8 settembre 2025

La struttura ad albero del divenire temporale. Né determinismo né indeterminismo: il CONTINGENZIALISMO di Georg Henrik von Wright

 




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Inserendosi in una tradizione che si può far risalire ad Aristotele, von Wright (filosofo finlandese, 1916-2003) ha una posizione sulla struttura del divenire temporale che possiamo accostare (con differenze anche marcate) a C. S. Peirce, Bergson, A. Prior, N. Belnap, Lukasiewicz. A qualcosa di simile è anche approdato recentemente un filosofo della scienza che, a differenza di quanto ha fatto von Wright, si confronta sistematicamente con le teorie fisiche (relatività e meccanica quantistica), aggiornando la sua visione alle teorie più avanzate (in particolare, di recente, la gravità quantistica); la posizione di Dorato è però molto più articolata e raffinata, e non è riassumibile in breve. Mi limito qui a segnalare il suo libro più recente: M. Dorato, Il tempo. Cosa accade quando non accade nulla, Carocci editore, Roma 2024


La tesi di von Wright, che vorrei riproporre in versione semplificata ma sufficientemente completa, scaturisce invece da un’analisi concettuale e utilizza un modello ontologico molto simile a quello che si può ricavare dal Tractatus di Wittgenstein. Ritengo che la posizione di von Wright sia piuttosto equilibrata, adatta a rendere conto di molte convinzioni radicate nel senso comune, e utile anche a fare da sfondo per un approccio rilevante al tema del libero arbitrio. Va ricordato che von Wright si è occupato approfonditamente di questo tema in Freedom and Determination (Helsinki, The Philosophical Society of Finland, 1980; trad. It Libertà e determinazione, Pratiche Editrice, Parma 1984) e in Of Human Freedom, in The Tanner Lectures on Human Values, vol VI, University of Utah Press, Sal Lake City, pp. 107-70). Per una esposizione sintetica della filosofia di von Wright, mirata alla ricostruzione della sua posizione sulla libertà (con riferimenti alla sua teoria dell’azione e della causalità), mi permetto di rimandare al mio articolo “Georg Henrik von Wright”, in “AphEx 9”, 2014, pp. 34.


Il testo di riferimento, nel quale troviamo esposta la concezione del tempo che ci interessa qui ricostruire, è Causality and Determinism, Columbia University Press, New York 1974 (trad it. Causalità e determinismo, Faenza Editrice, 1981, traduzione di P. Allegri, con un saggio introduttivo di S. Besoli, di seguito abbreviato con CD)



Come “introduzione” al discorso più specifico sul decorso del divenire temporale inserisco una lunga citazione dall’edizione italiana di Causalità e determinismo che ci fa capire quale sia il tipo di approccio, anche metodologico, con il quale von Wright affronta il tema. Von Wright allude talvolta al fatto che il mondo abbia una sua struttura “profonda”, il cui reperimento è però un problema metafisico (ma oggi sarebbe forse più appropriato dire fisico… la fisica di oggi affronta in buona parte problemi che erano della metafisica tradizionale…) sul quale egli non vuole impegnarsi. Ma allora ci potremmo chiedere se il lavoro di analisi concettuale, per von Wright, abbia anche un potere conoscitivo che possa “affiancarsi” a quello delle scienze. Il brano seguente di von Wright può aiutarci a rispondere.


Pertanto appare legittimo, credo, domandarsi quali requisiti debbano soddisfare i fatti (il mondo) perché possa esistere un concetto di causazione almeno approssimativamente simile al nostro. I requisiti seguenti mi sembrano pertinenti.

Prima di tutto, il mondo deve approssimarsi fino ad un certo grado al modello dell’atomismo logico. Deve essere possibile riconoscere in esso esemplificazioni di stati di cose generici [corsivo mio] separabili concettualmente e verificazionalmente (…) Equivarrebbe a fare della cattiva metafisica affermare che “in realtà” non ci sono nel mondo né stati separabili concettualmente e verificazionalmente, né situazioni discrete, né alcuna ripetizione. (…) Ma sarebbe altrettanto sconveniente asserire metafisicamente che la realtà ha la struttura atomistico-logica del nostro modello di mondo. (…) Questa ed altre strutture ad essa alternative sono modelli cui “il mondo” può approssimarsi fino a un certo grado. E alcuni “frammenti” o “regioni” del mondo possono approssimarsi maggiormente di altri. Il grado di approssimazione si riflette nei concetti che abbiamo giudicato utile impiegare. In una regione del mondo in cui l’approssimazione è bassa, l’applicabilità dei concetti connessi con il modello diminuisce conseguentemente. (CD, pp. 70-71).



La nozione di “modello” indica una struttura concettuale sufficientemente articolata da rendere conto di un ampio insieme di fenomeni. Il problema sarebbe poi sapere se il mondo, nella sua struttura profonda (metafisica o fisica, che dir si voglia…) corrisponda a tale struttura. Come ho già detto sopra, però, questo problema non si può porre alla filosofia di von Wright, proprio perché egli evita esplicitamente di occuparsene.


