8 giugno 2015

"Analitici e continentali: un progetto fallito?" articolo di Franca D'Agostini su "Bollettino filosofico" XXIX (2014)



Abstract (dell'autrice):
La tesi che ho cercato di sviluppare in Analitici e continentali (1997) e in molti scritti successivi, è che la diversificazione delle due tradizioni A (analitica) e C (continentale) è la ricaduta pratica e istituzionale dell’assenza di una chiara consapevolezza collettiva circa che cosa sia la filosofia, quali siano i suoi compiti e metodi, e in che cosa si differenzi da altre scienze o attività intellettuali. Tale assenza potrebbe non essere di per sé problematica, se non fosse che la filosofia, almeno a partire dall’idealismo tedesco, è diventata una disciplina accademica, e attraverso un processo iniziato nel secondo Ottocento e giunto a compimento all’incirca nella seconda metà del secolo successivo, ha acquisito l’assetto istituzionale di una collezione di discipline specializzate, che dovrebbero operare in modo simile a tutte le altre scienze e discipline.
Quando una forma di sapere si struttura come una scienza senza avere (o senza voler avere) una chiara e uniforme coscienza di sé, si generano due conseguenze. La prima è che, come osservava già Aristotele, si diffonde e trionfa la “falsa scienza”, ovvero la “simulazione di sapienza” prolifica in modo incontrollato. Si produce allora una grande quantità di filosofia nominale, che tende a sopraffare e annientare gli scarsi residui di filosofia sostanziale. La seconda è che si determinano controversie intellettuali, culturali e metodologiche, che a lungo andare diventano facilmente manipolabili, e vengono utilizzate per le più basse e ignobili manovre di potere.
È quanto è accaduto alla distinzione A-C. Il testo ricostruisce brevemente questa vicenda e mostra come la storia recente della diversificazione abbia portato a una specie di disastro intellettuale e morale, che interessa tutta la filosofia, e ha forme particolarmente problematiche nella filosofia A (o presunta tale).

13 maggio 2015

Per una metafisica sistematica (nuova versione)

I problemi dell'idea di mondo in Kant
come programma di ricerca metafisico 






“Come è fatta la realtà?”
Che cosa è richiesto, in questa domanda? Certamente la domanda si scompone in una serie di altre domande particolari. Ma nella tradizione della metafisica, da Aristotele a Kant, questa domanda investe la realtà nel suo insieme.
Perché “da Aristotele a Kant”? Forse sarebbe meglio precisare dicendo: “da Aristotele a prima della grande esplosione e specializzazione delle scienze nel XIX secolo”. Nel senso: quando ancora un singolo pensatore poteva sperare di padroneggiare i diversi campi del sapere e comprendere il senso del tutto (ma già con Leibniz si comincia ad avere consapevolezza della difficoltà di padroneggiare la quantità crescente di conoscenze scientifiche).

Kant, nella “Dialettica trascendentale”, parla di un bisogno della ragione pura: «il principio proprio della ragione in generale (nell’uso logico) è di trovare per le conoscenze condizionate dell’intelletto quell’incondizionato con cui venga compiuta l’unità della conoscenza stessa» (Critica della ragione pura, A307/B364). Questo bisogno metafisico corrisponde alla vocazione alla sistematicità propria della filosofia: la filosofia, fin dalle sue origini, aspira a pensare “in grande”, vuole capire come stiano le cose nell’insieme, nella totalità, e vuole anche capire quale sia il ruolo della vita in generale, e dell’essere umano in particolare, all’interno della totalità.

6 marzo 2015

L'infinito non è di questo mondo.






a Franca D’Agostini


«Porre un limite all'infinito è un tema ricorrente nella fisica moderna. [...] molto spesso, ciò che appare infinito non è altro che qualcosa che non abbiamo ancora capito o contato. [...] "Infinito", in fondo, è solo il nome che diamo a ciò che ancora non conosciamo. La Natura sembra dirci, quando la studiamo, che non c'è nulla, alla fine, di davvero infinito. [...] L'unica cosa davvero infinita è la nostra ignoranza.»
C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, Milano 2014




1. Il paradosso della Biblioteca di Babele
La biblioteca di Babele è un famoso e straordinario racconto di Jorge Luis Borges. Vi si narra di una biblioteca talmente vasta da costituire un universo. La biblioteca risulta essere composta da un numero sterminato di volumi, talmente alto da sembrare infinito, ma tale numero non è infinito, in quanto si tratta di tutte le possibili combinazioni di 25 caratteri (22 lettere, la virgola, il punto e lo spazio) in volumi costituiti da 410 pagine, ciascuna con 40 righe e 40 caratteri per riga (quale sia effettivamente tale numero è stato calcolato da Achille Varzi nello scritto Il libraio, lo scrittore e la    biblioteca di Babele). Alla fine del racconto il narratore ipotizza che la biblioteca sia infinita, ma semplicemente nel senso che la sterminata serie di volumi potrebbe ripetersi ciclicamente infinite volte.
Tale biblioteca contiene "tutto ciò che è dato esprimere, in tutte le lingue”. Togliamo la questione degli innumerevoli e preponderanti volumi privi di senso, con accozzaglie mostruose di lettere, togliamo per ipotesi anche i volumi ibridi, con frammenti di senso che navigano in mari di "insensate cacofonie" (temi su cui peraltro è imperniato gran parte dello sviluppo narrativo). Consideriamo solo i volumi sensati. Ci troviamo comunque di fronte a un'idea paradossale: la quantità di cose esprimibili non è infinita!
Ciò significa, ad esempio, che le opere d'arte che è possibile scrivere sono un numero finito, quindi che alla lunga la letteratura sarà destinata a finire, a meno di non doversi ripetere, ma anche che le teorie scientifiche possibili non sono infinite, quindi a un certo punto la ricerca avrà un termine perché avremo scoperto tutto quello che c'era da scoprire.
E la storia? Sembrerebbe che finché la storia va avanti, i libri che la raccontano debbano essere sempre diversi, ma allora? Dobbiamo concludere che siccome la quantità di cose che possiamo esprimere è finita allora anche la storia debba interrompersi? Qui arriviamo al vero paradosso: ipotizziamo di prendere solo i libri di storia della biblioteca di Babele. Sono tantissimi, ma un numero finito. Ipotizziamo che ogni volume racconti la storia di un secolo, e che la storia non si ripeta mai ma sia sempre diversa. Si può argomentare così: per quanto grande, il numero dei volumi di storia della biblioteca di Babele sarà n, corrispondente a n secoli. Ma la storia potrebbe durare n+1 secolo. Il volume che descrive quel secolo n+1 non è contenuto nella biblioteca. Chiediamoci però: il volume che descrive il secolo n+1 non è comunque composto di caratteri come gli altri? Se la biblioteca contiene tutte le combinazioni possibili dei caratteri non dovrebbe contenere anche quel volume?
In altri termini, il paradosso consiste nella contraddizione tra l’idea che la quantità di cose esprimibili sia finita e l’idea che il tempo, inteso come la storia dell’universo, sia infinito.
Il contrasto di fondo, che produce il paradosso, risiede nella finitezza della Biblioteca rispetto alla presumibile infinità di cose/eventi che possono essere descritti, espressi, narrati, teorizzati



2. Conseguenze cosmologiche del paradosso
Sostengo che riguardo alla storia dell'universo siano possibili solo due ipotesi:
1) che abbia avuto un inizio e che avrà una fine,
2) che si ripeta ciclicamente.
Per un ragionamento che abbozzo più avanti, ritengo molto più probabile la prima delle due ipotesi.
E' da escludersi, invece, secondo un ragionamento che parte dal paradosso della Biblioteca di Babele, che:
3) abbia avuto un inizio e che possa svolgersi in futuro in modo sempre diverso all'infinito,
4) che non abbia avuto un inizio e che si estenda all'infinito nelle due direzioni (all'indietro e in avanti) in modo costantemente variante.
L'argomento parte dall’idea che la quantità di cose esprimibili non sia infinita. Non sono infinite, quindi, le descrizioni vere che corrispondono agli eventi della storia dell'universo. Facciamo l'ipotesi che per ogni galassia esistano 24000 miliardi di volumi che ne descrivano in modo veritiero l'evoluzione, la storia, entrando nel dettaglio delle stelle e dei pianeti più significativi (nel caso in cui su uno o più pianeti si sia sviluppata la vita ammettiamo pure che vi sia un supplemento di 36000 miliardi di volumi per ciascun pianeta, nei quali vengono descritte le varie specie e la loro evoluzione, la storia delle loro civiltà e così via). Per quanto sia enormemente grande il numero di questi volumi, sarà sempre un numero finito n (Certo, a meno che il numero delle galassie non sia infinito. Ciò aprirebbe un ulteriore paradosso rispetto alla finitezza delle cose esprimibili…). Rispetto all'idea che la storia di ogni galassia possa essere più lunga rispetto a quanto narrato in quei 24000 miliardi di volumi vale il paradosso che abbiamo già esposto: ammettiamo che vada oltre, non sarà comunque descrivibile? Se è descrivibile rientrerà nel numero finito delle cose esprimibili. Quindi forse saranno necessari più volumi, ma non potranno mai essere infiniti volumi. Dal paradosso si esce quindi solo con due ipotesi: o la storia dell'universo è finita, o si ripete ciclicamente uguale (se fosse ciclica ma ogni volta diversa non sarebbe in realtà ciclica). Questa seconda ipotesi, però, appare altamente improbabile: lo studio dei fenomeni naturali mostra come la contingenza sia sovrana, quando si parla di successioni storiche, con un prima e un poi. Non resta dunque che l'ipotesi 1 come la più probabile.

