimento di energia alla macchina e la sua manutenzione in corso d’opera (per questo secondo aspetto contattare i tecnici Hoekk ai numeri in fondo indicati), la durata di una sessione può essere programmata per periodi anche molto lunghi. A livello teorico non ci sono controindicazioni tecniche (né a livello biomeccanico, ne a livello psicofisico) all’ipotesi che la durata di una sessione venga a coincidere con l’intera durata della vita del soggetto. Per programmare quest’opzione digitare ∞ nello spazio riservato all’anno, nel riquadro “tempo di fine-esperienza” (ovviamente non sarà allora necessario indicare data e ora). In questo caso, però, solo un altro soggetto potrà scollegare dalla macchina il soggetto interessato. Nel caso di durate superiori alla settimana si consiglia l’utilizzo in camere antigravitazionali, per evitare problemi circolatori, piaghe da decubito e altri inconvenienti fisiologici. […]

AVVERTENZA
Nel corso del tempo programmato potranno verificarsi improvvise discontinuità nelle esperienze. Ciò è perfettamente normale, non va imputato a un difetto della macchina, e si verifica perché la macchina segue fedelmente l’andamento dell’immaginazione, lasciando che questa venga guidata unicamente dal desiderio e trasferendo tutti i vissuti sul piano della percezione.


− Quella storia della durata illimitata mi sembra inquietante. − dissi subito a Robert quando vidi che rialzava la testa dopo aver finito di leggere i passaggi essenziali delle istruzioni
− Già. Non si capisce perché abbiano previsto quell’opzione. Comunque la macchina sembra interessante, non trovi?
− Senza dubbio. Voglio provarla subito. Infilato il casco, regolai il timer inserendo l’ora esatta e poi programmai un’esperienza cinque minuti. Sdraiato per terra nella posizione consigliata, chiesi a Robert di aiutarmi ad infilare mani e piedi nelle quattro tavolette. La sensazione era piacevole. Erano fresche, morbide, si adattavano perfettamente alla forma delle mie estremità. Per avviare era sufficiente premere leggermente il pollice destro verso il fondo della tavoletta.

Inizialmente mi trovai nella medesima situazione da cui ero partito, con la differenza che invece che essere sdraiato per terra e collegato alla macchina ero seduto in poltrona (ogni traccia della macchina era scomparsa), di fronte a Robert. Il laboratorio era identico a quello reale, con i mobili lucidissimi in acciaio cromato e il pavimento a stelle e losanghe di legno vetrificato. Mi sentivo pervaso da una calma profonda.
Provavo un po’ di sete, e mentre consideravo quale bevanda mi avrebbe fatto piacere bere mi si materializzò fra le mani un bicchierone nel quale cominciò ad agitarsi un liquido multicolore. Fui sorpreso, ma non impaurito. Il bicchiere aveva una forma familiare, una forma rassicurante, che contrastava con il fatto che fosse comparso all’improvviso. Osservai il liquido al suo interno, che sembrava scosso da un frullatore invisibile. Restai per mezzo minuto ipnotizzato da quel movimento e dalla cangianza di colore che lo accompagnava. Poi riavvertii la sete. Il mio desiderio si precisò e contemporaneamente il liquido assunse un colore rossastro, fino a che si stabilizzò in un intenso rosso rubino. A quel punto ero quasi certo di sapere che quello era un bicchiere di puro succo di melagrana, esattamente ciò di cui avevo voglia in quel momento. Annusai, assaggiai un sorso. Il sapore era inconfondibile. Una dolcezza piena e ruvida, con una sottile vena asprigna. Sembrava di sentire il calore del sole insieme a una frescura ombrosa di sottobosco.
Era successo qualcosa di incredibile, lo sapevo, ma non mi sentivo affatto minacciato dal mistero di come fosse stato possibile. Il fatto che la realtà, in quel momento, si fosse adeguata perfettamente al mio volere mi diede una strana sensazione di giustizia. Senza pensarci ulteriormente, portai il bicchiere alla bocca e ne bevvi tutto il contenuto, assaporandolo con calma. Alla fine mi sentivo benissimo, completamente dissetato, inebriato dal sapore della melagrana e pieno di energia.
Mi alzai. Sentii che il mio corpo rispondeva con una forza inconsueta. Non ricordavo cosa stessimo facendo Robert ed io poco prima. Ero consapevole che la giornata lavorativa era iniziata da poco, ma non ricordavo di quale lavoro ci stessimo occupando. Ora Robert era assorto nella lettura di un fascicolo, e non badava a me. Avevo la sensazione che le mie forze fisiche e mentali fossero superiori al lavoro che mi attendeva in laboratorio. Avevo voglia di impegnarmi in qualcosa di importante, di veramente importante. Qualcosa che, sentivo, stava accadendo fuori dal palazzo della Hoekk.
Andando verso la finestra, per guardare cosa stesse avvenendo, passai accanto ad uno specchio e vidi per un istante la mia immagine riflessa. Il mio corpo mi apparve più bello di come ero abituato a considerarlo, con le spalle più larghe e complessivamente più robusto. Ma non mi soffermai a guardarmi. Sentivo di non averne il tempo.
Guardando attraverso la finestra, che dava sulla grande piazza antistante il palazzo, vidi che c’era una piccola astronave azzurra, scintillante, lucidissima, attorno alla quale si stava formando una folla di passanti curiosi. Capii subito di cosa si trattava: era il primo atterraggio di una delegazione proveniente da un’altra galassia, di una forma di vita intelligente mai vista prima. C’era bisogno di qualcuno che potesse comunicare con loro, che potesse scambiare con loro preziose informazioni sulla natura essenziale dell’energia. Solo io potevo farlo, perché solo io ero in grado di decifrare il loro linguaggio. C’era bisogno urgente di me laggiù, ne ero certo. Dovevo scendere immediatamente…