Dobbiamo ricostruire brevemente alcuni concetti chiave del modello atomistico-logico utilizzato da von Wright, sulla cui base poi vedremo la sua concezione del tempo.


La nozione di evento è definita da von Wright come la transizione o il mutamento da uno stato di cose a uno stato di cose successivo nel tempo. Un evento è quindi anche definibile come


coppia ordinata di due stati di cose. La relazione d’ordine è una relazione tra due occasioni successive nel tempo. Non discuteremo in maggiore dettaglio la natura di tale relazione. Semplificando, indicheremo le due occasioni parlando della precedente e della successiva. L’evento “in quanto tale” è il mutamento o la transizione dallo stato di cose che si dà nell’occasione precedente a quello che si dà nell’occasione successiva. Chiameremo il primo lo stato iniziale e il secondo lo stato finale. (Norma e azione, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 66-7).




Della nozione di “stato di cose” non viene data una definizione. Essa viene introdotta tramite esempi.


Esempi di stati di cose potrebbero essere che il sole splende, o che una certa porta è aperta. Non chiarirò ulteriormente la nozione di stato di cose. Per i nostri scopi non è necessario considerare gli stati di cose come qualcosa di “statico”; qui anche processi, come uno scroscio di pioggia, possono essere considerati come “stati di cose”. (…) Gli stati di cose sono gli unici “mattoni ontologici costitutivi” del mondo che studiamo. Non penetreremo nella struttura interna di questi mattoni. (Spiegazione e comprensione, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 66 e pp. 68)


L’immagine del mondo che risulta da queste laconiche proposizioni di von Wright è simile a quella del Tractatus di Wittgenstein, al quale von Wright si richiama esplicitamente. Come ho già detto, von Wright dichiara anche di non volersi impegnare nella difficile questione metafisica (o fisica…) su come sia il mondo veramente:


“Il mondo”, ossia il mondo in cui di fatto ci troviamo, è un mondo-Tractatus (…)? Si tratta di una questione metafisica profonda e difficile, e non so come rispondervi (…). Tuttavia, indipendentemente dal modo in cui possiamo rispondere a tale questione metafisica, è innegabile che, come modello semplificato di un mondo, la concezione del Tractatus wittgensteiniano è interessante in se stessa, nonché utile come strumento nella filosofia della logica e della scienza. (Spiegazione e comprensione, cit., pp. 67-8)


Siamo adesso sufficientemente attrezzati per poter capire il discorso di von Wright sulla struttura del divenire temporale. 

Egli propone la sua concezione all’interno di una analisi del tema del determinismo. Vi è una coppia di formulazioni che, per la loro estrema generalità, possono servirci come punto di partenza per ricostruire il suo discorso. Esse sono:


D.1 “Ciò che è, doveva essere.”


D.2 “Ciò che accade, doveva accadere.”.


Tali affermazioni dicono in sostanza la stessa cosa, ma, si potrebbe dire, D.1 in senso “statico” e D.2 in senso “dinamico”. Se intendiamo il verbo “essere” in senso sufficientemente ampio, D.2 è contenuta in D.1.

Ciò che D.1 e D.2 affermano è che non c’erano altre possibilità; ciò che è, o ciò che accade, doveva necessariamente essere o accadere. Naturalmente il senso di questa tesi cambia a seconda del significato dei termini “possibilità” e “necessità”. Prima di mostrare in quali modi possono essere intesi questi termini, diamo corpo a D.1 e D.2 servendoci di un’immagine. Tale immagine è quella della storia del mondo come successione lineare, e viene costruita da von Wright utilizzando un modello del mondo di tipo atomistico-logico.

Partiamo dunque dall’ipotesi che il mondo sia costituito da un insieme di stati di cose elementari, che siano fra loro logicamente indipendenti e il cui numero sia finito e costante nel tempo. Immaginiamo che il tempo sia un trascorrere discreto di occasioni successive. Il fatto che il numero degli stati di cose sia finito fa sì che il mondo, in linea di principio, sia completamente descrivibile. Il mondo, considerato in una singola occasione temporale, consisterà in una combinazione degli n stati di cose elementari (combinazione che consiste nel fatto che ogni singolo stato può, in quella occasione, verificarsi o non verificarsi). Chiamiamo tale combinazione stato totale del mondo. La storia del mondo è la successione temporale degli stati totali del mondo. Anche gli stati totali, nel nostro modello, sono fra loro logicamente indipendenti: non vi sono dipendenze logiche nel tempo.


Ciò che è vero in un dato momento (qualsiasi) è logicamente indipendente da ciò che è vero in un altro momento (qualsiasi). Questo fatto lo si può considerare davvero uno dei più importanti e insieme problematici principi dell’atomismo logico (CD, p. 48)


Se consideriamo lo stato totale del mondo “ora”, nel presente, possiamo dire che, per quello che riguarda la logica, il mondo potrà trovarsi, nell’occasione immediatamente futura, in uno qualsiasi degli stati totali logicamente possibili. Se il numero degli stati di cose elementari è n, il numero degli stati totali possibili è 2 alla n (2 elevato n).