3. Obiezioni e risposte
Una filosofa che stimo molto, alla quale ho sottoposto il paradosso subito dopo averlo “scoperto”, ha obiettato che le lingue nelle quali sono scritti i testi della Biblioteca sono in realtà entità a loro volta storiche (quindi ciò introdurrebbe una variabile tempo che renderebbe il numero dei volumi della Biblioteca non determinabile).
Ma ipotizziamo che le lettere di un alfabeto (poco importa se siano 21, 26 o altro numero) rappresentino in maniera sufficientemente efficace tutti i suoni che l'apparato vocale umano è in grado di produrre (parliamo di specie umana: certo si può dire che anche la specie umana è in evoluzione e in futuro i suoni producibili potrebbero essere diversi, ma allora direi che comunque la gamma dei suoni producibili in futuro non dovrebbe essere infinita...).
Bene. A questo punto anche le variazioni lessicali, grammaticali, sintattiche prodotte dal mutare storico delle lingue vengono "catturate" dall'ipotesi dell'insieme di tutte le possibili combinazioni di questo numero finito di caratteri moltiplicato esponenzialmente per il numero di caratteri per riga, righe per pagina eccetera. A un certo punto nasce una parola nuova? E' sicuramente già presente nella Biblioteca. Nasce una nuova forma grammaticale? Anche per questa vale lo stesso discorso.
Il punto è che se una forma linguistica è possibile (pronunciabile) allora esiste nella Biblioteca.
Altra obiezione potrebbe essere: perché i volumi devono avere 410 pagine e non di più, o di meno? Risponderei che occorre pensare a un numero sufficientemente alto di pagine per volume perché tale numero costituisce l'ampiezza dell'unità di senso che va ipotizzata se vogliamo parlare di opere d'arte, opere scientifiche eccetera. I due numeri importanti, per formulare il paradosso, sono il numero dei caratteri dell'alfabeto e il numero delle pagine per volume: è importante solo che siano numeri finiti e che corrispondano più o meno alla realtà degli alfabeti naturali e dei volumi nei quali solitamente si esprime l'ingegno umano, ma non è importante ovviamente di quali numeri si tratti.
Un'altra obiezione: un'opera potrebbe richiedere più volumi (ad esempio la Recherche di Proust). Possiamo sempre immaginare, però, che un'opera di tal genere esista comunque nella Biblioteca, anche se "spalmata" su un numero di volumi forse diverso (e forse l'ultimo potrebbe essere composto da cento pagine sensate, la fine dell'opera, e poi pagine bianche: ricordiamo che nei caratteri base occorre pensare anche lo spazio, e le pagine bianche si possono intendere come iterazione dello spazio).
Italo Nobile ha pubblicato sulla mia pagina Facebook alcune osservazioni critiche che riporto qui di seguito:
«Non sono d'accordo in quanto la quantità di cose esprimibili non è infinita se e solo se il tempo non è infinito e se e solo se la lunghezza delle stringhe che costituiscono i termini designanti oggetti sia finita. Tu accetti come premesse una certa interpretazione della biblioteca (ad es. in quella di Lasswitz ci sono anche le opere letterarie che attualmente non significano niente, ma nessuno può dire che non significhino qualcosa) e soprattutto neghi che ci possono essere serie infinite di segni a designare oggetti. In realtà con i segni a nostra disposizione possiamo designare infiniti oggetti dal momento che abbiamo i numeri. Questa tesi parte dal numero finito di segni e dal numero finito di pagine di un libro per inferire qualcosa sull'universo. Ma ciò significa mettere il carro davanti ai buoi. L'unica cosa che potremmo dire è che, nel caso di universo infinito (o con un numero infinito di oggetti) ad un certo punto ci potremmo trovare nella situazione per cui dobbiamo considerare degli oggetti nuovi come copie di oggetti già visti».
Provo a rispondere, o comunque a commentare a mia volta quanto dice Italo.
Sulla prima osservazione, che ipotizza un tempo infinito nel quale si possano esprimere cose infinite, direi questo: se partiamo dall'ipotesi di un tempo infinito nel quale esista una produzione infinita di testi significanti, resta il fatto che a un certo punto, esaurite le combinazioni possibili di tutti i segni entro un certo formato (numero di caratteri per pagina, numero di pagine per testo) siamo destinati a ripetere le stesse cose, quindi per quanto infinita la Biblioteca sarà ripetitiva, modulare...
Sulla "lunghezza delle stringhe" dei termini designanti mi vengono in mente i numeri irrazionali... Cosa analoga Italo dice più sotto quando ipotizza "serie infinite di segni a designare oggetti", e "con i segni a nostra disposizione possiamo designare infiniti oggetti dal momento che abbiamo i numeri."
In effetti qui mi pare che Italo colga un punto cruciale: nel paradosso della Biblioteca di Babele i numeri non sono considerati, ed è vero che i numeri sono di per sé intrisi di infinito, infinito stratificato, fra l'altro, a diversi livelli di potenzialità (come Cantor ci ha rivelato con la teoria dei numeri transfiniti). Resta il fatto che il linguaggio matematico ha un modo diverso di rapportarsi con la realtà rispetto al linguaggio verbale, e forse addirittura si potrebbe dire che il linguaggio matematico descrive, direttamente, oggetti "di altro tipo" rispetto alle cose fisiche, anche se ovviamente è fondamentale per la conoscenza del mondo fisico nel senso che descrive indirettamente situazioni e rapporti fra cose fisiche...
È vero che sono partito da una certa interpretazione della Biblioteca, ma ci tengo a chiarire bene un punto sul quale ho riflettuto molto. Il fatto che si ipotizzi un numero finito di segni grafici, che corrispondono a un numero finito di fonemi (e parliamo di linguaggio verbale) si fonda sulla realtà dei linguaggi naturali e anche sulla struttura dell'apparato vocale umano. Non possiamo produrre infiniti tipi di suoni. Il fatto che si prenda in considerazione un numero finito di righe/pagine di un testo non implica che si metta un limite fisso alla lunghezza di un testo, infatti un testo può essere espresso in più volumi della Biblioteca, ma significa che si considerano, nel paradosso, testi di senso compiuto, cioè testi finiti, per quanto lunghi possano essere.
L’ipotesi di un testo infinito (su cui Borges ha costruito un altro racconto, Il libro di sabbia) cade perché tale testo non avrebbe un senso determinabile, quindi non avrebbe senso.
Infine, all'obiezione di "mettere il carro davanti ai buoi" se partiamo da considerazioni sul linguaggio per arrivare a tesi sulla realtà, rispondo che è un procedimento tipico della filosofia, nelle sue aspirazioni metafisiche. Da Platone e Aristotele fino a Wittgenstein... non abbiamo sempre fatto così? (Del resto il linguaggio è esso stesso un "pezzo" di realtà. Una proposizione è un fatto che esprime un altro fatto…)


4. Conclusioni
Negare l'infinito reale, nella realtà fisica, equivale a credere nella conoscibilità, nella comprensibilità del mondo.
Perché dobbiamo credere all’ipotesi immaginativo-metafisica della Biblioteca di Babele? (cioè l’ipotesi che la quantità di ciò che è dicibile, esprimibile attraverso il linguaggio, sia finita.)
Perché un libro deve avere un numero di pagine finito? O anche: perché una frase non può essere infinita? Perché altrimenti il suo senso non sarebbe, per principio, comprensibile. Potremmo capirne solo le singole parti, ma non il tutto. Ma un senso incomprensibile equivale a una assenza di senso.
Resta sempre comunque pensabile, possibile, che la realtà (fisica) sia invece nel complesso inconoscibile, incomprensibile, quindi resta sempre possibile che sia infinita e senza senso.

Ma perché qualcosa che è, di fatto, conoscibile nelle sue singole parti dovrebbe essere inconoscibile nell'insieme? Noi abbiamo già sperimentato la conoscibilità di parti della realtà, quindi abbiamo ragionevoli motivi di credere che la realtà sia conoscibile e sensata anche nella sua totalità, quindi che sia finita.

15 febbraio 2015

Modi della perfezione

Ripropongo un articolo di Franca D'Agostini uscito sul manifesto il 24 dicembre 2002. Contiene in nuce un importante tassello, sul versante della prassi individuale e collettiva, nella costellazione di pensieri che la filosofa torinese sta costruendo






