10 luglio 2014

La vera «questione controversa»: la metafisica. Riflessioni sull'ultimo libro di Franca D'Agostini




La vera questione non è se la realtà esista o no, né se sia modificabile da noi solo in parte o totalmente (come sembrerebbero pensare i sostenitori del "Nuovo Realismo"). La vera questione è: com'è fatta la realtà? È ordinata? Ha senso? Ha valore in sé? È solo la scienza che può rispondere a queste domande o anche la filosofia, accanto e insieme alla scienza, ha voce in capitolo? Dalla visione scientifica della realtà cosa emerge? Emerge un senso, un valore delle cose? La visione scientifica della realtà è unitaria o no? È compito della filosofia collegare le varie parti della scienza o è la scienza stessa a doverlo fare?

Questa tesi (le domande le ho riformulate e sviluppate a modo mio) si può trovare nell'ultimo libro di Franca D'Agostini: Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri, Torino 2013), una tesi molto tagliente sul versante della stroncatura del "Nuovo Realismo" marcato Ferraris («chi si professa realista in quanto contrapposto agli antirealisti non sta professando nulla, e non sta dicendo niente di rilevante»), ma molto aperta e per nulla conclusiva sul versante della proposta teorica. Si tratta infatti, direi, dell'impostazione di un "programma di ricerca", sulla base sia di una ridefinizione radicale del "realismo" sia dell'individuazione di alcune prospettive logico-metafisiche contemporanee particolarmente feconde (Armstrong, Lewis, Priest).

Ricostruisco una parte del discorso. 
Nell'Introduzione D'Agostini, per fare luce sulla falsa questione del realismo, esamina le posizioni di coloro a cui viene erroneamente attribuito l'"antirealismo" e in particolare esamina la convinzione che i concetti di verità e realtà «siano concetti dogmatici, caratteristici di strutture d'autorità, come la Chiesa o la Scienza» e rileva alla base di questa convinzione due ragioni:
1) «vediamo la realtà solo filtrata attraverso l'esperienza che ne abbiamo, dunque ciò con cui abbiamo a che fare non è propriamente la realtà "in sé"»
2) nelle discussioni fare appello alla realtà o alla verità può essere un modo autoritario per troncare ogni argomento.
«Le due ragioni sono evidentemente connesse, e abbiamo così la conclusione: non ho accesso alla realtà, dunque se dico "le cose stanno così" sono un pericoloso dogmatico, oppure (che è lo stesso) mi fido ciecamente della Scienza, o di altre autorità istituite.» Le due ragioni vengono entrambe smontate:
1) «è vero che vediamo la realtà filtrata dall'esperienza, ma quel che vediamo è comunque la realtà» (su questo punto rimando, in questo blog, alla mia sintesi di Introduzione alla verità, dove si evidenzia il ruolo che una corretta interpretazione della filosofia di Kant svolge nel pensiero di D'Agostini: l'in sé non è inaccessibile)
2) «Le funzioni concettuali associate alle parole verità e realtà sono funzioni inferenziali e discussive, che non hanno di per sé stesse né colpe né meriti: servono per ragionare e argomentare, e possono essere usate bene o male.»
Queste sono quindi le risposte che andavano (vanno) date a chi proponeva (propone) un attacco ai concetti di verità e realtà (per esempio Vattimo): non la tesi "la realtà esiste" (magari dimostrata con argomenti complessi come l'Argomento della Ciabatta... si veda M. Ferraris, Inemendabilità, ontologia, realtà sociale).
Il problema non è difendere la realtà, dice D'Agostini, «ma piuttosto difendere la possibilità della metafisica: ossia la possibilità di parlare della realtà in termini non vincolati alle sole scienze empiriche o ad altri settori scientifici determinati» (si badi: "non vincolati alle sole scienze" significa che comunque delle scienze si deve tenere conto! Ferraris, invece, con la sua "ipotesi della mesoscopia", mette sostanzialmente fuori gioco, ritenendole irrilevanti dal punto di vista metafisico, le scienze – la fisica in primo luogo –. Scrive infatti, nel saggio sopra indicato: «Il mondo è pieno di cose di taglia media, né troppo grandi, né troppo piccole [...] le cose che si presentano come fenomeni sono definite per l’appunto da una taglia mesoscopica: non ci sono fenomeni troppo grandi o troppo piccoli. Questo lo aveva riconosciuto bene proprio Kant, che sottolineava che il colossale, ciò che è troppo grande per la rappresentazione, esorbita dalla sfera del fenomenico e riguarda piuttosto l’ambito del sublime. Nella stessa linea di considerazioni, Kant aveva anche osservato che il mondo, come totalità di tutto ciò che c’è, non è un fenomeno, bensì una idea della ragione, insieme all’anima e a Dio. [...] L’uso combinato di una ecologia e di una fenomenologia realistica definisce la sfera della ontologia, e permette una vistosa differenziazione rispetto alla epistemologia. Il problema fisico è grande o piccolo, quello ontologico è medio. L’ontologia ci interessa se ci sta a cuore un mondo mesoscopico, per il microscopico e il macroscopico va benissimo la fisica, anzi, sarebbe assurdo voler ricorrere a qualche altro tipo di approccio. Ma è del tutto ovvio che un mondo mesoscopico ci interessa non meno di quello fisico, altrimenti non potremmo dire la maggior parte delle cose che diciamo, non potremmo avere i valori che abbiamo ecc.» Quello che risulta incomprensibile, se si assumono le ipotesi di Ferraris, è il fatto che le conoscenze scientifiche abbiano avuto un impatto così forte sulle strutture valoriali che hanno sorretto l'umanità dall'antichità al XVIII secolo; perché la teoria eliocentrica, pur riguardando cose fuori dalla taglia media, dava così fastidio alla Chiesa? Se Dio esista o no è, dal punto di vista di Ferraris, un problema ontologico o fisico?).