Esemplifichiamo. Supponiamo che il mondo sia costituito solo da tre stati di cose elementari: a, b, c. Essi possono, in una qualunque occasione data, verificarsi o non (¬) verificarsi, indipendentemente uno dall’altro. Il numero delle combinazioni possibili è 2 alla terza: 8. Presento qui una tabella di questi otto stati totali possibili:


            1.     a b c

            2.     ¬a b c

            3.     a ¬b c

            4.     a b ¬c

            5.     ¬a ¬b c

            6.     a ¬b ¬c

            7.     ¬a b ¬c

            8.     ¬a ¬b ¬c


La storia del mondo, dall’occasione “ora” alla prossima occasione temporale, può essere rappresentata così:





 


Il pallino nero rappresenta lo stato totale del mondo ora. Gli otto pallini bianchi sono gli otto stati totali che il mondo può (logicamente) assumere nella prossima occasione.

Rispetto ad una situazione come quella descritta sopra, la posizione di un determinista (che affermi D.1 o D.2) sarebbe la seguente. Egli, probabilmente, non negherebbe che, per quanto riguarda le possibilità logiche, la storia del mondo potrebbe avere queste otto alternative nel futuro. Ma direbbe anche che, per quanto riguarda le possibilità reali, la situazione è la seguente.






Cioè non vi sono, in realtà, possibili alternative. Dato che il determinista ripeterebbe la stessa cosa per ogni occasione temporale, l’immagine della storia del mondo che egli ci propone è questa (prescindo qui dal problema se il tempo abbia o no un inizio e una fine. L’immagine è relativa a un segmento della storia del mondo):






A sinistra vi è il passato, a destra vi è il futuro. Ogni pallino rappresenta lo stato totale del mondo in una occasione temporale. Questa immagine rispecchia l’idea contenuta in D.1 e in D.2.

Le tesi D.1 e D.2 rappresentano ciò che vi è di comune nelle tesi deterministiche forti; considerate in sé, risultano essere gratuite, prive di nocciolo argomentattivo. In realtà tali tesi non si presentano mai da sole, ma sono sempre accompagnate da altre tesi. D.1 e D.2 sono, in genere, implicate dal determinismo causale oppure dal determinismo per pre-conoscenza. Del determinismo per pre-conoscenza (legato o a credenze religiose quali l’onniscienza divina o a considerazioni strettamente logiche sul concetto di verità) rinuncio qui a ricostruire la trattazione di von Wright. Mi concentro invece sul determinismo causale, che è quello più diffuso e ancora presente soprattutto in ambito scientifico. Una formulazione generica del determinismo causale è la seguente:


D.3 “Tutto ciò che accade ha una causa.”


Tale proposizione richiede un’interpretazione. Von Wright mostra come vi siano perlomeno tre interpretazioni diverse. La più importante (la sola che qui ricostruiamo) è quella che coincide con il determinismo causale “classico”, ovvero il determinismo che nasce nel XVII secolo come conseguenza della rivoluzione scientifica. Nella formulazione di von Wright, la tesi fondamentale di questo determinismo dice:


D.4 «Nessun mutamento può mai verificarsi, a meno che non avvenga come componente-effetto dell’occorrenza di una data legge causale» (CD, p. 98)


Ogni mutamento (ogni evento) è determinato, nel senso che una sua condizione sufficiente è operativa ogni volta che esso si verifica. La nozione di “legge causale” va intesa semplicemente come l’affermazione di una connessione nomica (che ha carattere di legge; da νόμος, «legge» in greco) fra due eventi generici.

Qual è la connessione fra D.4 e la tesi della linearità della storia del mondo? Se la storia futura del mondo presentasse delle alternative ontiche, ovvero degli sviluppi alternativi che siano realmente possibili, ciò significherebbe che alcuni mutamenti accadono senza avere una causa. (Ciò però non significa che non esista un loro antecedente temporale e/o contiguo nello spazio, ma solo che non esiste una connessione necessaria fra i due eventi: l’evento C ha provocato l’evento D, ma solo in quella circostanza, e avrebbe potuto provocare anche gli eventi E, F, ecc, che in quella circostanza non si sono verificati ma avrebbero potuto accadere.) Questi mutamenti sarebbero contingenti, in un senso non solo logico: sarebbero causalmente contingenti. Ora, siccome D.4 nega che possano darsi mutamenti di questo tipo, deve anche negare che esistano alternative reali nella storia futura del mondo. D.4 implica D.2 e D.1.

Chiarito in cosa consiste il determinismo causale, e chiarito che esso corrisponda a una visione “lineare” del divenire temporale, vediamo adesso, finalmente, qual è la concezione di von Wright sul divenire temporale. Von Wright non è né determinista, né indeterminista. Presentiamo la sua posizione subito attraverso un’immagine (una rielaborazione dell’immagine che lui stesso fornisce a p. 57 dell’edizione italiana di Causalità e determinismo)









Vediamo qui la storia del mondo in cinque occasioni successive. Notiamo che dopo il pallino nero, cioè lo stato totale del mondo ora, vi è una struttura ad albero. Ciò significa che il futuro è aperto. Tale apertura non è intesa in senso logico. Non si sostiene, cioè , che quelle siano le storie che sono logicamente possibili. Esse sono le alternative che sono realmente possibili, cioè possibili tenendo conto della causalità. Von Wright le chiama “alternative” causali”. Rispetto alle alternative logicamente possibili, quelle causalmente possibili sono sicuramente di meno. La causalità pone delle restrizioni alle possibilità logiche di sviluppo. Se la causalità fosse onnipresente, come abbiamo visto, non esisterebbero più alternative realmente possibili.