Scaduti i cinque minuti, tornai alla realtà, conservando traccia tangibile dell’ultima emozione che avevo provato. Sentivo che il cuore mi batteva forte. Robert mi interpellò immediatamente.
− Alec, tutto bene?
Mi ci volle qualche secondo per capire cos’era avvenuto. Ritrovandomi sdraiato a terra con mani e piedi infilati nelle quattro tavolette realizzai che si era trattato di un’esperienza illusoria, ma ricordavo tutto perfettamente, come se l’avessi realmente vissuto.
− Sì, Robert.
− Allora? Racconta
− Pazzesco! È come sognare, ma sei sveglio, consapevole…
− E decidi tu cosa sognare?
− Non esattamente… Non è che decidi prima. Decidi via via, ascoltando dentro di te le sensazioni. Quello che senti corrisponde a quello che via via accade, ma non è che lo sai prima, lo scopri di momento in momento…
− Ed è… piacevole?
− Direi di più. Direi… − il pensiero mi si chiarì in mente mentre mi sforzavo di parlarne a Robert − che sono stati cinque minuti di felicità, di pura felicità!
Raccontai brevemente cosa avevo vissuto, dopodiché proposi a Robert di provare su se stesso la macchina, in modo che poi ne potessimo parlare più facilmente.
Robert, curiosissimo, accettò volentieri.
Anche lui impostò cinque minuti, dopo essersi sdraiato e avere infilato mani e piedi nelle tavolette.
Lo osservai attentamente durante tutta la durata dell’esperimento. Notai l’espressione del suo volto, dapprima rilassato, poi sorridente, poi gioioso, poi... a un certo punto aprì la bocca e cominciò a respirare affannosamente. Con un certo imbarazzo dovetti registrare, percorrendo con lo sguardo tutto il suo corpo, fasciato dalla tuta da lavoro semiaderente, evidenti segni di eccitazione sessuale, che perdurarono per tutto il tempo dell’esperimento.
Quando tornò alla realtà si rese subito conto del suo stato, ancora in piena evidenza, ed arrossì violentemente.
Cercai di metterlo a suo agio:
− Non penserai che mi scandalizzi per così poco!
− No, ma…
− Vuoi andare a farti una doccia?
− No, grazie. È sufficiente che mi prepari una bevanda calda.
− Agli ordini. Cosa gradisci?
− Un infuso di tiglio, grazie.
Il nostro laboratorio era dotato di un efficientissimo vano di alimentazione, che si trovava vicino alla finestra. Feci qualche passo in quella direzione. Digitai sullo schermo quello che Robert mi aveva chiesto e in un minuto l’infuso fu pronto. Quando tornai a portarglielo vidi che Robert si era già ripreso dall’imbarazzo. Sorseggiando il tiglio socchiudeva gli occhi per proteggersi dal vapore. Lasciai che fosse lui a decidere quando iniziare a parlare.
− Allora Alec, sappi che non ho alcuna intenzione di raccontarti nei dettagli cosa ho vissuto…
− Beh, questo lo davo per scontato, ma dimmi come si sono svolte le cose, come l’hai vissuto...
− Infatti, di questo possiamo parlare, anzi dobbiamo. Innanzitutto anche per me l’esperienza è stata bellissima, intensa al pari di un’esperienza reale, e anche per me le cose si sono svolte seguendo fedelmente l’andamento di un desiderio che scoprivo momento per momento. Devo dirti, ad esempio, che l’esperienza che ho vissuto non corrispondeva alle mie classiche fantasie sessuali, se non riguardo alle grandi linee…
− Ovvero?
− Ovvero… − qui esitò, poi sembrò prendere una risoluzione − ovvero c’erano, come di consueto, più partner che… − mi lanciò un’occhiata indagatrice.
Io restai, recitando alla perfezione, impassibile.
−… si prendevano cura di me contemporaneamente, ma… non avrei potuto dire in anticipo cosa avrebbero fatto… anche se poi… quello che facevano corrispondeva esattamente al mio desiderio in quel momento.
− Capisco. La modalità è la stessa dell’esperienza vissuta prima da me. Sappiamo quindi ora qual è l’interesse principale di questa macchina: produce piacere soddisfando i desideri via via che questi si presentano.
− E non solo piaceri fisici. Tu, prima, stavi inziando un’esperienza nella quale il piacere sarebbe stato quello di svolgere una ruolo intellettuale, e d’azione insieme, di grande prestigio sociale…
− Già. Invece che “macchina dell’esperienza” potevano chiamarla “macchina della felicità”. Credo si venderà molto, moltissimo… Comincio anche a capire perché abbiano ipotizzato durate lunghe.
Decisi che avrei provato di nuovo la macchina. Volevo vedere dove si poteva arrivare con una sessione di durata decisamente più lunga di cinque minuti. Chiesi a Robert di starmi sempre vicino e di sorvegliare il mio comportamento. Non mi fidavo completamente dei test di sicurezza.
Dopo aver impostato il timer su una durata di tre ore, riassunsi la posizione sdraiata con le gambe piegate e i piedi affondati nelle due tavolette. Infilai il casco, adagiai le mani nell’altra coppia di tavolette e diedi l’avvio.