La perfezione è di questa vita 
Un apologo medievale per ricordarci come l'annuncio della Buona Novella, che stanotte si celebra, dovrebbe comportare una rinnovata teoria della buona vita. E sebbene la nostra cultura difetti di ascesi, un legame di parentela lega gli antichi eremiti agli esteti tardo-moderni, devoti alla liturgia del jogging e della mela biologica: allora come ora, nulla si ottiene se non sacrificando se stessi al culto di se stessi
C'era una volta un eremita. Da più di venti anni viveva in una grotta alle soglie di una foresta. Rispettava gli animali e le piante, pregava Dio costantemente. Vicino alla grotta scorreva un ruscello, e ogni giorno, all'ora del pranzo, sull'acqua del ruscello arrivava galleggiando una mela. L'eremita la sbucciava, gettava le bucce nel torrente e la mangiava. E questo era il suo unico pasto. Passò molto tempo così. L'eremita sapeva che la sua vita era perfetta, e la sua vicinanza a Dio era sicura. Ma un giorno, chissà perché, fu preso dall'incertezza. Si svegliò, bevve l'acqua del ruscello e nell'alba gelida si inginocchiò a pregare sui sassi. Per quanto si sforzasse, però, non riusciva a pregare: non riusciva a creare nella sua mente il vuoto e il silenzio necessari perché vi entrassero l'immagine e la voce di Dio. I suoi occhi erano pieni di immagini, la sua mente era affollata di parole. Cominciò a sentire il calore del primo raggio di sole sul viso. Si gettò a terra, e ancora le immagini e le voci affollavano il suo pensiero e non riusciva a pensare a Dio. Dopo aver trascorso così le ore del mattino, si mise in viaggio. Camminò e camminò. All'imbrunire giunse in una radura dove viveva un altro eremita, proprio come lui. Questo eremita lo accolse con gioia e gli spiegò che amava Dio con tutte le sue forze, e tutto il giorno aveva il privilegio di dialogare con lui. Non aveva bisogno di nulla, disse, eppure Dio nella sua infinita e misteriosa misericordia gli dava un dono ogni giorno: ogni giorno sull'acqua del ruscello gli mandava le bucce e il torsolo di una mela, e questo era il suo cibo, in tutta la giornata. Il primo eremita non rispose, e si avviò in silenzio verso la città. Il secondo eremita non capì, e per tutta la notte si tormentò chiedendosi come avesse potuto offendere il suo fratello. Ma la mattina dopo, l'infinita misericordia di Dio lo consolò mandandogli sull'acqua del ruscello una mela intera. Non è un racconto di Natale, ma spiega in sintesi tutto quel che ci si può aspettare da una teoria della buona vita, o meglio della vita perfetta. D'altra parte, il Natale dovrebbe essere l'annuncio rinnovato della Buona Novella, e la Buona Novella dovrebbe comportare una nuova teoria della buona vita, della perfezione nel vivere. La consuetudine del buon proposito natalizio, anzi, è forse uno dei pochi elementi di coerenza delle attuali celebrazioni: perché il cristianesimo è stato, almeno su questo piano, una grande rivoluzione antropologica (purtroppo incompiuta: soprattutto nella sua richiesta di pace e fratellanza). Dunque vale forse la pena approfondire minimamente la questione: che cosa può essere ancora per noi una buona vita, o, se fosse possibile, una vita perfetta?
I medievali, che raccontavano l'exemplum dei due eremiti (in una forma non molto diversa da questa), lo intendevano come una illustrazione di quanto l'autocompiacimento e l'orgoglio possano recare danno alle conquiste dello spirito. Ma forse non sono l'orgoglio e la vuota vanagloria del primo eremita, a colpirci, nel racconto, quanto il ritornare di quella mela sulle acque del torrente, che riapre le condizioni dell'errore. L'idea che ci scoraggia, è l'idea che la perfezione sia un concetto vuoto, infinito, e negativo, ossia, in altre parole: la perfezione non si soddisfa di sé, e non ci può essere perfezione nella vita che sia anche perfezione nella coscienza.
La narrazione ci dice che una vita perfetta non è tale senza umiltà, ma l'umiltà è la considerazione della propria imperfezione, dunque un secondo insegnamento, più sottile, è che a una vita perfetta occorrerà non essere davvero perfetta, oppure - per dirla in termini dialettici - a una simile vita occorrerà disfarsi della coscienza della propria perfezione, per essere perfetta realmente. Sembra infatti che l'elemento di disturbo, nella santità quotidiana del primo eremita, sia stato l'aver preso coscienza della propria vicinanza a Dio, mentre la superiorità del secondo eremita risalta emblematicamente grazie alla sua incantata e cieca considerazione di Dio. Così troviamo un altro classico insegnamento: la perfezione nella vita sta nel distogliere lo sguardo da se stessi. La perfezione, in altri termini, non potrà essere perfettamente consapevole.
Abbiamo allora una prima soluzione: il secondo eremita sarà esente dall'errore - ancorché meno asceticamente perfetto dell'eventuale successivo eremita, collocato più avanti, lungo il corso del torrente - se e in quanto resterà immune dell'infezione della coscienza di sé. Ma non è vero forse che la perfezione non è di questo mondo? Non è vero forse che Dio - il Dio del Cristianesimo - non chiede la perfezione, ma l'abbandono alla grazia, e che questo vuole dirci il racconto? In un mondo in cui c'è gente che pensa al martirio come il segno di una vita perfetta, e perfettamente compiuta; gente che sventuratamente ha qualche ragione storica e culturale per immaginare tali perfezioni, forse non ci si può accontentare di questo. E conviene ricordare che la tradizione ha snaturato il concetto cristiano di perfezione, esaltandone il momento generico (ama et fac quod vis), e dimenticandone l'esattezza, paradossale, ma inequivocabile. Anzitutto, la perfezione, se non altro nella sua domanda o nel suo problema, deve poter essere di questo mondo (se no non si capisce di quale mondo dovrebbe essere: quale parametro di perfezione potrà darsi in un altrove, se mai eterno infinito e già compiuto? Perché, in un simile altrove, dovrebbe porsi il problema della perfezione?) E a questo scopo, la tradizione filosofica ha elaborato a lungo idee di perfezione meno spaventose, e adattabilissime agli umani: l'idea della perfezione nel proprio genere, o secondo lo scopo, o come compiutezza, o completezza ontologica (un essere tanto più reale quanto più perfetto).
Solo apparentemente stravagante era la tesi di Leibniz: che la perfezione consistesse nell'arte della brevità, nella capacità di scoprire pochi pensieri entro i quali racchiudere tutti i pensieri possibili. L'argomento leibniziano era più o meno questo, e si sarà sorpresi nel vedere quanto ci è vicino. La felicità, anzi la somma felicità dell'uomo consiste nell'essere perfetto, e "nella sua perfezione accresciuta quanto più è possibile", ci dice Leibniz; ora la perfezione è una specie di sovrappiù di salute. "Come la malattia consiste in una lesione delle nostre facoltà, così la perfezione consiste nell'aumento della potenza".
Ma c'è da prestare attenzione a questo passaggio. Nietzsche, afflitto da una madre salutista, interpretava il precetto letteralmente, o comunque in una chiave e con intonazioni sospette di socialdarwinismo. L'idea di Leibniz però nascondeva una precisazione: la facoltà che è in gioco in ogni disquisire sulla malattia e la salute è in verità il pensiero. I criteri di valutazione della salute umana non sono la forza e la prestanza del corpo, ma la "vis cogitandi".
Diligentemente Leibniz ci spiega che per accrescere la vis cogitandi abbiamo rimedi fisici, che agiscono direttamente sui nostri organi, e "per mezzo dei quali si scaccia il torpore, si rinsalda l'immaginazione, e si acuiscono i sensi". Ma non basta: abbiamo anche rimedi che agiscono direttamente sulla mente, e tali rimedi "consistono in certi modi di pensare, per mezzo dei quali si rendono più agevoli altri pensieri". E tra tutti, una specie di miracoloso allucinogeno del pensiero è ciò che chiameremmo una terapia abbreviativa: "il massimo rimedio per la mente consiste nella possibilità di scoprire pochi pensieri dai quali scaturiscano in ordine altri infiniti pensieri".
Forse si trattava di sposare troppo prontamente la causa dell'intelletto, e come ogni ipotesi iperbolica anche questa idea leibniziana di perfezione (peraltro elaborata in un frammento incompiuto, De Organo sive arte magna cogitandi), ha molti punti deboli ed eccepibili. Come si concilia il precetto di accrescere la vis cogitandi, con quello di diminuire la forza della coscienza, allo scopo di ottenere una più adeguata perfezione del vivere? Qui la grande tradizione dell'anti-intellettualismo esulta: a quanto sembra, è un eccesso di vis cogitandi che contamina la vita dello spirito; la dialettica della perfezione infatti, esposta in sintesi nel racconto dei due eremiti, ci dice che non c'è perfezione umana che debba-possa essere coscientemente completa, pena il ricadere nel sommamente imperfetto; dunque gli avvocati dell'intelletto, e della forza del pensiero, si contraddicono miseramente.
Ma la difficoltà è minima, e aggirabile senza sforzo, se si ricorda che quel che in Leibniz è puro intelletto, diventerà ragione in Hegel: e la differenza tra il primo e la seconda, è che il primo resta fermo alla perfezione come dato di un pensiero singolo, di una sola vita, di un singolo corpo; la seconda, invece, è l'idea che sola mancava al cristianesimo per diventare filosofia, ossia l'idea che in gioco non è mai la perfezione di un singolo, di un solo pensiero, ma piuttosto di un insieme che va in ogni epoca costituendosi. Solo rispetto alla ragione come insieme dei pensieri possibili si dà perfezione, e forza (o eventualmente debolezza) del pensiero. Il giovane Hegel, nella Vita di Gesù, fresco di colloqui rivoluzionari e teologici con Hölderlin, rileggerà tutto il Vangelo, sistematicamente sostituendo ragione tutte le volte che si parlava di anima, o di scintilla divina.
Allora è vero che la coscienza individuale della propria individuale perfezione contamina e snatura la perfezione stessa, rendendola imperfetta: ma questa coscienza, ossia questa visione di sé come individui isolati, migliori o peggiori degli altri singoli individui, non è pensiero. Quando il valore degli altri spaventa, come accade all'eremita che incontra il secondo eremita, è perché si guarda ad essi dal punto di vista di quel che il giovane Hegel scopre essere il Maligno: il volto di Dio, colto nello spavento e nella solitudine senza Dio, ovvero: nella chiusura dell'individualità "orgogliosa" non psicologicamente, ma nella sua costituzione spirituale.
Al di là di questo, che è ancora in gran parte nelle nostre speranze (ed è molto lontano da questa fase della storia dell'occidente), una connessione inaspettata tra l'intellettualismo di Leibniz e la vicenda dei due eremiti è ciò che rende le due visioni di una vita perfetta per noi immediatamente emblematiche.
Si tratta di un'idea di semplificazione, di riduzione di complessità. L'ars brevis, o meglio la terapia della semplificazione, è ciò che sistematicamente insegue la vita complicata dell'occidente tardo-moderno. Leibniz ci dice: trovate il modo di individuare pochi pensieri sufficientemente ampi da pensare insieme ad essi la totalità dei pensieri possibili. Un consiglio apparentemente ingenuo, ma che ha ancora molto da dirci. È innegabile infatti che l'idea di complessità, vantato principio anti-riduzionistico degli anni Sessanta, non ha più alcuna forza eversiva e innovativa, essendo diventata un fatto delle strutture e delle istituzioni. Una scienza ipercomplessa fronteggia oggi disarmati individui alla perenne ricerca di strategie di semplificazione. Al tempo stesso, l'universo ci risulta enormemente ridotto nei tempi e nei modi, le lingue e i pensieri globalizzati hanno dismesso ogni differenza e intensità. Infine, paradossalmente, i profeti della semplicità oggi sono coloro che detengono e orientano la produzione di sovrappiù. Insomma, sappiamo che c'è un dissesto, nella nostra cultura e nella nostra vita, e che tale dissesto riguarda proprio il gioco dinamico del semplice e del complesso, dei pochi pensieri che racchiudono infiniti pensieri (come non ricordare che proprio la logica, erede dell'ars brevis, ossia della mnemotecnica medievale, è all'origine di quella esplosione economico-commerciale e culturale che è il mondo informatizzato), delle troppe cose che circondano vite alla disperata ricerca (più o meno consapevole) di qualche semplicità da eremiti medievali.
E arriviamo così all'ultimo passo di questo percorso. C'è evidentemente un difetto di ascesi nella nostra cultura, ma sarebbe sbagliato contrapporre le grotte e le foreste del medioevo agli eccessi del presente consumistico. Al contrario, non è difficile in fondo vedere nel primo eremita la versione antica e nobile di un perfezionismo da esteti tardo-moderni, di quell'anoressia metropolitana che incomincia con il jogging in central park, e con la mela - biologica - sbocconcellata prima di andare al lavoro, ripuliti dalla pratica devozionale di doccia-e-ginnastica. Anche l'esteta tardo-moderno sa che nulla si ottiene, nello spirito e nel portafoglio, se non si sacrifica se stessi al culto di se stessi. Anche un simile esteta valuterà scoraggiato, prima o dopo, la liturgia delle proprie scarpe da ginnastica. Certo, gli eremiti contemporanei vivono in isole costruite all'interno delle città; non ci sarà un altrove in cui fuggire, per consumare lo sconforto del proprio fallimento, e difficilmente ci sarà la provvidenza enigmatica del torrente. Le vite in questione, più che afflitte dalla coscienza di sé, restano ancora troppo stipate di cose, anche soltanto per vedere o avvertire la propria inquietudine.
Ma si dovrebbe leggere il racconto, credo, per quel che ci è prossimo, e non per la sua distanza. In particolare, bisognerebbe leggerlo come un richiamo alla verità violata della nostra cultura, che è sorta narrativamente dalla divinizzazione del povero e del poco, e logicamente dal paradosso diventato regola e verità (il Dio fatto uomo, la redenzione della carne, la vita che ritorna dalla morte, e infine i due grandi ossimori del cristianesimo: la gloria della croce, e il potere dell'amore), salvo poi prontamente dimenticare l'una e l'altro, la povertà e il paradosso, che, rispettivamente, costituivano il suo mythos e il suo logos. La storia dei due eremiti potrà apparire allora come la storia di due vite perfette, tanto la prima quanto la seconda: la prima, per quello a cui rinuncia, e la seconda per la sfida che la aspetta.