Il fatto che, nonostante si tenga conto della causalità, siano presenti delle alternative reali, è dovuto all’idea che non tutti gli eventi sono parte di una relazione causale; non essendo parte di una relazione siffatta, essi possono (realmente) accadere, ma possono (realmente) anche non accadere. Per quello che riguarda la causalità, essi sono contingenti. Il futuro, quindi è onticamente aperto. “Onticamente” nel senso che tale apertura non è dovuta alla nostra ignoranza di cause che invece esistono: non si tratta di un’apertura epistemica

Il passato, invece, è onticamente chiuso: esso presenta una forma lineare. Le linee tratteggiate mostrano però che, anche per le occasioni passate, è giusto dire che vi erano delle alternative realmente possibili. Esse sono state “bruciate” nel corso della storia del mondo.

Una posizione come questa non può definirsi indeterminista. Un indeterminista sostiene che le alternative realmente possibili coincidono con le alternative logicamente possibili. In altri termini, non vi sono restrizioni alla “libertà” logica di sviluppo del  mondo. La posizione di von Wright, invece, consiste nel tenere conto della causalità, ma nel ritenere che essa non abbracci tutto il campo degli eventi naturali.


17 agosto 2025

Soggetto, "io puro", tempo, "presente esteso" in Husserl ricostruiti da Giovanni Piana, con annessa confutazione dell'empirismo e del trascendentalismo

 




Che cos’è il soggetto? Cosa sono io? Io, inteso però non come soggetto personale: occorre distinguere fra “io personale” e “io puro”: soltanto un soggetto, un soggetto vuoto di contenuti personali.(1)

(1)Indagando su questo io puro, operiamo un’astrazione anche dal corpo, ma non dobbiamo dimenticarci di questa operazione, altrimenti l’io puro si trasforma in un mitico e misterioso “Soggetto assoluto”.

Il testo di questo post è una sintesi rielaborata tratta da 

G. Piana, I problemi della fenomenologia, ed. orig. Mondadori, Milano 1966, oggi reperibile nel sito Archivio Piana in un’edizione curata da Vincenzo Costa ed immessa nel sito nell’aprile 2000. Si veda il capitolo IV: L’esperienza del tempo.

L’io puro non viene indagato in se stesso, ma come il punto in cui ha origine la molteplicità dei sui atti e il punto in cui convergono gli stimoli che il soggetto riceve passivamente o ai quali reagisce. L’io è centro di “irradiazione” (azioni, prese di posizione) e di “convergenza” (affezioni, emozioni, passioni).

Ma in che senso gli atti sono unificati fra loro? In che senso il soggetto è uno? Nella molteplicità dei suoi atti, il soggetto resta identico. Il senso di questa identità esprime il rapporto del soggetto con se stesso, in quanto polo permanente dei suoi atti. Ciò avviene nella riflessione, il rivolgersi a se stesso dell’io. Nell’agire, io sono fuori dal campo dell’attenzione, che è concentrata sull’oggetto. Nella riflessione, io divento tema di me stesso.

Ma questo implica una differenza temporale tra il soggetto che riflette ora e il soggetto tema della sua riflessione, che era riflettente poco fa. Io, ora, mi identifico con il soggetto che era riflettente poco fa. Il soggetto si costituisce riflessivamente, come un’identità riflessiva, ma l’identità non è già data come permanente; il soggetto si mantiene identico in un processo temporale di identificazione.

Emerge così il problema del tempo: in che senso il soggetto è temporale? Che cosa è il tempo?

L’idea “naturale” del tempo si è formata partendo dall’analogia con lo spazio, e si presenta come “un succedersi di punti temporali” disposti secondo una linea che dal passato attraversa il presente e “punta sul futuro”. 

Questa teoria naturale viene messa tra parentesi.(2)

(2) Anche le teorie scientifiche vengono, in questo contesto della fenomenologia husserliana, messe fra parentesi. Piana dice esplicitamente che per la ricerca filosofica fenomenologicamente intesa, non può essere normativo il patrimonio scientifico positivo. È possibile un confronto diretto con le teorie scientifiche, che richiederebbe ricerche costitutive specifiche, ma ciò appartiene a un ambito di problemi che non vengono presi in considerazione in questo contesto.

Husserl sviluppa la sua concezione del tempo discutendo teorie filosofiche a lui contemporanee, in particolare quella di Brentano, secondo cui non vi è alcuna esperienza in cui il tempo ci sia dato come tale; il tempo si presenta come durata delle cose o degli eventi, come una loro qualità. Quindi occorre studiare il fenomeno dell’oggetto che dura, dobbiamo analizzare l’esperienza dell’oggetto temporale. 