Ero seduto in poltrona, in laboratorio. Robert era di fronte a me e mi guardava sorridendo. Sentivo che stava per dirmi qualcosa di determinante per il mio immediato futuro.
− Allora, Alec! − disse − Su quella scrivania ti ho preparato tutto il materiale necessario a farti una cultura sufficientemente solida e profonda per poter affrontare il compito che ti aspetta.
Sapevo a cosa stava alludendo. Mi ero iscritto a tenere un intervento nel XXXIV Congresso interplanetario sui Fondamenti. Avevo qualcosa di importante da dire. Mi era venuta tempo addietro un’intuizione straordinaria, che si trattava ora di definire, di ancorare a precisi riferimenti culturali.
Mi avvicinai trepidante alla scrivania.
Vi troneggiavano pile di volumi, ordinate per argomenti e disposte in questa sequenza: matematica, fisica teorica, cosmologia, biologia, religioni comparate, filosofia.
Per nulla scoraggiato, anzi elettrizzato da quanto mi aspettava, presi il primo volume della prima pila a sinistra: Bolahvnsky-Klosserman, Teoria completa dei numeri.
Cominciai a voltare le pagine, partendo dalla prima. Nome della collana nella quale il volume era inserito. Copyright, Iduanie Editore, date delle edizioni, codice del volume. Frontespizio. Indice:

1. Numeri naturali e innaturali
2. Numeri razionali e irrazionali
3. Numeri reali e immaginari
4. Numeri transfiniti: ordinali e cardinali
5. Numeri iperbolici e ellittici
6. Numeri assiomatici e dimostrativi
7. Numeri assoluti e relativi
8. Numeri pieni e vuoti
9. Numeri continui e discreti
10. Numeri globali e locali

