Ospito nel mio blog un racconto recentissimamente scritto da mia mamma, Gabriella Sacchetti.
Ispirato dal titolo di un libro (in realtà una tetralogia: Le cronache dell'acero e del ciliegio) che Sara (sua nipote/mia figlia) le aveva chiesto di regalarle, il racconto è stato concepito e scritto come rivolto a Sara.
L’acero e il ciliegio
I due alberi erano molto vicini in un giardino un po’ disordinato, con molte erbacce. Le loro radici si toccavano, ed erano molto amici. Anche se nessuno se lo immaginava, loro ascoltavano quello che succedeva intorno, le persone, i loro gesti ed i discorsi. Il ciliegio raccontava all’acero “ti ricordi quella bellissima ragazza con i capelli castani dai riflessi biondi, che coglieva le mie ciliegie con un leggero sorriso. Era sola, ma non si era accorta che un giovane dal giardino accanto la stava osservando e se ne stava innamorando. Lui aveva una testa ricciuta di folti capelli nerissimi. Sempre più spesso andava sul vialetto del villino accanto con la scusa di salutare sua zia, ma in realtà si metteva lì nel vialetto non tanto per ammirare il giardino di sua zia così ben tenuto tutto ordinato con alberi esotici dai fiori profumatissimi come il calicantus e l’olea fragrans; guardava e riguardava quella ragazza bella. Io albero capivo i suoi pensieri dal suo atteggiamento. Lui pensava che non era come le altre, perché aveva quel sorriso misterioso pur essendo sola.
Un giorno decise di rivolgerle la parola, Lei sembrava contenta perché il suo sorriso si allargò molto e diventò ancora più bella, come abbandonandosi del tutto alla simpatia per questo giovane sconosciuto. Lui rimase colpito e forse confrontava questo viso luminoso con quello di tante altre che, per sembrare più affascinanti, gonfiavano le labbra in una specie di broncio. Le sue labbra erano ben disegnate, ma non gonfie, i suoi occhi azzurrissimi partecipavano a questo moto di simpatia verso di lui.
Insomma era la prima volta che io ciliegio vedevo un colpo di fulmine”.
L’acero, che aveva ascoltato il ciliegio con interesse, ora aveva voglia di comunicare qualcosa delle sue impressioni. Così cominciò: “ti ricordi che quando tu avevi già perso le tue rossissime ciliegie, arrivò l’autunno, e poi cominciò l’inverno. Ormai la ragazza bionda ed il giovane dalla nera testa ricciuta erano molto innamorati e spesso venivano a scambiarsi carezze e baci sotto la mia chioma. A loro piacevano molto le mie foglie color rame e notavano che il sotto delle foglie era di colore molto diverso, contrastante, quasi un verde chiaro difficile da definire, perché non era proprio verde; il bello era la brillantezza; la stessa foglia era diversa vista da sopra e vista da sotto. Col vento, muovendosi, questi due colori si mischiavano e l’effetto era straordinario.
I due giovani trascorrevano molti momenti ad osservarmi ed ammirarmi, anche se ho le bacche e non frutti che si possono mangiare. Passarono anni, e bimbi in carrozzina guardavano intensamente i movimenti delle mie foglie, come incantati, e chissà cosa pensavano, muovendo vivacemente manine e piedini. Più tardi alcuni bambini quasi litigavano per dare un nome al colore delle mia chioma variata.
– Sono color rame e verde!
– No, rosso e rosa
– No, arancione e rosso prugna!”
A questo punto il ciliegio interruppe per dire che quasi sicuramente si trattava dei bambini dei due innamorati. E continuò: “nel giardino accanto, a quello coi vialetti, c’era un ragazzetto coi pantaloni corti, che veniva spessissimo frustato dalla madre con una cinghia. So il suo nome, Renzo, perché la madre picchiandolo urlava: ‘Renzo, va a fare quello che devi fare!’. Il povero Renzo per trovare un po’ di pace, andava spesso in chiesa, dove c’era penombra e sussurri, e nessuno che urlava. Gli piacevano soprattutto i funerali di lusso, dove si sedeva fra i parenti eleganti e silenziosi. Questo lo aveva raccontato parlando piano alla vecchia padrona di casa che per lui era come una zia buona. Quando doveva fare i compiti, la madre mandava la sorellina a controllare se Renzo studiava, ma la bambina tornava dicendo: ‘Sta giocando con un chiodo’. Allora altre frustate e urli. Questa specie di zia buona spiegava al ragazzo che sua madre non era cattiva, ma siccome anche lei aveva subito frustate dai suoi genitori, nel paesino del Lazio da cui proveniva, pensava che si devono picchiare i figli per farli crescere bene”.
Il ciliegio ancora raccontò che quando le sue ciliegie erano ancora verdi, una ragazza ne aveva colta una, l’aveva aperta e ci aveva trovato un vermetto dello stesso colore verdognolo della ciliegia acerba. Aveva fatto un urletto, e allora un signore, nuovo abitante della casa con i vialetti, le aveva detto: “è la ciliegia stessa che fa il verme”. Evidentemente non sapeva che in natura nulla si crea e nulla si distrugge.
“Quando le mie ciliegie diventarono rosse, venivano tre ragazze a coglierle. Avevano 17 anni ed erano compagne di liceo. Parlavano molto della scuola, delle interrogazioni, ma soprattutto d’amore. Una era innamorata da due anni di un ragazzo più grande, che non la corrispondeva, e lei raccontava che parlava sempre con lui anche se lui non era lì. Diceva: ‘Sono sempre con lui’. Un’altra la criticava: ‘anche l’amore marcisce, smettila!’. La terza ragazza raccontava che le piaceva molto un ragazzo brutto, conosciuto in montagna. Le altre la prendevano in giro: ma come mai ti piace? E lei: mi piace perché è spiritoso, una volta mi ha detto guardando delle grandi ombre di una valle: ‘Ah, le ombre… un’altra volta mi ha detto: la musica mi dà delle sensazioni di gioia, e mentre diceva così, la sua testa ruotava, e tutto il suo corpo si muoveva ondeggiando’.
Le altre due rimanevano freddine a questa descrizione, però sempre amiche. Continuavano a chiacchierare e a mangiare le mie ciliegie”.
“Così noi alberi ascoltiamo le persone, simpatizziamo e ci commuoviamo. Ma le persone non lo sanno.”
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