L’esempio migliore di oggetto temporale è quello di un suono, una nota musicale che rompe il silenzio, perdura per un po’, si spegne lasciando tornare il silenzio. Nel silenzio, il suono ascoltato permane ancora nel mio ricordo, poi scompare anche da esso. 

In tutta la durata del suono, io ero sempre nell’ora: “ora sento un suono all’inizio”, “ora sento il suono iniziato che dura”, “ora il suono finisce”. “Ora” non è un istante temporale, né percepisco un succedersi di istanti temporali, ricomponendoli poi in un’unità. Nel corso della durata, ho esperienza del suono come un’unico suono, come una totalità che dura, in un presente che permane costantemente presente. All’istante finale (percepito come punto-ora) ho la coscienza di tutta la durata come trascorsa. L’istante iniziale viene ritenuto per tutta la durata del suono. L’ora stesso è durata, è un flusso, un continuum temporale.

Occorre allora distinguere tra il ricordo e la ritenzione. Il ricordo è la rievocazione di un evento completamente trascorso, in cui l’evento si dà in una rappresentazione immaginativa: il passato “non è reale” (non esiste più). La ritenzione è il mantenere nell’attualità della percezione la fase anteriore appena passata: vi è una modificazione, ma all’interno della percezione attuale stessa: non vi è il passaggio dalla realtà del presente all’irrealtà del passato.

Analogamente alla ritenzione, ma proiettata in avanti, invece che indietro, è la protenzione, l’anticipazione in cui si costituisce una dimensione temporale futura: l’impressione originaria anticipa sempre una nuova impressione originaria. Sul tema della protenzione sono illuminanti le sezioni 11-13 del capitolo II, intitolato “Il ricordo”, di un altro libro di Piana: Elementi di una dottrina dell’esperienza. Qui Piana ragiona su un un esperimento mentale:

Supponiamo allora di assistere ad un processo che si svolge nel tempo, ad esempio al movimento di una pallina che scorre sulla superficie di un tavolo. (…) Converrà inoltre assumere che la pallina possa muoversi come le pare – un’assunzione a cui non è necessario dare concretezza dal momento che essa ci serve soltanto per mettere fuori gioco le attese motivate dallo sfondo esperienziale.



il decorso attuale viene sopravanzato da un’immagine di decorso a venire che è l’immagine del decorso passato. Si comincia così a delineare un’interpretazione della regola secondo cui il passato proietta sul futuro la propria immagine.


Piana chiarisce che si tratta sempre di esperienze di eventi, e non di eventi in genere. «Perciò quando diciamo che il futuro viene atteso come simile al passato oppure che l’iterazione dell’esperienza rafforza l’attesa, queste formulazioni non debbono essere intese come se enunciassero una sorta di postulato di uniformità ontologica.». 
La cosa interessante, di carattere filosofico più generale, è che con questo discorso Piana arriva alla chiara distinzione tra «le attese la cui base è nel presente stesso e le attese la cui base si trova nelle esperienze passate» e forte di questa distinzione avanza una confutazione della “tesi fondamentale dell’empirismo”, ovvero la tesi «secondo cui ogni attesa percettiva sarebbe dovuta all’abitudine», che può essere considerata «come un caso particolare della tesi secondo cui ogni unificazione, ogni sintesi – quindi in generale ogni formazione oggettiva – avrebbe il proprio fondamento nell’esperienza passata.»

La tesi fondamentale dell’empirismo è assurda perché contiene un circolo vizioso: sulla base della contiguità o della somiglianza possono indubbiamente sorgere “abitudini” associative. Ma proprio per questo non può darsi il caso che rapporti di somiglianza e di contiguità sorgano a loro volta sulla base di abitudini associative. (…) L’esperienza presente esibisce modi di organizzazione senza che altre esperienze siano necessariamente presupposte. (…) Di fronte a ciò è interessante notare che l’ammissione di “sintesi a priori” come una intelaiatura presupposta nel soggetto che effettua l’esperienza, come momenti soggettivi di strutturazione dei dati – in breve, il punto di vista trascendentalistico – mentre si presenta come un tentativo di confutazione radicale della tesi empiristica, avendo di mira le sue conseguenze “catastrofiche” nell’ambito di una dottrina della scienza,  in realtà si appropria di almeno un aspetto che è ad essa essenziale. Le necessità strutturanti debbono risiedere nel soggetto a titolo di condizioni di possibilità proprio perché, se da un lato si riconosce che esse debbono essere costitutive nel rapporto dell’esperienza, dall’altro si ammette come ovvio che esse siano esterne ai suoi materiali. Alla soggettività psicologica subentra così la soggettività trascendentale. Nel sostenere le necessità dell’esperienza seguiamo evidentemente una via molto diversa e dalle nostre considerazioni possiamo trarre argomenti anche contro il punto di vista trascendentalistico.