Questa necessità di tornare alla "questione della metafisica" ha sullo sfondo, secondo me, anche una emergente conflittualità fra credenti e non credenti. Penso alle discussioni anche aspre cui possiamo assistere, ad esempio fra Telmo Pievani e Paolo Flores D'Arcais da una parte e Vito Mancuso dall'altra. Oppure penso a quelle che Ronald Dworkin, nel suo ultimo libro Religione senza Dio (Il Mulino, Bologna 2014) chiama "nuove guerre di religione" (per esempio la questione se «i simboli di appartenenza religiosa possano essere indossati nelle scuole pubbliche, negli uffici e negli edifici governativi e negli spazi pubblici»; i tentativi della destra religiosa americana di far insegnare nelle scuole il creazionismo prima e il disegno intelligente poi in alternativa alla teoria dell'evoluzione, le battaglie intorno alla legittimità del matrimonio omosessuale...). 
La scienza continua a produrre nuove conoscenze sulla realtà rinforzando una visione (per quanto non unitaria) nella quale secondo me non c'è più modo né necessità di pensare a Dio come viene descritto nei monoteismi tradizionali (e infatti ritengo che le forme attuali di credenza religiosa delle persone colte - e in parte anche delle persone mediamente scolarizzate - intendano Dio in modo diverso da questi) ma ancora non riesce a costruire un'alternativa alle religioni tradizionali in termini di orientamento e sostegno dell'individuo attraverso la valorizzazione dell'esistente e la progettualità. È necessario quindi che la filosofia riprenda in mano il suo compito principale, la sua vocazione metafisica, e lo faccia però in stretto rapporto con i saperi scientifici (altrimenti saranno gli scienziati stessi a doversi incaricare di fare anche filosofia, come in parte stanno già facendo... penso  a Barrow, Pensrose, Hawking, Odifreddi, Boncinelli e via dicendo – e non c'è niente di male, anzi, ma i filosofi hanno competenze speciali in metafisica, ontologia, etica, logica, che vanno applicate e possono produrre risultati decisivi). Nel fare questo, inoltre, dovrà anche, secondo me, indicare la strada verso nuove forme di religiosità (intesa come atteggiamento, non come teoria) che siano in grado di superare il tradizionale ancoraggio alla nozione di un Dio persona e creatore, e potrà anche ritrovare il nesso con la dimensione pubblica e politica, alla quale è legata fin dalle sue origini nella Grecia antica.



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