Quest’indice, che normalmente mi avrebbe paralizzato, fu come leggere un’appetitoso menu. Ogni titolo di capitolo creava nella mia mente un apposito spazio, predisposto, pronto ad accoglierne il contenuto. Continuai a girare le pagine con ritmo regolare, e ogni pagina che vedevo, bastava un’occhiata attenta, si trasformava automaticamente in informazioni digerite, organizzate, in concetti che andavano a collocarsi in una struttura organica, collegata con quanto già sapevo sull’argomento, o costruendo ex novo strutture autonome, autoreggenti.
Apprendere in modo così veloce era meraviglioso. Avevo la sensazione quasi fisica dell’irrobustimento progressivo della mia mente. Mi sembrava di sentire i circuiti neuronali infittirsi e complicarsi via via che giravo le pagine. Ben presto il libro fu terminato e fui pronto per la seconda opera nella pila della matematica: Nukualonghi, Teoria dei giochi seriali su basi caotiche.
Procedevo metodicamente, dal primo all’ultimo libro della pila di quelli di matematica. Arrivato a metà della pila (avevo già “letto” otto libri) scoprii che era sufficiente premere il libro sulla fronte e tenercelo per un minuto, a occhi chiusi, per ottenere un’assimilazione completa del suo contenuto. In questo modo, in un’ora e mezza avevo già digerito tutto il centinaio di libri che si trovavano impilati sulla scrivania affrontandoli metodicamente dal primo all’ultimo. Sentivo che la mia padronanza dei concetti fondamentali si era enormemente rafforzata. Provai a ripensare alla mia intuizione di partenza, quella che mi aveva convinto di avere qualcosa da dire di importante al Congresso dove si riunivano periodicamente i maggiori matematici, fisici, leader religiosi, filosofi, e immediatamente ogni proposizione che la componeva si collegò ad altre proposizioni, queste ad altre ancora e così via.
Nella mia mente si compose un discorso complesso ma organico, unitario. Si trattava ora di riflettere su alcuni nodi, che si erano venuti a creare nel corso di questo processo, e su alcuni passaggi che risultavano troppo azzardati o lacunosi. Mi concentrai solo sui punti critici e passai una buona mezzora assorto in profonda riflessione. Provavo un piacere eccezionale nel constatare quanto la mia mente si fosse ampliata dopo aver studiato tutti quei volumi. Potevo spaziare, col pensiero, da una disciplina all’altra e repentinamente confrontare il medesimo concetto sotto tutti i punti di vista che ciascuna disciplina mi forniva.
Trovai all’improvviso un nuovo concetto che scioglieva i nodi e rinsaldava i passaggi fragili. Il modo in cui elegantemente risolveva contemporaneamente tutti i problemi del mio discorso mi convinse ulteriormente della sua adeguatezza a sostenere la tesi fondamentale che avrei proposto al Congresso.
Tornai da Robert, e gli comunicai che mi sentivo pronto.
− Bene, Alec, anche perché fra poco tocca a te parlare!
Mi accompagnò con un’aeromobile al palazzo del Congresso. Il mio ingresso nella vasta sala, gremita, fu accolto con un leggero applauso di incoraggiamento. Nessuno mi conosceva, ma ero convinto che dopo il mio discorso avrebbero riguardato il mio nome sull’elenco degli iscritti a parlare.
All’inizio mi tremava leggermente la voce, ma poi acquistai progressivamente sicurezza e alla fine con voce calma e sicura pronunciai le ultime parole: «… perché sono profondamente convinto sia necessario affermare che solo la matematica può essere considerata la vera religione, la religione adatta ai nostri tempi!».
Ci fu un attimo di completo silenzio nella sala. Sembrava che tutti aspettassero per accertarsi che avessi veramente finito. Poi iniziò un forte applauso, che invece che diminuire aumentò, e proseguì mentre la maggior parte dei presenti non solo batteva le mani ma si alzava in piedi e guardava nella mia direzione sorridendo, piangendo di commozione, scrutandomi con interesse. Sentii sciogliersi qualcosa dentro di me. Capii di aver fatto un buon lavoro, che le mie idee erano importanti al fine di raggiungere una pace stabile nella galassia, e che partendo da quel discorso avrei dovuto scrivere un libro nel quale esporre dettagliatamente, con maggiori argomentazioni, le tesi che componevano il nucleo centrale del discorso. Forse quel libro, se fossi riuscito a scriverlo in un linguaggio semplice, accessibile a tutti, avrebbe potuto segnare una svolta decisiva nel modo di pensare degli esseri intelligenti della galassia…