In altri termini, Piana mostra come sia Hume sia Kant, pur nella differenza delle loro impostazioni, abbiano entrambi una concezione che si basa sull’idea che il materiale concreto dell’esperienza sia di per sé completamente destrutturato, caotico, una sorta di pulviscolo di singoli dati sensibili irrelati tra loro. Contro questa impostazione, la prospettiva dello strutturalismo fenomenologico (che Piana elabora a partire da Husserl), mostra come l’esperienza sia invece già strutturata (almeno in parte) dal lato oggettivo: decorsi percettivi si differenziano tra loro per differenze di struttura, e impongono al soggetto di trarne conseguenze categoriali, concettuali.





13 agosto 2025

Alexius MEINONG, "Teoria dell'oggetto" (1904). Appunti di lettura

 


La lettura di Meinong, di questo saggio del 1904 in particolare, ma anche dello scritto Presentazione personale (o Autopresentazione, che uscì postumo nel 1921 ed è contenuto nell'edizione Quodlibet 2003), ha un valore (lo ha avuto per me, ma penso sia un effetto che faccia a tutti i lettori) che definirei liberatorio. Assistiamo qui a una mente che si confronta con spazi di pensiero vastissimi, e che cerca di "delimitare" i confini di una nuova scienza che sembra così vasta da poter abbracciare l'infinito stesso, tutto il pensabile e anche di più, l'impensabile, l'inimmaginabile... Va inoltre detto, come scrive Raspa nel suo saggio su Meinong in AA.VV., Storia dell'ontologia (Bompiani 2008), che Meinong "stimolò in maniera decisiva la riflessione logico-filosofica del primo Russell" ed infatti è proprio in polemica con Meinong che Russell scrive il saggio fondamentale On Denoting (1905). «Il problema di prendere una posizione sulla non-esistenza di qualche oggetto, o distinguere fra cose esistenti e cose non-esistenti, è uno dei più discussi nella filosofia analitica recente. In realtà, in un certo senso è anche il problema che ha dato origine alla filosofia analitica, che è stata ispirata dall’influente saggio di Russell On denoting.» scrive Franca D'Agostini in The Last Fumes, cap. 9, sez. 2, traduzione mia (F. D’Agostini, The Last Fumes. Nihilism and the nature of philosophical concepts, The Davies Group Publishers, Aurora (Colorado) 2008)

La traduzione italiana che ho letto è quella dell'edizione Quodlibet 2003, a cura di Emanuel Coccia.

In questi appunti di lettura riproduco la struttura del testo, riformulandone il contenuto in maniera spesso molto ravvicinata. Nel caso vi siano citazioni vere e proprie, queste sono messe tra virgolette. Nel caso di mie riflessioni, domande, interpolazioni, queste sono messe tra parentesi quadre.


1. IL PROBLEMA

L'atto del conoscere implica che vi sia un OGGETTO conosciuto.

L'atto del giudicare che vi sia un OGGETTO giudicato.

L'atto del rappresentare che vi sia un OGGETTO rappresentato.

Più complicato dire la stessa cosa per i sentimenti... ma volere implica un OGGETTO voluto; desiderare implica un OGGETTO desiderato; sentire gioia implica che ci sia qualcosa di cui/per cui il soggetto gioisce...

Ora: a chi spetta l'elaborazione scientifica di simili oggetti in quanto tali?

[Meinong dice anche, in questo primo paragrafo, «(...) che questo particolare “essere orientato a qualcosa” convenga all'accadere psichico (...)».  Va ricordato che Meinong (Leopoli 1853 - Graz 1920) fu allievo di Brentano, i cui corsi a Vienna frequentò a partire dal 1875/76, ma, scrive Venanzio Raspa nel suo contributo su Meinong ("Teoria dell'oggetto") in Storia dell'ontologia (a cura di M. Ferraris, Bompiani 2008): «Verso la fine degli anni Ottanta comincia a incrinarsi il suo rapporto con Brentano». È significativo infatti che pur richiamando la teoria dell'intenzionalità di Brentano, qui Meinong non lo nomini. Per un inquadramento culturale e filosofico di Meinong rimando al testo di Raspa appena citato. Per uno sviluppo contemporaneo delle tesi fondamentali di Meinong, riassumibili nella distinzione tra essere ed esistere e nell'idea che ci sono cose che non esistono, si veda F. Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma-Bari 2010. Berto sviluppa una teoria definibile come meinonghianismo modale, ma la Parte prima del libro, intitolata "Breve storia di un antico errore" è dedicata a ricostruire, punteggiandola con continue critiche, tutta la vicenda della concezione predominante sul significato di “essere” (da Parmenide a Quine). Il libro di Berto sviluppa poi questo punto di vista meta-ontologico alternativo a quello standard, dandogli un solido apparato formale e mostrando come possa rivaleggiare con la teoria standard sul piano della risoluzione di importanti problemi logico-ontologici.]


2. IL PREGIUDIZIO A FAVORE DEL REALE

Una scienza dell'oggetto del conoscere (l'atto del conoscere si può considerare il significato primario degli atti psichici) sarebbe una scienza costituita dalla TOTALITÀ delle scienze? Compirebbe quanto TUTTE le scienze insieme comunque realizzano? 