7 gennaio 2015

Una lezione di democrazia (e anche: sulla falsa contrapposizione tra emozione e ragione)

In questo intervento (per il ciclo Le parole della politica organizzato da laPolis, Emozione/Ragione: 16 aprile 2013, Parma, Palazzo Giordani) Franca D'Agostini lega insieme le sue riflessioni sulla logica, l'argomentazione, la verità, la menzogna, in una divertita lezione che propone una tesi fondamentale sull'essenza della democrazia.
Ethos, Pathos e Logos stanno al dibattito pubblico come Melodia, Ritmo e Armonia stanno alla musica. Il politico ideale non deve amare il potere, deve invece avere il pathos del logos, deve saper dire la verità, amarla e farla valere, e ci vuole una grandissima capacità immaginativa per poterlo fare.

6 gennaio 2015

Sulla rinascita della metafisica




Avvertenza
Questo post è una personale e parziale ricostruzione sintetica, a scopo didattico, della Seconda parte di Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri 2013) di Franca D'Agostini. I capitoli presi in esame sono: 6, 8, 10, 11 e le Conclusioni. Si tratta sostanzialmente, come si vedrà, di una collazione di lunghe citazioni dal testo, scelte secondo una certa linea di interesse. 
La scelta e la linea ricostruttiva non è stata approvata dall'autrice del libro, quindi me ne assumo interamente la responsabilità.
In fondo al post ho aggiunto, in grassetto, i sommari di tutti i capitoli della parte seconda, scritti dall'autrice (pubblicati nel blog Filosofia pubblica), in modo che sia possibile farsi un'idea di quanto il mio percorso ricostruttivo si discosti dall'impostazione del testo originale.
G.N.



Le tre fonti della metafisica, le domande sulla realtà, il significato di "reale", il problema epistemologico (cap. 6)

Qui D’Agostini fornisce un chiarimento essenziale sulle fonti su cui la ricerca metafisica può e deve basarsi. Innanzitutto non si può dimenticare il senso comune, inteso come «le credenze condivise che ci orientano nell’uso del linguaggio» o anche, in altri termini, «l’esperienza condivisa depositata nell’uso del linguaggio». Poi (ma sulla centralità del riferimento alla scienza cfr. cap. 8.) occorre la scienza, sempre aperta alla propria rivedibilità, e infine l’”evidenza soggettiva”.



Basta il senso comune? Credo di no. Un buon lavoro filosofico, specie in metafisica, non può dimenticare la scienza. Non soltanto perché con scienza intendiamo normalmente l’impresa umana di ricerca dell’oggettività (e in questo senso, suggerirei, la filosofia fa parte della scienza), ma anche perché la scienza – con tutti i suoi problemi e i suoi limiti – ci dà una buona parte dei contenuti del vero e del reale, che ci servono per ragionare e pensare.

Diceva Kant nei Sogni di un visionario: non puoi dire che esistono gli spiriti, perché il nostro linguaggio fisico (e si tratta di fisica dell’epoca di Kant) esclude la possibilità che due corpi possano essere situati nella stessa collocazione spazio- temporale. La scienza dunque contribuisce alla descrizione del “mondo in comune” che secondo Kant è oggetto della metafisica. E – se è buona scienza – aiuta a descrivere tale mondo, lasciando però aperta la rivedibilità, su cui appunto, di volta in volta, l’uso critico dei concetti R (realtà) e V (verità) dovrebbe intervenire.

Abbiamo dunque un primo orientamento metodologico: il metafisico, cioè colui che si occupa di esaminare filosoficamente la realtà, ha come punti di riferimento normativi, o se volete “fondamenti”, il senso comune e la scienza. Può anzi deve a volte entrare criticamente in dialogo con loro (specie se e quando, come vedremo, emergono conflitti); ma ne deve tenere conto. Entrambi infatti sono le principali “fonti” di cui ci serviamo per stabilire che cosa è reale e che cosa non lo è.

Esiste anche una terza fonte, che è considerata la prima e più importante dal punto di vista empirista: l’evidenza soggettiva.
Preferisco però usare un’altra espressione, che prendo da David Lewis: il de se nunc, che si tradurrebbe con “il su se stessi qui e ora”, espressione antipatica, in latino suona meglio. In pratica, vuol dire che la terza fonte che mi parla della realtà non sono tanto io, ma piuttosto di volta in volta un certo contenuto che riguarda il mio incontro con la realtà (per questo il contenuto in questione è de se, e non de re).

Il quadro è allora completo. Scienza, esperienza condivisa, de se nunc (osservazione empirica), sono le tre fonti di cui ci serviamo per stabilire che cosa è R e che cosa non lo è. Come vedremo, molte discussioni (non tutte) riguardano precisamente casi di conflitto tra le tre, oppure disaccordi tra teorie che stabiliscono un primato di una o dell’altra fonte, oppure i limiti di ciascuna di loro.

Le domande filosofiche relative alla realtà (tolta “la realtà esiste?”) possono essere tre:

I. [PROBLEMA CONCETTUALE] che cosa intendiamo quando usiamo la parola “realtà”, ossia attribuiamo i predicati (le proprietà) “è reale”, “esiste”, a qualche oggetto? [in nota:] Il mainstream analitico ritiene che l’esistenza non sia una proprietà, e conseguentemente non sia un predicato: ma questo punto di vista (che viene attribuito erroneamente a Kant) è estremamente discutibile. Bisogna ritenere piuttosto che ‘esistere’, ‘essere reale’ siano se mai predicati di un genere speciale. È questo in definitiva ciò che intendeva Aristotele inserendo la sostanza (prima e seconda) tra le categorie, che Severino Boezio chiamò per l’appunto praedicamenta. Ma di ciò meglio più avanti.

II. [PROBLEMA METAFISICO VERO E PROPRIO] che cosa è reale, esistente, e come è fatto?
III. [PROBLEMA EPISTEMOLOGICO] a quali condizioni possiamo stabilire che un oggetto è reale, esiste?

Queste tre domande circoscrivono la “questione del realismo” nelle possibili forme in cui può presentarsi. Tutte e tre le domande riguardano la metafisica intesa genericamente come riflessione filosofica sulla realtà. Ma solo le domande del tipo II sono domande metafisiche in senso stretto. E più precisamente, come si usa dire nella filosofia analitica: la domanda “che cosa esiste?” definisce il campo dell’ontologia e la domanda “come è fatto ciò che esiste?” definisce il campo della metafisica. Le altre non sono tanto di metafisica quanto di analisi concettuale (la I) e di epistemologia (la III).

in tutte e tre le analisi è facile che la filosofia debba incrociare i correlati scientifici. Nel primo caso l’analisi del concetto R da parte dei linguisti, nel secondo le analisi dei fisici, e nel terzo quelle degli psicologi o degli scienziati cognitivi, e anche eventualmente degli antropologi, o dei sociologi ecc.