Improvvisamente tornai alla realtà. Era scaduto il tempo programmato. Ricordavo benissimo le sensazioni e le emozioni che avevo provato, ma non riuscivo a rammentare il discorso che avevo pronunciato. Passai cinque minuti a sforzarmi di ricordarlo (ed ero già pronto a prendere qualche appunto), ma non ci fu niente da fare, a parte l’ultima frase, il cui significato, però, non comprendevo se non superficialmente. Al confronto con la straordinaria sensazione di potenza intellettuale che avevo vissuto, ora mi sembrava che il mio pensiero si muovesse in modo estremamente lento, con fatica.
Raccontai a Robert la mia esperienza. Poi cercai di trarre qualche conclusione.
− La macchina presenta indubbi motivi di interesse: possederla significa avere sempre a portata di mano uno strumento per ottenere momenti di pura gratificazione, di pura felicità. Chi non vorrà averne in casa almeno una?
− Il problema, però, è che si tratta di esperienze illusorie. Mentre le si vive si è completamente sganciati dalla realtà.
− Sì, ma le emozioni che si provano le si vive veramente, e anche le reazioni corporee che le accompagnano, come ben ricorderai… Robert arrossì nuovamente.
− Penso, continuai, che come forma di svago sia perfetta, che sia il modo ideale di uscire dallo stress, di staccare completamente…
− Staccare dalla realtà. − incalzò nuovamente Robert, che bruscamente, alzando il tono della voce e guardandomi dritto negli occhi, mi chiese: − Cosa mi dici dell’opzione “durata illimitata”?
− In effetti è strano che l’abbiano prevista…
− Ma ti rendi conto di cosa significherebbe scegliere quell’opzione?
− Non riesco a immaginare, ti confesso, chi mai potrebbe volere una cosa del genere.
− Sarebbe − e qui Robert assunse un’espressione desolata − una cosa tristissima. − I suoi occhi vagavano nel vuoto − Vorrebbe dire perdere una persona definitivamente. Quella persona, a quel punto, vivrebbe in un suo mondo completamente separato, magari sentendosi benissimo e vivendo esperienze per lei esaltanti, ma sarebbe in una sorta di coma perenne, tagliata fuori da ogni relazione, da ogni rapporto, sia con le persone, sia con le cose.
Robert rabbrividì, e mi trasmise la sua cupezza. Cercai di reagire:
− Non potrei, allora, semplicemente suggerire di togliere quell’opzione?
− Già , ma allora basterebbe programmare una durata superiore a quella della propria vita, calcolata sulla durata media della vita umana, e il risultato sarebbe lo stesso.
− Sì, hai ragione. Si tratterebbe di porre un limite. Stabilire una durata massima oltre la quale la macchina si spegne automaticamente. Non so… quarantott’ore mi sembrerebbe un buon limite.
− Questo sarebbe già meglio, ma non potrebbe funzionare ugualmente.
− Perché? − Vuoi che in breve tempo non salterebbero fuori i furbi che trovano il modo di aggirare l’ostacolo tecnico e prolungare la durata oltre il limite prefissato? Una volta che esiste una possibilità tecnica, come ben sai, è molto difficile tenere l’uomo lontano dal realizzare tale possibilità. Sicuramente comincerebbero a proliferare macchine “sprotette” illegalmente. La gente comincerebbe a imparare come si fa, comincerebbero a circolare di contrabbando “dispositivi” per prolungare la durata a basso costo, con istruzioni per il fai da te.
Robert aveva ragione. Ormai l’esperienza storica, nel campo della tecnica, insegnava proprio questo. Mi bastò un breve ragionamento per convenire con lui.
− Allora − dissi − non ci resta che affidarci al buon senso delle persone. Se qualcuno farà un uso dissennato di questa macchina la responsabilità sarà solo sua e di chi lo aiuta. Ma questo, caro Robert, vale per qualsiasi cosa. Anche una sedia può trasformarsi in un’arma letale, se invece che usarla per sedermici la fracasso in testa a qualcuno.
Con questo il nostro discorso fu chiuso. Restavo profondamente convinto che la macchina fosse un eccellente strumento di evasione e anche, indirettamente, un modo per sondare i propri desideri e quindi conoscersi meglio.
Scrissi subito, in breve tempo, la mia relazione, che fu quindi sostanzialmente positiva. Feci presente, alla fine, il rischio di isolamento sociale e di chiusura in una dimensione autoreferenziale e improduttiva che la macchina aveva in sé, ma avanzai la tesi che un uso eccessivo della macchina sarebbe stato sintomo di un disagio preesistente: effetto, non causa.


II


Di fatto le perplessità contenute nella mia relazione, per quanto lievi, portarono la Hoekk ad iniziare la vendita, in via sperimentale, solo in alcuni pianeti delle colonie della regione galattica di Sinox, nelle quali era prevalente una popolazione umana discendente dall’Oriente terrestre.
Dopo qualche anno, per curiosità, decisi di fare un viaggio in uno di quei pianeti, Poh-kio-nu, assumendo una guida e affittando un’aeromobile a idrogeno.
Arrivato all’astroporto, che ammirai per la sua architettura sontuosa ma alleggerita dal prevalere di materiali trasparenti, venni accolto dalla guida, una ragazza dall’aria energica e sicura, che per farsi riconoscere nella folla di persone in attesa aveva il nome, Kazantha Mahoi, scritto in lettere luminose fluttuanti nell’aria sopra la sua testa.
Era molto gentile. Mi accompagnò all’aeromobile, già pronta e parcheggiata in un’area sopraelevata dell’astroporto. Durante il viaggio verso la città più grande e vitale, nella quale avevo deciso di risiedere, cominciai subito la mia indagine.
− Come vanno le cose, qui su Poh-kio-nu?
− Cosa vuole, signore… da quando è iniziata la mania della Espix… la nostra economia ha rischiato il crollo. Ora ci siamo un po’ ripresi, ma è stata dura.
− Espix? − feci finta di non sapere nulla.
− Ma come, non la conosce? È quella macchina bianca che ti strippa… mi perdoni… che ti fa viaggiare nella tua mente.
− Non capisco…
− È un vero sballo. La deve provare. Il problema è che poi fai fatica a tornare alla vita reale. Ti viene voglia di starci attaccato il più possibile.
− Già, immagino…
− Comunque se vuole provarla senza comprarne una, anche perché costano parecchio, può andare in un Esp-coffee; ce ne sono parecchi nella zona centrale della città. Sono dei locali pubblici dove ci si può collegare alla Espix per durate predeterminate. Così non corre neanche il rischio di cadere subito nella prima assuefazione.
− Prima assuefazione?
− Beh, all’inizio, se la compri, te ne innamori subito, tendi a vederla in modo molto positivo e programmi subito tempi troppo lunghi, che magari interferiscono con la tua vita professionale o sentimentale… Ricordo certe litigate col mio ragazzo!... Lì invece sei costretto a stare in tempi limitati, e non ti consentono di collegarti per più di tre volte al giorno per una durata massima di un’ora per volta.
− Sta parlando in durate standard, terrestri?
− Sì, tenga conto che qui una giornata dura trentacinque ore terrestri.
− E se cambi locale?
− Se ne accorgono perché si accede tramite un pass che devi presentare all’ingresso.
− E costa caro il pass?
− Caro? Ma no! È gratis! Il governo ha deciso questo per disincentivare gli acquisti delle Espix. Oggi la pubblicità è vietata, e hanno alzato ancora il costo. Sa, hanno dovuto farlo… soprattutto per evitare che le comprassero i giovani.
− Beh, ma se un ragazzo ne ha una in casa, che hanno comprato i suoi, non può usare quella?
− Dopo la prima ondata di vendite hanno deciso di rendere i modelli successivi utilizzabili esclusivamente dall’acquirente, che all’atto dell’acquisto registra il proprio DNA sulla piastrina di avvio, in modo che la macchina funziona solo con lui, e hanno venduto i dispositivi per rendere anche le Espix già vendute crittabili con il proprio codice genetico.
− Vedo che lei è molto informata sull’argomento, come mai?
− Ci credo! Per mesi e mesi non si è parlato d’altro su tutti i mezzi d’informazione. Alcuni storici parlano già di un’era pre-Espix e di un’era Espix…