La scienza a cui spetta la trattazione dell'oggetto in quanto tale (o degli oggetti nella loro totalità) è la metafisica? No, perché la metafisica punta alla totalità di ciò che esiste, ma

«la totalità di ciò che esiste, con inclusione di quanto è esistito e di quanto esisterà, è infinitamente piccola se paragonata alla totalità degli oggetti della conoscenza» [Ho provato un forte piacere intellettuale, quasi fisico, nel leggere questa frase]  perché il forte interesse per il reale, che appartiene alla nostra natura, «porta all'eccesso per cui si considera il non-reale come un puro nulla (...)» ma ciò è un errore, in quanto GLI OGGETTI IDEALI "consistono" [bestehen] ma non esistono affatto, quindi non possono essere reali. Esempi: UGUAGLIANZA, DIVERSITÀ, I NUMERI [da distinguere rispetto a ciò che è numerato: «si può contare anche ciò che non esiste»], CONNESSIONE.

La connessione tra cose esistenti congiunge l'essere di queste cose, o il loro non-essere, non le stesse realtà.

L'essere o il non-essere di qualcosa sono un genere particolare di oggetti, che si trovano davanti a giudizi o assunzioni.

Definisco "Oggettivo" come: oggetto di un giudizio. Esempio: "È vero che ci sono antipodi". La verità è attribuita non agli antipodi, ma all'oggettivo "ci sono antipodi".

[Gli "oggettivi" consistono]

L'esistenza (di X) può consistere, ma non può esistere di per sé.

«ogni conoscenza che ha per oggetto un oggettivo rappresenta (...) un caso di conoscenza di un non-esistente» (p. 25)

«L'essere a cui la matematica in quanto tale deve interessarsi non è mai l'esistenza e mai essa si spinge in questo senso oltre la consistenza».

Se i matematici parlano dell'esistenza dei loro oggetti, in realtà usano "esistenza" nel significato solitamente attribuito a POSSIBILITÀ, dando un forte accento positivo a questo concetto (mentre generalmente lo si caratterizza in senso negativo)

[Vale anche per Penrose? Vedi l'inizio di La strada che porta alla realtà]


3. ESSER-COSÌ E NON-ESSERE

«(...) Ciò che è destinato ad essere oggetto di conoscenza non deve necessariamente esistere.»

Il pensiero può avere due funzioni: una funzione TETICA e una funzione SINTETICA. Nella funzione tetica il pensiero coglie un essere [un oggetto reale]. Nella funzione sintetica il pensiero coglie un esser-così (Sosein[una proprietà].

Sarebbe errato credere che si possa parlare di un esser-così soltanto presupponendo un essere: le figure geometriche non esistono, e tuttavia le loro proprietà, cioè il loro esser-così, possono essere osservate.

PRINCIPIO DI INDIPENDENZA DELL'ESSER-COSÌ DALL'ESSERE: l'esser-così di un oggetto non è affatto coinvolto dal non-essere di questo.

[anche gli oggetti della finzione hanno proprietà; ne parla diffusamente Berto nel libro sopra citato]

A questo principio sottostanno anche gli OGGETTI IMPOSSIBILI , che non possono esistere. (che è diverso da dire "che di fatto non esistono"). Es.: la montagna d'oro è d'oro; il quadrato rotondo è rotondo ed è quadrato.

«un qualsiasi non-ente deve essere in grado di costituire l'oggetto per lo meno per i giudizi che colgono questo non-essere»

«Chi ama espressioni paradossali potrebbe ben dire: ci sono oggetti per i quali vale che siffatti oggetti non ci sono» (p. 28).


4. IL FUORI-ESSERE DELL'OGGETTO PURO

L'essere di X, così come il non-essere di X, sono "oggettivi".

L'OGGETTIVO sta dinanzi al suo oggetto, come (similmente) [chiamiamola analogia Y] il TUTTO sta dinanzi alla parte. MA: Se il TUTTO è, deve essere anche la PARTE. Trasposto all'OGGETTIVO: Se l'OGGETTIVO è, anche l'OGGETTO che gli appartiene dovrà in un certo senso essere, MA questo essere non è né ESISTENZA né CONSISTENZA: è una sorta di "terzo livello", un "essere" che dovrebbe essere attribuito ad ogni OGGETTO, cui non si potrebbe contrapporre un non-essere dello stesso livello.

L'analogia Y [vedi sopra] non vale per OGGETTIVI DI NON-ESSERE, ovvero: «l'essere dell'oggettivo non dipende in alcun modo dall'essere del suo oggetto» (p. 31).

L'opposizione di ESSERE vs NON-ESSERE riguarda l'OGGETTIVO, non l'OGGETTO: 

«nell'oggetto di per sé non può porsi essenzialmente né essere né non essere»

PRINCIPIO DEL FUORI-ESSERE (Außersein) DELL'OGGETTO PURO: «l'oggetto è per natura fuoriessente (außerseind) sebbene in ogni caso dei suoi oggettivi d'essere, il suo essere o il suo non-essere, ne CONSISTA necessariamente uno.»

[Ma Meinong dice anche che non si dà una terza possibilità tra essere o non essere di un oggetto: «Ciò non significa naturalmente che un qualche oggetto potrebbe né essere né non-essere» (31). Meinong distingue esistenza (oggetti reali) e consistenza (oggetti ideali) ma la consistenza equivale a non-esistenza: gli oggetti ideali sono ma non esistono. Quindi distingue sostanzialmente tra essere ed esistere.]