Il vero problema del «realismo» come tale, è solo il secondo, cioè la prospettiva della metafisica. Ed è in relazione alle domande di tipo II che il ricorso alla scienza sembra inaggirabile: non è tanto facile giustificare per esempio la mia tesi secondo cui il tuo mal di testa non è R, mentre questo tavolo lo è, se non mi appello alla fisica e alla biologia, per esempio dicendo: è vero che hai mal di testa, ma l’“oggetto” denominato “tuo mal di testa” non c’è propriamente; se mai, sopravviene su un certo stato biochimico dell’oggetto fisico che è il tuo corpo.

Ma sia i neokantiani (in senso ampio) sia i neopositivisti, pur con articolazioni diverse delle loro posizioni, interpretano questo punto in senso esclusivo: non è più la filosofia che deve occuparsi di realtà, perché ormai questo compito viene assolto dalle scienze.

[nota 12] “realtà” è il nome per indicare il predicato “x è reale”, e il predicato è il nome per indicare la proprietà delle cose che sono “reali”. Dunque il concetto di realtà è la funzione linguistica e se volete mentale che intende riferirsi a (o esprimere) tale proprietà.
C’è un’espressione di Charles S. Peirce che è utile adottare: il reale è l’It, l’esso generico non specificato che colgo intorno a me. Apro gli occhi (mi sveglio?), ed ecco cose alberi strade fiori città ecc. È almeno inizialmente un utile chiarimento: con R intendo il tutto in cui sto, che mi circonda e mi costituisce. […]
Incontro continuamente l’It, anzi ci sto dentro, e come dire ci affogo, ma perlopiù non lo vedo affatto, e non soltanto non lo vedo, ma non ci penso affatto. […] Vediamo allora che il concetto R, come il concetto V (verità), e altri superconcetti filosofici, è dispensabile: possiamo benissimo non usarlo, né pensarci.

Ma possiamo, visto che è dispensabile, sbarazzarci di R?

Sappiamo già come funziona l’argomento: se dici: “sbarazziamoci del concetto R” devi aver notato delle circostanze effettive, appunto R, che ti hanno fatto ritenere che R sia concetto da non usarsi. […] Infatti: R e V sono concetti dispensabili, ma misteriosamente sono anche ubiqui, stanno ovunque nei nostri discorsi e ragionamenti.

Ecco allora la trappola della metafisica: che R e V e altri superconcetti che ne derivano sono confusi (per eccesso di vastità), confondenti (perché non si vedono mai ma se mai si “vivono”), e per di più non riusciamo neppure a sbarazzarcene!

Che fare? L’unica soluzione è capire perché mai li usiamo e a che cosa esattamente servono.

Il concetto R serve a discutere, nei contesti in cui qualcuno parla di cose che non esistono oppure afferma l’inesistenza di cose reali.

Ecco dunque il punto: concetti come R e V sono concetti discussivi, e inferenziali, in una parola, se si vuole scettici, in quanto appartengono alla skepsis, la ricerca. […]
la filosofia, specie quella che si occupa dei concetti fondamentali di verità-realtà-bene, è un’arte critica, e di speciale utilità quando tutti discutono, non ci si capisce, e non si riesce a trovare un accordo: perché alcuni vengono ingannati, altri ingannano, e alcuni credono (o fingono) di sapere e non sanno.


R è il nome di due problemi
Ma il dato per noi cruciale, è che ci sono due fondamentali ragioni (scettiche) per cui R è stato creato.
La prima è che:

alcune cose sembrano esistere (essere R), e altre no, ma non è facile distinguere le une dalle altre, ed esistono (sono esistite) controversie su questo punto.

La seconda è:

tutto ciò che chiamo R sembra stare nel qui e ora della mia esperienza, dunque l’R non è realmente R, ma è piuttosto “mi risulta R”, o “credo che sia R”.

Notate che queste due ragioni, proprio perché sono ragioni scettiche, problematiche, sono anche due fondamentali difficoltà nell’assegnazione di R. Entrambe ci confermano ciò che bisognerebbe sempre ricordare: che i concetti filosofici sono nomi di problemi.

Il problema di come abbiamo accesso alla realtà (il “problema epistemologico”) è il problema di come superare il solipsismo, il soggettivismo, l’idealismo soggettivo, il fenomenismo scettico; in altri termini è il “problema del mondo esterno”.


È abbastanza facile vedere che il problema nasce dall’antico scetticismo empirista, vale a dire dalla metafisica basata sul de se nunc diventato unica fonte. E forse in questa prospettiva si vede già l’errore. Ma intanto, notate che l’idea di partenza è l’idea che sia impossibile “uscire” dal campo definito dell’esperienza, per esplorare che cosa c’è fuori. Ne segue che qualsiasi cosa io vi dica del “fuori” (della realtà come è in sé) potrebbe essere vero, e non avrete argomenti per dire “no, non è così”. È questo peraltro il tema capitale che porta l’empirista, saldamente collocato nel de se nunc, a sbarazzarsi della metafisica, ossia del pensiero del “fuori”. […]
Allora ecco la questione di fondo, segnalata dai metafisici eredi di Kant (e anzitutto da Hegel): che non usciamo dall’autocontraddizione fenomenista perché (e se) non abbiamo la metafisica, come disciplina o campo di ricerca; perché ci neghiamo il diritto di rivedere e ridiscutere proprio quella narrazione in fondo minoritaria che dice: solo il de se nunc è affidabile, tutto il resto sta “fuori”, e non è possibile pronunciarsi sul fuori.

Vediamo dunque l’utilità di ricordare le tre fonti della metafisica, di cui si è parlato in apertura: l’esperienza comune (depositata nel linguaggio), la scienza, e l’evidenza soggettiva. E vediamo anche la necessità di non considerare l’una dominante rispetto all’altra. Perché se deciderò che l’unica o la primaria fonte normativa in metafisica è l’io (specie inteso come soggettività empirica), mi trovo a dover amministrare un “fuori” che ho già descritto come tale, e che però vieto a chiunque altro di descrivere.

La fisica contamporanea è la nuova metafisica? Il realismo scientifico e il concetto di "scienza totale" (cap. 8)

Per rispondere alle domande propriamente metafisiche, di tipo II, si direbbe che la fonte primaria, in quanto ricerca di conoscenza oggettiva, sia la scienza. In questo capitolo D’Agostini, attraverso il ricorso alla nozione di “scienza totale”, chiarisce quale dovrebbe essere il corretto rapporto tra ricerca metafisica e ricerche scientifiche.



L’idea che spesso o in linea di massima le teorie scientifiche catturino la verità sulla realtà è non soltanto plausibile ma direi ineccepibile. Sarebbe davvero sorprendente se l’enorme apparato di controllo dei fatti che chiamiamo scienza non riuscisse mai a farlo, o vi riuscisse solo molto raramente. Se però ricordiamo che la domanda non è: “la scienza ci dice come è fatta la realtà?” ma: “dobbiamo fidarci dell’immagine scientifica della realtà?” emerge con chiarezza che il problema si pone a causa di un conflitto di affidabilità, e più propriamente a causa del fatto che la «struttura profonda» della realtà, così come ci è rivelata dalla scienza, in particolare dalla fisica, non coincide con l’immagine della realtà che ci è rivelata dalle comuni intuizioni empiriche. […]
Sembra emergere allora il primo dibattito propriamente metafisico, perché appunto riguarda la «struttura profonda» della realtà, così come è in sé, e non i nostri modi di conoscerla, o di giustificare le conoscenze che ne abbiamo. […]
[…] La questione (metafisica) non è se sia meglio credere alla scienza o al senso comune, o se gli oggetti che incontriamo nell’evidenza empirica e nella percezione ci siano, e siano quel che sembrano essere, ma quale sia la loro struttura interna e «indipendente» dal nostro modo di incontrarli (attraverso la percezione, o in qualsiasi altro modo). […]
Conviene soffermarsi sulla natura della domanda “gli oggetti esistenti sono quelli previsti dalla fisica, o quelli previsti dal senso comune?”.

Chi formula una domanda di questo tipo sta in verità chiedendo: “come è fatto ciò che esiste?” ma anche: “chi è autorizzato a dirmi come è fatto ciò che esiste, nel caso (come è il caso) sorgano risposte contrastanti?”. […]
È proprio su questa base in effetti che Heidegger e altri autori, nel trattare la «questione dell’essere», tendono ad associare questioni metafisiche e questioni metodologiche. E spesso, nel fare ciò, assumono una posizione critica nei confronti della scienza. Però non è tanto alla “scienza” come tale (incomprensibile astrazione) che dovrebbero opporsi, ma piuttosto all’idea che la scienza come apparato istituzionale sia l’unica e conclusiva depositaria della verità circa l’esistente. Ossia non possa essere esaminata criticamente, discussa e messa in dubbio. E questa idea non è coltivata né difesa da nessun “scienziato” dotato di ragione. […]
È vero che quel che incontriamo sono gli oggetti del senso comune, ma non è questo l’oggetto della metafisica, e non è questo che si richiedeva. […]
Invece, quando chiedo se e come questi oggetti esistano, e quale sia la loro costituzione interna, in base alla quale possiamo dire che sono esistenti, allora è naturale che io faccia riferimento alla fisica, o ad altre scienze. La risposta metodologica allora a mio avviso diventa più facile. Se domando: “come è fatta la realtà?” e voglio dare una risposta filosofica, ma scientifica (intendendo per scienza una ricerca basata sul «mondo in comune», come dice Kant, e non sulle mie esperienze individuali), allora devo certamente confrontarmi con la realtà così come è esaminata dalle altre scienze, ed essenzialmente dovrò dare fiducia alla fisica. […]
Se invece domando: “come è fatta la realtà che incontro nella vita quotidiana e nei miei confronti discussivi?” è chiaro che la risposta è diversa. Ma è anche diverso il territorio entro cui mi muovo nel cercare di rispondere, ossia l’episteme, l’oggetto della mia ricerca. Nel primo caso mi sto occupando di metafisica. Nel secondo mi sto occupando di quella zona di intersezione tra metafisica ed epistemologia che è precisamente il terreno messo in luce da Kant con la sua filosofia trascendentale.