Nel frattempo eravamo arrivati a destinazione. Planammo dolcemente sulla terrazza di atterraggio dell’albergo che avevo prenotato. Diedi un’occhiata alla città dall’alto, e ammirai la struttura razionale delle strade pedonali: un modulo a stella che si ripeteva regolarmente, con al centro una struttura circolare, a ragnatela. Aree verdi al centro di ogni modulo. Subito sopra le abitazioni iniziava l’intrico di canali virtuali per le aeromobili. L’albergo era tutto gestito da alieni batush. Parlavano alla perfezione la lingua umana universale. L’unica cosa un po’ buffa era vederli indossare le divise standard del servizio alberghiero, perché si capiva benissimo che la loro pelle a scaglie acuminate si adattava male ai tessuti fascianti. Il direttore mi accolse con un largo sorriso che scoprì le sue ottantaquattro zannine. Era estremamente affabile ed efficiente. Facevo un po’ fatica a decidere quale occhio guardare nella sua faccia trapezoidale. Mi accompagnò alla mia camera spiegandomi intanto gli orari e gli usi dell’albergo. Ero arrivato giusto in tempo per una cena leggera, che veniva servita secondo un menù fisso, di genere interplanetario. Lasciai il mio bagaglio leggero in camera e mi accordai con Kazantha che ci saremmo rivisti l’indomani. Per la serata avevo in mente di muovermi liberamente, scoprendo la città per conto mio. Mentre aspettavo la cena, seduto nel grande salone arredato con colori vivaci, chiamai Renate e Robert, per rassicurarli del mio arrivo a Poh-kio-nu.
Mangiai volentieri il classico piatto di ghiande azzurre lessate con contorno di plancton gigante fritto. Il dessert prevedeva invece un sorbetto di more con una gelatina arancione di cui non riuscii a riconoscere il sapore. Il cameriere mi spiegò che si trattava di un frutto che cresceva solo so Poh-kio-nu.
− Deliziosa. Può portarmene un’altra porzione?
− Ma certo, signore. Mi resi conto che tutta quella gentilezza derivava probabilmente dal sapere che fossi un terrestre, e quindi dal prevedere mance generose. Cercai di non deludere il personale dell’albergo, e mi tenni su mance del quarantacinque per cento. Ben rifocillato, uscii dall’albergo e camminando cominciai a riflettere sulle notizie che mi aveva dato Kazantha.
Era emerso che l’introduzione della Espix nel mercato di Poh-kio-nu aveva provocato uno sbandamento, ma che erano già in fase di ripresa. Ciò sembrava corrispondere a quanto l’uso della Espix provocava nella vita di un individuo. Del resto bisognava tenere conto che occorreva anche attendere il consolidarsi di una cultura sull’uso della Espix. Ma la domanda più urgente, sulla quale volevo ottenere al più presto una risposta era se ci fosse qualcuno che avesse scelto l’opzione “durata illimitata”.
Decisi di recarmi in un Esp-coffee per vedere di carpire qualche informazione in proposito. Seguendo le indicazioni luminose mi indirizzai verso il centro della città, e dopo poco cominciai a vedere qualche insegna di Esp-coffee. Entrai nel primo che avesse un’aria abbastanza decorosa.
Notai subito un’atmosfera tranquilla ma molto affollata. Quasi tutti erano giovani, umani e alieni, sia in coda all’ingresso, sia, nel grande salone che si intravedeva oltre un’apertura ad arco trilobato, sdraiati su tavolinetti bassi, con le gambe piegate, mani e piedi infilati agli angoli, dove erano fissate le quattro tavolette della Espix. Un chiacchiericcio sottovoce, qualche risatina, ma l’attesa nell’atrio era sostanzialmente ordinata. Un impiegato pubblico alieno controllava i pass e un altro prelevava le calzature, che venivano poste in un’ampia scaffalatura, e consegnava le contromarche.
Sulla destra, dietro un bancone, due baristi robot servivano bevande e spuntini. Mi rivolsi ad uno di questi, cercando di scandire le mie parole nel modo più chiaro possibile.
− Salve. Sono un turista. Vengo dal pianeta Terra. Se non si dispone del pass è possibile accedere nel salone delle Espix?
Vidi il diaframma del suo occhio aprirsi e fui colpito da un breve flash. Evidentemente era programmato per fotografare ogni nuovo cliente. Poi mi rispose con una voce ricostruita:
− Esistono pass turistici. Deve recarsi nei punti informazioni e mostrare la sua piastrina d’identificazione. Le verrà rilasciato un pass valido per il periodo della sua permanenza su Poh-kio-nu.
Il suo volto d’acciaio era lucidissimo. Seguendo l’istinto gli porsi a bruciapelo la domanda che più mi stava a cuore.
− Esistono utenti della Espix che scelgono l’opzione “durata illimitata”?