5. LA TEORIA DELL'OGGETTO COME PSICOLOGIA

La Teoria dell'Oggetto  [da qui in poi TDO] non può essere la psicologia.


6. TDO COME TEORIA DEGLI OGGETTI DELLA CONOSCENZA

Ci sono oggetti anche dei giudizi falsi, delle rappresentazioni, e dei vissuti extra-intellettuali, MA TUTTI gli oggetti (in linea di principio, potenzialmente) sono conoscibili.


7. TDO COME LOGICA PURA

Rimanda alle Ricerche logiche di Husserl per la nozione di "logica pura", ma preferisce NON attribuire ad essa i compiti di una TDO. Perché? Perché la logica rimane in ogni caso una "disciplina pratica". Se purificata da ogni intenzione pratica, non la chiamerebbe più LOGICA.Concorda con l'anti-psicologismo di Husserl, MA: «i concetti non sono forse essi stessi delle rappresentazioni, elaborate magari a fini teoretici, ma comunque rappresentazioni?».


8. TDO COME TEORIA DELLA CONOSCENZA

La conoscenza è un vissuto (quindi il punto di vista della psicologia non può essere bandito dalla gnoseologia), MA dinanzi alla conoscenza sta IL CONOSCIUTO. "Psicologismo" è trascurare questo e risolvere tutta la tematica del conoscere nell'evento psichico.

«(...) la psicologia del conoscere dovrà costituire sempre una parte integrante della gnoseologia. Egli  [chi voglia evitare di cadere nello psicologismo] dovrà solo evitare di prender per psicologia quanto nella teoria della conoscenza è e deve rimanere TDO» (p. 43)

La teoria della conoscenza apre le strade giuste, coltiva i giusti interessi, verso lo sviluppo della TDO, ma questa ha una sua specificità.


9. TDO COME SCIENZA AUTONOMA

La matematica non è che una parte della TDO. La matematica compie nel suo ambito ciò che la TDO deve porsi come compito da realizzare per l'ambito globale degli oggetti. La TDO rivendica il rango di scienza assolutamente autonoma, anche se al momento si tratta di qualcosa di appena abbozzato.

[Ma allora, se la TDO include la matematica, non include anche la metafisica e la fisica?]


10.  LA TDO NELLE ALTRE DISCIPLINE. TEORIA GENERALE E SPECIALE DELL'OGGETTO

La TDO in linea di massima è una scienza che non esiste ancora: «soprattutto come disciplina speciale espressamente riconosciuta nella sua legittimità, attualmente non esiste affatto» (p. 46).Tuttavia essa è stata di fatto praticata in modo implicito in altre discipline. Problemi specifici della TDO sono stati affrontati sia in riferimento ad ambiti oggettuali specifici, sia in riferimento alla totalità degli oggetti. È presente, come teoria speciale, nella MATEMATICA e nelle sue applicazioni ad ambiti extra-matematici, per esempio con la dottrina delle probabilità, con la teoria dell'errore, con la dottrina combinatoria, con la logica matematica, con la logica non matematica (da Aristotele in poi).


11. FILOSOFIA E TDO

La TDO appartiene alla filosofia. Qual è la sua posizione rispetto alle altre "discipline filosofiche"?

La TDO è «vicina» alla metafisica. La metafisica ricerca la massima universalità possibile «nel senso di un ambito di validità il più ampio possibile dei suoi princìpi». 

La metafisica comprende l'inorganico, l'organico e lo psichico. Ma dal momento che «non esiste nulla nel mondo che non sia né fisico né psichico» ciò significa che la METAFISICA è la scienza della totalità del REALE. 

Ma UGUAGLIANZA e DIVERSITÀ si situano fuori del reale, e sono problemi compresi nella TDO. 

Ipotesi: che la metafisica sia la scienza generale del reale e la TDO la scienza generale del non-reale. L'ipotesi è troppo restrittiva, perché la TDO comprende anche gli oggetti reali.

La TDO comprende: oggetti REALI, oggetti CHE CONSISTONO (= IDEALI), oggetti INCONSISTENTI (= ASSURDI).

Dal punto di vista metodologico si può fare questa distinzione: vi sono CONOSCENZE A PRIORI dell'oggetto, che sono di competenza della TDO, e vi sono CONOSCENZE EMPIRICHE dell'oggetto, che sono di competenza della metafisica. Precisando però che «non tutto ha da essere esperito direttamente e si può altresì concludere dall'esperito al non esperito, tutt'al più anche al non-esperibile» (p. 57)


12. CONCLUSIONI

[estraggo solo una notazione metodologica che mi pare interessante, dato che il paragrafo riguarda solo riflessioni sul rapporto del presente saggio rispetto a ricerche precedenti di M. o collegate, di altri autori]

«da anni io seguo ed insegno quale principio fondamentale della ricerca la regola seguente: prima osservare e riflettere e solo in seguito leggere [la letteratura già esistente sull'oggetto della ricerca]» (p. 64)