Quanto alla «struttura profonda» della realtà, come si è visto la scienza ha di solito un primato. Se emerge una divergenza, occorrerà una riflessione filosofica, che cerchi di capire come in definitiva stanno le cose. E si è suggerito che chi elude la scienza in questo ambito sostanzialmente esce dalla metafisica, ovvero non si interessa più della struttura interna della realtà (come è fatta la realtà) ma finisce per affrontare l’altro problema (il III): come possiamo conoscerla.

Ma a quale scienza ci riferiamo quando parliamo di un primato della scienza in metafisica? La prima intuizione è che tale primato vale se la scienza stessa non esclude la metafisica, o meglio non taglia fuori la possibilità autocorrettiva e autoriflessiva (che le provenga dalla filosofia o da lei stessa). La mediazione tra senso comune e scienza fornita dalla filosofia può rivelare l’errore, evitando con ciò che il potere della scienza travalichi i suoi stessi compiti e obiettivi.

Ma più propriamente, il concetto di «scienza totale» spiega bene quale sia la “scienza” di cui parliamo in metafisica quando diciamo che la scienza ci offre informazioni sulla realtà. La scienza totale è semplicemente l’impresa scientifica nella sua totalità, non è solo il deposito di conoscenze acquisite da una certa scienza, in una certa fase di sviluppo. La scienza totale è per esempio per i fisicalisti la «fisica completa», l’insieme compiuto di tutte le cognizioni fisiche.

La scienza come fatto storicamente determinato può contenere falsità ed errori, e può dirci esistenti cose che non esistono, o negare l’esistenza di cose che invece esistono a tutti gli effetti. Può anche essere inconsistente, ossia contenere contraddizioni e dissonanze, ed è facile che sia così, perché la quantità di diverse scienze che oggi abitano il territorio della ragione è davvero ampia, e sono diversificati sia gli oggetti sia i metodi. Questo però capita anche al senso comune, e anche al de se nunc. Ci sono errori e dissonanze tanto nella scienza quanto nel “sistema” del senso comune, quanto nelle percezioni di un individuo singolo. L’aspetto interessante della metafisica consiste precisamente nella mediazione dialettica che opera sulle tre fonti.

Nell’ascoltare la scienza circa il concetto R dobbiamo ricordare allora che è per ovvie ragioni incompleta, deve ancora capire e conquistare molte cose. Dunque quando parliamo di scienza in metafisica ci confrontiamo nei singoli casi con la scienza attuale, ma la concepiamo (idealtipicamente) come “scienza completa”.

Il realismo presupposto da qualsiasi argomento o discussione (cap. 10)



Se x è un fatto allora x sussiste indipendentemente dai discorsi e pensieri che ne parlano [nella nota 3 del Cap. 10]



1. qualcosa è reale, o anche: esistono fatti;
2. c’è una sola descrizione vera dei fatti;
3. possiamo a volte formulare descrizioni vere dei fatti e riconoscere come vera o falsa una data descrizione. […]

[…] quando ragioniamo e discutiamo usiamo le funzioni concettuali “questo è vero”, “questo è un fatto”, “le cose stanno così” esattamente in questo modo. Dunque le funzioni di cui sopra sono particolarmente importanti in logica, e in generale nella vita pubblica e privata degli esseri umani liberi, visto che dai ragionamenti più o meno sbagliati o giusti di un individuo libero dipendono le sue decisioni e azioni. [in nota:] Di qui il legame molto stretto che si determina tra «filosofia prima» e democrazia. […]
Tutto ciò è già molto chiaro nel libro Gamma della Metafisica di Aristotele. Lì appare anche con chiarezza che non soltanto l’antirealismo, ma in generale ogni posizione metateorica negativa (relativismo, scetticismo ecc.) è destinata all’autocontraddizione. Ed è destinata all’autocontraddizione, se e in quanto si accetta il quadro logico-ontologico definito dalle tre tesi. Ma tale quadro è (per Aristotele) inaggirabile, se si intende argomentare le proprie tesi in modo valido. Ecco dunque che la dimostrazione non è circolare: il realismo metafisico (in questa versione preliminare) si basa sulla logica, e la logica trae origine dalla necessità di ragionare, discutere, riflettere, argomentare, per la vita di un individuo libero. Attenzione: parliamo di logica non come apparato consolidato di dottrine più o meno “classiche”, ma come uso delle forme logiche.
[…] si tratta ora di chiarire meglio perché e come si determini questo passaggio tipicamente aristotelico dalla logica alla metafisica. […]
Il carattere irriducibile di R è legato a una visione del linguaggio che non sarebbe sbagliato definire aristotelica, e che è (almeno per metà) alla base della filosofia analitica. Si tratta di quella «semantica veritativa» (Habermas) o «concezione referenzialistica del linguaggio» che va incontro a una critica generalizzata, almeno a partire dagli anni trenta del Novecento. […]
Però, la base del lavoro logico, in tutte le versioni, rimane proprio questa idea «descrittivista» del linguaggio. L’assunto da cui proviene ogni tipo di logica è che tutte le volte che parliamo, o pensiamo, ci riferiamo in qualche modo a entità di qualche genere, che costituiscono il contenuto dei discorsi-pensieri.

[…] basta semplicemente ammettere:

– che le realtà che rendono veri i nostri enunciati sono di diverso tipo (fatti atomici, varie collezioni di fatti atomici, fatti matematici o linguistici, fatti modali); [in nota:]Non per nulla, è tenendo ferma l’impostazione logico-metafisica basilare che sono sorte le logiche modali, condizionali, paracomplete e paraconsistenti. E anche la logica induttiva, probabilistica, stabilisce uno stesso legame fonda- mentale realtà-linguaggio, benché (come la logica fuzzy) renda sfumata, «gradualistica» l’assegnazione dei valori di verità.
– che a volte catturiamo tali realtà direttamente, per evidenza empirica, a volte per inferenza, o per ricombinazione a partire dal mondo attuale.

Basta aprire l’estensione di R, ovvero basta aprire il campo della metafisica, per ammettere che ogni asserzione coinvolge la realtà, anche se non soltanto la realtà. […] basta, almeno inizialmente, un semplice e ovvio pluralismo ontologico, se si vuole: la classica equivocità dell’essere. […]
Un antiaristotelico direbbe: ma perché incominciare dalla logica? Ho già in parte risposto a questa domanda, suggerendo che le nozioni di realtà e verità alla base dell’elenchos sono di estrema importanza nelle discussioni.

Il punto di cui spesso ho parlato, e su cui dobbiamo sempre soffermarci, è che i concetti V e R non hanno di per sé stessi nessuna rilevanza, fino a quando non entrano nelle discussioni, nei ragionamenti, nelle ricerche scientifiche, nelle riflessioni poliziesche, politiche ecc. Come ho detto ripetutamente, sono concetti inferenziali e discussivi. Ne consegue che per quanto il regno «referenzialistico» della logica non esaurisca il campo degli usi del linguaggio, certo è che tale regno è precisamente il principale da noi frequentato quando discutiamo, cerchiamo, riflettiamo ecc.

È l’apparato logico che fa capo alla verità (realistica) che ci guida nel formulare e valutare i ragionamenti, quando esistono disaccordi, dilemmi e perplessità. Si può dire dunque che la metafisica nasce dalla logica, e la logica nasce dal disaccordo, dalla perplessità e dal dubbio: proprio da quel territorio della skepsis da cui si generano le formule del to on, to alethes, to agathon.

Essere è un predicato?
[…] il nostro linguaggio segnala una differenza tra il “c’è” e l’“esiste”. Ci sono scimmie parlanti e altamente evolute, nel film Il pianeta delle scimmie, ma nel nostro mondo (a quanto so) non ci sono. In effetti tanto Aristotele quanto Kant ci danno versioni diverse della storia per cui l’esistenza non è mai predicato-proprietà. Detto semplicemente: c’è un uso predicativo e un uso esistenziale del verbo essere e quando parlo di R maiuscola uso il secondo.

In ogni caso, trattare il concetto R come un predicato (come suggerisce Tugendhat: cfr. cap. 11), è un grande vantaggio per l’analisi concettuale: ci permette di riflettere liberamente sulle condizioni di asseribilità di R. Ci possiamo chiedere allora: quando diciamo che una cosa è reale? quando abbiamo diritto di dirlo, e che cosa intendiamo nel dirlo? L’ipotesi che difendo è che R significhi: 
stare-essere presente nel mondo attuale, ossia in questo mondo in comune in cui viviamo pensiamo e di cui parliamo quando ragioniamo e discutiamo, e descritto dalla fisica come mondo spazio-temporale.

[…] tendo a prediligere l’idea che tutto c’è, ma solo qualcosa esiste – è reale: un’idea che come vedremo è tipica dei meinongiani. […]
Che cosa è reale e che cosa non lo è? Una volta assodato che i fatti sono di diversa natura e che gli esistenti che entrano in tali fatti possono essere di diverso tipo, forse basta stabilire che l’esistente in senso proprio e primario ci è dato da quel che dice la fisica: dunque esistono anzitutto i fatti fisici, e tutto il resto sopravviene sui fatti fisici. […]
La natura primariamente fisica dei fatti non nega l’esistenza di fatti spirituali sopravvenienti (o «emergenti») sui fisici. E neppure nega l’idea che i fatti fisici possano essere anche in qualche aspetto diversi dai fatti riconosciuti tali dalla scienza attuale. Come si è detto, i fisicalisti di oggi si riferiscono alla «fisica completa», dunque anche i risultati metafisici della fisica, benché categorici, risultano provvisori, se visti nella prospettiva della “scienza totale”.