Restò immobile per qualche secondo. Iniziò ad emettere un ronzio leggero ma continuo, sul quale si modulavano crepitii a intervalli irregolari. Dopo circa quindici secondi di quella scena cominciai a pensare di averlo messo in seria difficoltà, ma alla fine rispose.
− Esiste una clinica dove si pratica il suicidio assistito, secondo la recente normativa L688 7354 6576 5454 comma 3/b. Indirizzo della clinica: Ottavo Corso del settore 21, al numero 305. Per ulteriori informazioni consultare la pagina
w.78854442343433333232234543454332222323211111112323244677889666554454.

Da una fessura che aveva all’altezza del petto, sulla destra, uscì un cartoncino dove erano stampate quelle informazioni. Lo presi e me lo infilai nel taschino della tuta.

L’indomani chiesi a Kazantha di combinarmi un appuntamento con uno dei dottori di quella clinica.
Mi guardò spaventata.
− Ma signore! Non penserà sul serio di…
− No, cara. La mia è curiosità professionale.
Non avevo voglia di darle ulteriori spiegazioni. Lei, rispettando il mio riserbo, non mi fece ulteriori domande. Mentre facevo colazione lei, efficientissima, aveva già fissato l’appuntamento per il pomeriggio.
Passai la mattinata a fare acquisti nei migliori negozi, che Kazantha mi portò a visitare. Il fatto che comprassi diversi oggetti sembrò rassicurarla.

Quando mi trovai di fronte al dottor Fukumaton-Ashanti Jokomori capii subito che da quell’uomo avrei avuto risposte ad ogni mia curiosità sulla Espix. Aveva un’aspetto estremamente colto e raffinato. Il suo studio era arredato in maniera semplice e trasmetteva calore, protezione.
− Lei è il signor Alec ….. …..?
− Sì. Sono io.
− Bene. Si accomodi e mi dica qual è il suo problema.
− Dunque. Chiarisco subito che non sono qui per un suicidio assistito.
Il dottore continuò a guardarmi con attenzione, ma non disse nulla.
− Sono qui perché, sulla Terra, ho compiuto il test finale sulla Espix e ho dato parere positivo sulla sua vendita. La cosa che mi aveva lasciato più perplesso era l’opzione “durata illimitata”. Pensavo non l’avrebbe scelta nessuno, ed ora vengo a sapere che esiste una clinica come questa, dove si pratica il suicidio assistito.
− Capisco la sua preoccupazione, ma deve rassicurarsi. Da quando esiste la Espix, la legislazione in materia di suicidio è stata modificata. La Espix è stata ritenuta l’unico mezzo attraverso il quale lo stato potesse fornire assistenza, in assenza di malattie inguaribili e completamente invalidanti, ad una forma di suicidio di fatto, senza assumersi la responsabilità di provocare la morte biologica. L’opzione “durata illimitata”, infatti, costituisce una forma di vita completamente equivalente, dal punto di vista oggettivo, alla morte. La persona scompare da qualsiasi forma di relazione, non è più in contatto con la realtà. È vero che la persona continua ad avere esperienze soggettive, ma non potendole poi comunicare a nessuno, è come se queste esperienze non esistessero. Ma sa quanti casi abbiamo avuto, da quando esiste questa possibilità?
− No, appunto, e mi interessa saperlo. Mi dica.
− Uno.
− E perché volle suicid… scegliere l’opzione “durata illimitata”?
− Una delusione amorosa. Un uomo scoprì, dopo quarant’anni di rapporto di coppia, che da trent’anni la sua compagna lo tradiva regolarmente.
− Un caso su… Quante persone hanno finora potuto utilizzare liberamente la Espix?
− Credo la cifra si aggiri intorno ai trecento miliardi.
Già queste notizie mi sollevarono il morale, ma c’era un’altra questione che volevo chiarire.
− Ho sentito dire, però, − dissi − che la Espix genera un bisogno che può degenerare in dipendenza…
Il dottore prese un fascicolo, che cominciò a sfogliare tranquillamente. Poi si rivolse a me:
− Anche su questo esistono statistiche precise. È stato provato che la durata massima che viene programmata, anche nei casi più gravi di attaccamento alla macchina, è comunque inferiore alla metà del tempo che al soggetto rimane da vivere, calcolato sulla speranza media di vita. In pratica, nessuno è interessato a passare più della metà del tempo che gli rimane da vivere attaccato alla Espix, sempre ammesso che riesca ad organizzare un’assistenza esterna che gli fornisca alimentazione e provveda ai suoi bisogni fisiologici per tutto il periodo.
− Ma di casi di questo tipo quanti ne avete registrati?
− Una percentuale dello 0,0000002 circa.
− E una volta tornati alla vita?
− Questi casi estremi, che passano magari vent’anni terrestri attaccati alla Espix, assistiti dai loro cari, una volta tornati alla vita si pentono di aver buttato via tutto quel tempo e hanno crisi di rigetto verso la loro Espix, che generalmente viene distrutta o restituita alla casa produttrice.
− Ma allora qual è l’uso che viene fatto della Espix, in definitiva?
Il dottore tirò un lungo sospiro.
− Oggi come oggi acquistarne una è possibile solo, di fatto, per gli adulti. Per i ragazzi ci sono gli Esp-coffee…
− Sì, ne ho visto uno ieri.
− Se si può disporre di una Espix personale, l’impatto iniziale è di difficile gestione, ma dopo qualche tempo l’uso si stabilizza. In generale posso dirle che oggi ci avviamo verso un inserimento della Espix nella normale vita quotidiana senza che questo generi problemi. Certo, resta al primo posto fra le forme di svago praticate su Poh-kio-nu, e ha fatto calare l’interesse per la fruizione delle opere d’arte e per la conoscenza scientifica. Uno studio recente testimonia però significativi segnali di ripresa d’interesse, sia per l’arte che per la scienza. Personalmente, se posso azzardare una previsione, ritengo che alla fine la Espix terrà un suo posto accanto alle altre forme classiche di gioco, ma niente di più: non credo che si possa mai fare a meno di sapere ciò che accade nella realtà e nelle menti degli altri, mentre l’esplorazione della propria mente, alla lunga, risulterà noioso. La produzione, lo scambio e la fruizione di cultura resteranno qualcosa di insostituibile e di molto più ricco e stimolante che non il viaggiare nei propri desideri. Conoscere i desideri degli altri è enormemente più vario e stimolante, così come lo è comunicare, esprimere i propri desideri e, soprattutto, cercare di realizzarli.
Ringraziai Fukumaton-Ashanti Jokomori. Mi chiese notizie della Terra, aggiungendo che al riguardo l’informazione interplanetaria ufficiale era a suo parere scarsa e superficiale (volutamente?, mi verrebbe da aggiungere). Cercai di soddisfare ogni sua curiosità, anche per ricambiare la grande apertura con la quale mi aveva riferito le notizie sull’uso della Espix, e la saggezza con la quale le aveva commentate.
Fuori, ad aspettarmi, c’era Kazantha, che quando mi vide mi accolse festosamente, e mi portò a visitare un’incredibile monumento del più grande artista vivente di Poh-kio-nu. Descriverlo mi è quasi impossibile. Posso solo dire che si trattava di un aggrovigliato, nero, lucente, speziato labirinto a otto dimensioni, entrando nel quale si perdeva letteralmente il senso della propria collocazione spaziale. All’uscita ritrovare l’alto, il basso, la destra, la sinistra, il vicino, il lontano, il davanti e il dietro faceva un effetto di grande pace e di grande stabilità.
Un effetto analogo lo provai quando rimisi piede sul suolo terrestre, al termine del mio breve viaggio su Poh-kio-nu.

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