 Morte e rinascita della metafisica (cap. 11)

I neokantiani ritengono che le domande metafisiche non abbiano risposte teoriche se non quelle particolari ed empiriche della scienza.
I neopositivisti ritengono che le domande metafisiche siano mal poste e fuorvianti.

il divieto neokantiano e neopositivista di occuparsi di metafisica, ossia di indagare la natura della realtà con strumenti che eccedono quelli della scienza empirica, e di chiedersi come sia fatto, realmente, ciò che chiamiamo “esistente” o “reale”, ha agito pesantemente nella tradizione filosofica. Tanto è vero che ancora oggi c’è chi associa alla parola «metafisica» l’idea di una ricerca insensata o mistica, che rincorre vanamente la trascendenza e prende sul serio i sogni dei visionari, oppure vuole sostituirsi alla scienza nell’indagare i fenomeni.

Da alcuni decenni però è in atto una controtendenza, specie nella filosofia analitica, dove la metafisica, di nome e di fatto, è decisamente rifiorita. Come si tratterà ora di vedere, la metafisica contemporanea ha trovato negli strumenti della logica moderna (proprio quelli elaborati dalla tradizione nominalmente più antimetafisica: il neopositivismo) nuove risorse di metodo; si è trattato, come si è accennato, di una vera e propria rinascita della metafisica dallo spirito della logica. […]
La metafisica analitica contemporanea conferma alla perfezione quanto si è suggerito: che la metafisica nasce dalla logica.

[…] la rinascita è avvenuta esattamente secondo le linee previste da Tugendhat (anche se Tugendhat non aveva ancora notizia di alcune teorie più recenti). […]
Le acquisizioni della logica moderna che secondo Tugendhat consentono di rilanciare e impostare in modo nuovo la metafisica sono le seguenti:

– una visione del tutto nuova dell’oggetto (inteso come termine singolare);
– una visione del tutto nuova del concetto (inteso come nome di un predicato);
– una visione del tutto nuova della nozione di universalità (o «formalizzazione», o «astrazione»: come subordinazione tipologica o concettuale, ossia predicati che parlano di predicati). […]
La tesi di Tugendhat si può confermare e anzi estendere, aggiungendo:
– una visione del tutto nuova di “mondo” come insieme di mondi possibili […]
In effetti la rinascita della metafisica nella filosofia A si deve storicamente soprattutto se non esclusivamente alla svolta determinata dalla logica moderna, e alla sua implicita concezione del mondo-mondi. Più precisamente, io sostengo, si deve allo spirito della logica: a quel che la «nuova logica» (secondo l’espressione di Russell) concettualmente e praticamente ha rappresentato per la filosofia. […]
L’intuizione di Tugendhat si è confermata, storicamente, secondo tre linee principali:
A. il Tractatus, o la metafisica dell’atomismo logico;
B. la teoria della quantificazione;
C. la teoria dei mondi possibili.
[…]
Il Tractatus si presenta come un’opera anti-metafisica ma è leggibile esattamente in modo opposto. Lì il giovane Wittgenstein spiega come è fatto il «mondo» previsto dalla logica di Frege e Russell (e dalla filosofia dell’atomismo logico di Russell). In questo modo, secondo Armstrong, spiega come è fatto il mondo in generale. Vale a dire: il mondo è fatto di fatti-stati di cose, ovvero combinazioni di oggetti (per esempio il gatto di Gilles) + proprietà-relazioni (per esempio essere sul divano). […] Questa acquisizione prevede due chiarimenti caratteristici dell’“ontologia” logica:

oggetto è qualsiasi cosa che possa avere proprietà;
proprietà sono modi d’essere (o stare in relazione, o agire) degli oggetti.

Ora vediamo bene che da qui (come per Aristotele) si apre lo spazio della metafisica. E la metafisica si presenta quando ci si chiede quali (tipi di) oggetti esistano; se le proprietà esistano come tali; se le proprietà siano universali o particolari; se esistano proprietà essenziali o intrinseche; quali tipi di proprietà esistano e quali non esistano. L’aver accettato l’evidenza logico-linguistica delle proprietà, e degli oggetti, fa (ri)nascere il problema metafisico. […]
B. […] Quine stabilisce che esserci (= esistere?) è espresso dal quantificatore esistenziale, il “c’è qualche x”. […] ne segue anche che l’ontologia di una teoria (quel che una teoria considera esistente) si stabilisce guardando “su che cosa quantifica”.

Quella di Quine però non è né metafisica (riflessione sulla realtà) né ontologia (riflessione su che cosa effettivamente c’è o esiste), ma metaontologia, come ha sostenuto ripetutamente il suo seguace Van Inwagen. Le sue tesi sono servite a fornire un metodo per esaminare gli impegni ontologici delle teorie, e a precisare la nozione di ontologia come esame di ciò che c’è (per una teoria). Ma non dicono nulla su ciò che c’è realmente, e in generale, né su come è fatto. Simili questioni (che a volte si chiamano di «ontologia materiale») per Quine sono di pertinenza della scienza. La filosofia si limita a raffrontare le ontologie, ovvero a effettuare «proiezioni» ontologiche.

Questo ci dice che Quine in metafisica è ancora neopositivista-neokantiano: per lui in fondo non c’è risposta filosofica alla domanda sulla realtà. […]
C. […] Forse il maggior contributo alla metafisica (e la sua più vistosa rinascita) si è avuto precisamente a partire dalla logica modale. Ed è anzitutto Saul Kripke a vedere nella semantica dei mondi possibili una svolta per la metafisica. […]
La semantica della logica modale, che prevede mondi in cui le cose sono diverse da come sono, non serve soltanto a valutare la validità di ragionamenti del tipo: “se avessi 20 000 euro potrei comprarmi quella macchina, ma non li ho dunque non posso comprarla”, serve anche a impostare in modo nuovo e molto più efficace le questioni metafisiche di fondo. Per esempio (cfr. § 12.4): le questioni dell’identità, del rapporto oggetti-proprietà, dell’essenzialismo. Questa tazza potrebbe avere proprietà diverse (essere più grande, rossa invece che bianca ecc.), ma se non fosse concava, cesserebbe di essere una tazza (quello che è), il che significa che concavo è essenziale all’essere tazza: in tutti i mondi possibili questa tazza è concava, se non è concava non è più quello che è.

Quali sono i vantaggi della metafisica sorta dalla logica?

La vera opportunità della metafisica sorta dalla logica è che consente di lasciare aperto lo spazio dei fatti senza vincolarlo a postulati epistemologici. Per esempio, postulati di tipo empiristico, visto che esistono – aleticamente – fatti osservabili o verificabili ma anche fatti matematici, astratti, formali, probabili, congetturali, possibili ecc. […]
Quello che si ottiene sostanzialmente è un alleggerimento della nozione di fatto. È questo, io direi, lo spirito della logica: l’apertura del mondo ai mondi possibili e pensabili.

Consideriamo la famigerata tesi di Al di là del bene e del male: «non ci sono fatti, solo interpretazioni». Perché Nietzsche dice questo? […] a ben guardare dice questo anche perché con “fatto” intende qualcosa di molto pesante e irriducibile, coltiva cioè un’idea di «realtà in sé» come una specie di «roccia sotto la neve», come dice Hegel: una base durissima e inamovibile, l’evidenza «inemendabile», che non ha alcun rapporto con il fragile apparato (neve) delle conoscenze umane. Però considerare così la realtà significa, come fa lo pseudokantiano, vederla nella nostra prospettiva, nella prospettiva della conoscenza.
La realtà in sé invece, dice Hegel, “è il vivente pane della ragione” [Rapporto dello scetticismo con la filosofia, a cura di N. Merker, Laterza, Bari 1970, p. 69 (ed. or. 1802)], ciò che eminentemente è vivo e si muove, e ciò di cui la ragione sempre si nutre.
È chiaro dunque che l’errore consiste nel restringere il concetto di realtà sulla base delle cognizioni che abbiamo circa la realtà, e stabilire che i predicati “è un fatto”, “è reale” debbano assegnarsi solo a quanto ci risulta essere reale (o inemendabile che dir si voglia).

In pratica, quel che bisognerebbe suggerire, è che le condizioni dell’assegnazione di “è vero”, “esiste”, “è reale” siano mantenute, ma senza restringere il loro spazio di applicazione solo a ciò che ci risulta sul piano empirico-sensoriale, o sul piano della scienza “incompleta”. Questa apertura non coincide affatto, si noti, con l’idea che esistono gli spiriti, o qualsiasi altra sciocchezza propagata dagli architetti dei «mondi ideali campati in aria», come dice Kant. Piuttosto, consiste nell’ammettere tra i “fatti” che rendono veri i nostri enunciati tipi di fattualità anche non strettamente empirica: per esempio i fatti probabili, o possibili (stabiliti per calcolo e inferenza a partire da fatti attuali), le fattualità scientifiche non osservabili, ma che hanno effetti osservabili (attuali o possibili), le fattualità riguardanti comportamenti e credenze collettive ecc. Era questa in definitiva la procedura di Aristotele, il quale ricordava la fondazione empirica delle conoscenze e dell’esperienza, ma ammetteva anche l’equivocità dell’essere, il fatto che l’essere si dice «in molti modi». Il che non vuol dire, è ovvio, che sull’essere si possa dire qualsiasi cosa, o che esistano più descrizioni vere di uno stesso fatto, ma che attribuiamo “esiste”, “c’è”, a cose di diverso tipo.

Conclusioni
[…] il mainstream della cultura filosofica contemporanea non soffre tanto di antirealismo o nichilismo che dir si voglia, ma piuttosto di scarsa consapevolezza filosofica, ovvero ha le idee tutto sommato confuse su come funzionino i concetti di realtà, verità, bene, e i loro derivati e sinonimi, e quali siano le domande che li riguardano. Di qui è emersa anche una «questione» sotterranea, che almeno allo stato attuale costituisce e ha costituito a lungo il vero punto controverso nelle dispute riguardanti il concetto di essere (ed esserci, esistere, essere reale): la questione della metafisica, vale a dire, anzitutto, possiamo-dobbiamo davvero interrogarci sulla realtà? Ha senso farlo? Non dobbiamo piuttosto lasciare le domande di cui sopra [Come abbiamo accesso alla realtà? Come è fatta esattamente la realtà?] nelle mani particolari, serie e specialistiche, delle scienze?

[…]
Dall’inizio del Novecento a oggi (o quasi), analitici neopositivisti (e loro eredi) e continentali neokantiani (e loro eredi) unanimemente ci dicono che dobbiamo lasciare le domande sulla realtà se mai alla scienza. E poi ci dicono che comunque non possiamo porre la domanda in generale o dobbiamo al più adattarci a rispondere a domandine circoscritte, del tipo: di che cosa (di quali oggetti) esattamente parla la teoria T1? quale è la differenza tra l’«ontologia» della teoria T1 e quella della T2?

Nessun antirealismo dunque, nessun postmodernismo o antilluminismo, ma piuttosto antimetafisica, o meglio, e più o meno consapevolmente e direttamente, antifilosofia.

[…]
L’idea che la questione del realismo sia in realtà questione della metafisica, e poi in definitiva questione della filosofia (prima), del suo assetto scientifico, e del suo adattarsi o meno all’assetto scientifico delle conoscenze, è uno dei fondamentali Leitmotiv dell’heideggerismo, in tutta la sua storia. Non per nulla le questioni ontologiche si tramutano spesso per i pensatori continentali di quella tradizione in questioni meta-filosofiche, e giungono a toccare la problematica della scienza.

Nasce allora dal cuore stesso del problema del realismo (del to on) una specie di guerra culturale tra scienza e filosofia, che occupa una letteratura sterminata, e che si collega a una quantità di altre «questioni» di contorno.

[…]
si può rinunciare ai due sbocchi […]: rinvio alla pratica (in particolare neokantismo) e rinvio alla scienza (in particolare neopositivismo). La domanda sul to on può tornare alla filosofia.

[…]
L’importanza della nuova metafisica sta piuttosto nel fatto che consente quell’alleggerimento della nozione di fattualità che è la richiesta tipica della metafisica, in Aristotele come in Kant, e che nello «spirito» della logica si manifesta con una chiarezza lampante. Nella logica i fatti o stati di cose sono di svariatissimi tipi: l’unico loro requisito consiste nella capacità di rendere veri (o falsi) gli enunciati che ne parlano. E poiché i fatti che rendono vero sono fatti di oggetti e proprietà, e gli uni e le altre sono di qualsivoglia genere, si apre uno spazio vastissimo per la riflessione e la discussione metafisica: si può sostenere che tutto esiste, o che non esistono alcuni oggetti, che esistono solo oggetti fisici, che esistono solo proprietà naturali, si può sostenere che gli oggetti non esistono come tali, ma sono solo fasci o grappoli di proprietà, si può sostenere che le proprietà esistono come universali, o particolari.

[…]
forse il nesso tra logica e metafisica non ci condanna, ma ci salva.

Ci salva anzitutto, come riteneva Tugendhat, dandoci strumenti analitici nuovi per valutare la realtà del «mondo in comune», senza abbandonarci a quelle «architetture di mondi ideali campati in aria» che preoccupavano Kant. In secondo luogo ci salva dandoci una immagine minimale del mondo, composto di oggetti e proprietà, in cui possiamo ritrovarci e riconoscerci, visto che proprio di questo ci parla il linguaggio che condividiamo. In terzo luogo, e soprattutto se si tiene conto delle “scoperte” delle logiche non classiche in metafisica (e della teoria del ragionamento probabile e decisionale in epistemologia), ci dà anche una serie di strumenti scettici per riconoscere le falsificazioni gli errori e gli inganni che un realismo furbo e limitativo potrebbe produrre, e la varietà dei casi su cui ragioniamo e discutiamo.

Infine, ci aiuta ad aprire la considerazione del mondo attuale, implicata nella scienza, e nella nostra stessa vita privata e pubblica, alla vastità dei mondi possibili che di fatto costituiscono il mondo, e che possiamo “ricombinare” immaginativamente, a partire dal nostro mondo in comune.

[…]
I saggi neopositivisti e neokantiani ci vietavano di interrogarci sulla realtà perché loro stessi erano prigionieri di una concezione della realtà data per presupposta, e dogmaticamente asserita come indiscutibile.


Cap. 6 – Una questione non controversa

Che cosa è “la questione del realismo”? che cosa ci chiediamo quando ci
interroghiamo sulla realtà?
I problemi filosofici relativi alla realtà non riguardano l’esistenza della realtà (e
neppure a ben guardare la sua “indipendenza”), ma piuttosto 1. come è fatta, 2.
come vi abbiamo accesso, 3. che cosa intendiamo dicendo “questo è reale”, “questo
esiste”. Vengono brevemente affrontate le questioni 2 e 3 (epistemologiche e di
analisi concettuale), mentre la questione 1 (metafisica) sarà oggetto dei capitoli
successivi. Si chiarisce anche la distinzione tra realismo metodologico e realismo
metafisico, e si dissolve la falsa controversia tra realisti e antirealisti metodologici.


Cap. 7 – Strani realismi

Prende in esame i dibattiti analitici contemporanei relativi alla “dipendenza”
della realtà dalla mente o dagli schemi concettuali, mostrando che la tesi della
dipendenza nelle diverse versioni ricade sotto gli argomenti confutatori, fissati da
Aristotele nel IV libro della Metafisica. Si chiarisce anche che secondo chi scrive
non esistono propriamente realismi “modesti” o “moderati”. Il realismo non è una
posizione da “sì, però”, ma piuttosto da “tutto o niente”; e il niente cade fuori dalla
filosofia: è gioco culturale, oppure critica della metafisica, oppure anti-filosofia.


Cap. 8 – Realismo scientifico

Esplora i principali dibattiti sul realismo scientifico. Il primo: la scienza è
garante di verità realistica? Il secondo: la realtà di cui ci parla la fisica è la vera
realtà, o è realtà piuttosto quella del senso comune? Mostra che esiste
effettivamente un certo primato della scienza in metafisica, ma la scienza di cui si
tratta è la «scienza totale» (concetto essenziale per i realisti contemporanei,
variamente teorizzato, in particolare da Armstrong e Lewis).


Cap. 9 – Verità e realismo

Esamina la discussione su verità e realismo: anzitutto Dummett, e il confronto
tra epistemicisti (‘vero’ equivale a dimostrato, verificato, giustificato) e realisti
(‘vero’ è come stanno le cose). La discussione contrappone l’antirealismo
verificazionista al realismo semantico, ma non ha alcun rapporto con l’antirealismo
metafisico. Si specifica che il realismo semantico ha ad avviso di chi scrive un
primato oggettivo. Si esplora quindi il «realismo aletico», di W. Alston e altri,
secondo cui la tesi “esistono fatti che rendono veri enunciati” è una tesi minimale
inaggirabile. Si nota che il realismo aletico contiene già una forma preliminare di
realismo metafisico: quella forma che è la base metodologica del realismo
semantico (criticato da Dummett).


Cap. 10 – L’unico realismo possibile

Presenta le linee preliminari del realismo di chi scrive. Incomincia con la
fissazione delle tre tesi: 1. esiste una realtà, 2. esiste una sola descrizione vera della
realtà, 3. a volte possiamo formulare descrizioni vere, e riconoscere come vera una
descrizione. Dimostra che sono an-elenctiche, cioè non confutabili, stando ai
significati di “verità” (V) e “realtà” (R) che comunemente usiamo. Questi
significati di V e R sono alla base della logica (come teoria formale o informale
del ragionamento valido), e pertanto sono alla base di tutte le nostre interazioni
discussive. Esiste dunque un obbligo cognitivo e discussivo che ci vincola a tenere
conto della verità realistica. Questo obbligo non è in sé una metafisica, ma
costituisce la premessa per la riflessione metafisica.
Si presentano allora una serie di posizioni di dettaglio relative a: - che cosa è
reale-esistente, e come funziona la proprietà-predicato “x è reale”; - che cosa è un
“fatto”, e come sia fatto; - quali tipi di fatti esistano.


Cap. 11 – La rinascita della metafisica dallo spirito della logica

Si offre un quadro della rinascita attuale della metafisica nella filosofia
analitica, distinguendo le tre linee, basate: sull’ontologia del Tractatus; sulla teoria
della quantificazione di Quine; sulla semantica dei mondi possibili. Si mostra che
tutte convergono nel confermare lo «spirito» della logica come spirito di
alleggerimento della metafisica.


Cap. 12 – Realismi realmente nuovi

Esamina tre teorie contemporanee che dimostrano le opportunità della nuova
metafisica in relazione alla problematica del realismo: il noneismo di Graham
Priest (la teoria secondo cui ci sono oggetti che non esistono); il realismo degli
universali di David M. Armstrong (secondo cui esistono proprietà universali in
rem); il realismo modale di David K. Lewis (secondo cui i mondi possibili
esistono, esattamente come esiste il mondo attuale). Si fanno vedere anche le
opportunità di una forma (non necessariamente metafisica) di realismo modale per
la filosofia politica.