Riporto di seguito il testo di un articolo di Lucio Caracciolo (nel titolo dell'articolo link diretto alla pagina web, per chi vuole andare alla fonte) su Limes online.
Vorrei evidenziare un passaggio che mi sembra molto interessante: il cosmopolitismo e le utopie universalistiche sono deboli perché è "Difficile amare tutti".
Cioè, aggiungo io, più ci si allontana dal nucleo della coppia o della famiglia, più è difficile amare; si può riuscire ad amare i nostri connazionali, a sentire un senso di appartenenza, di identità, con la propria "patria", ma è veramente difficile riuscire a sentire, a provare, amore per l'intera umanità. Ma questa sarebbe la salvezza, sarebbe la soluzione di molti problemi. Può esserci una propedeutica a questo sentimento? Si può imparare ad amare? Non solo un'altra persona...
Al discorso di Caracciolo è collegata una conferenza organizzata da Limes dal titolo The power of love, che ha accompagnato il lavori collegati alla pubblicazione del numero di Limes Chi comanda il mondo.
In questa conferenza l'intervento di Umberto Galimberti ha posto al centro la correlazione tra amore e follia (intesa come dimensione irrazionale che sottostà alla ragione in tutta la cultura occidentale): amare significa riuscire a comprendere la "follia" dell'altro, e essere amati significa sentire che l'altro intercetta la propria follia. Ha anche, in generale, sottolineato l'importanza della "simbolica" come dimensione irrazionale di significati che stanno alla base anche delle identità dei popoli. Da approfondire il riferimento a Platone (Fedro, 244 a) e la tesi che "la guerra è sacra", nel senso che attinge anche questa a una dimensione irrazionale... La tesi conclusiva di Galimberti è che solo attraverso l'amore riusciamo a comprendere le basi simboliche dei popoli e quindi a superare veramente i conflitti.
Ma, come abbiamo detto prima, è molto difficile "amare tutti" così come è difficile amare un intero popolo...
Se l'amore è un fattore geopolitico
A muovere gli attori e le potenze geopolitiche non è sempre e solo il calcolo dell’utile: l’identità è oggi una posta geopolitica decisiva. Al Quarto Festival di Limes a Genova, una riflessione su the power of love.
Il mondo non risponde più ai comandi.
Mai come oggi il potere è disperso in un pianeta senza centro, sovraffollato e turbolento.
Certo, l’America resta il Numero Uno per la strapotenza militare, ”l’esorbitante privilegio” del dollaro, l’innovazione tecnologica. Ma più che a un sovrano universale, somiglia a un primo della classe annoiato e irritato, preoccupato che meno dotati compagni gli copino il compito e gli rubino il voto.
Dopo due decenni di retorica americana della globalizzazione, Donald Trump è più preoccupato di costruire muri e tagliare ponti per difendersi dal mondo che di consolidarvi ed estendervi l’impero americano. Perché «non sono stato eletto dal resto del mondo, non esiste una bandiera mondiale né un inno mondiale». Con ciò il presidente esprime un sentimento diffuso nell’America profonda.
Quanto all’altro, originario ceppo dell’Occidente: l’Europa rischia la disgregazione, avviata dal voto britannico sul Brexit. Eppure solo un secolo fa era il centro del potere planetario. Nove decimi delle terre abitate erano rette da europei o loro discendenti. E l’umanità era segmentata in gerarchie razziali, con i bianchi europei in vetta e i neri (allora negri) in fondo all’abisso.
Sulla competizione per il potere in questo mondo da sette miliardi e mezzo di anime si concentra a Genova, da domani a domenica, il quarto Festival di Limes. Titolo: “Chi comanda il mondo”. In altre parole: quale potenza dominerà questo secolo – ancora l’America? O toccherà alla Cina? O semplicemente a nessuno?
Vent’anni fa ci veniva spiegato che la storia è finita. Tipica espressione della vichiana «boria dei dotti». Oggi scopriamo che non solo non è finita, ma corre al galoppo. Proprio perché il mondo attuale è fuori sesto, ingovernabile da un solo centro di potere, vale la pena concentrarsi anche sulle passioni che lo agitano.
A muovere attori e decisori non è solo né sempre il calcolo dell’utile. Le teorie della scelta razionale, per cui a motivarci è la valutazione dei costi e dei benefici che ci attendiamo dalle nostre azioni, non sono sufficienti a dar conto delle dinamiche geopolitiche che mettono in crisi paradigmi consolidati.
Il segnale che ci viene dal Brexit e da Trump, dalle mischie etniche e dalle guerre a sfondo religioso, è che posta geopolitica decisiva è oggi l’identità. E non c’è identità senza amore di sé e della propria comunità: la patria. Altrimenti perché dovremmo distinguerci dagli altri? Popoli e nazioni, o aspiranti tali, si battono per il diritto a preservare o affermare le rispettive idee di sé.
Entriamo nel campo del sentimento. È l’amore per il proprio insieme – e/o l’odio per l’altrui – a motivare gruppi, comunità e nazioni nelle loro battaglie geopolitiche. Quando Trump proclama «Io amo l’America» o Putin si lascia andare alla commossa rievocazione delle glorie russe, in nome delle quali qualsiasi sacrificio è dovere, non è solo propaganda.
Senza la sincera adesione a un sentimento patriottico è impossibile mobilitare il consenso necessario a qualsiasi potere, persino – o tanto più – se autoritario.
Ne sappiamo qualcosa noi italiani, usi a relegare l’amor di patria fra le retoriche del passato, con il risultato di renderci istintivamente disponibili alla guida altrui. Espressione di quella «porca rogna italiana del denigramento di noi stessi» contro cui si scagliava Carlo Emilio Gadda nel suo Giornale di guerra e di prigionia.
Non si intende la teoria e la prassi italiana del “vincolo esterno” – ovvero lasciamo che siano i virtuosi europei a imporci le giuste regole da cui spontaneamente scarteremmo – senza considerare questa anti-passione nostrana. Non stupisce che un paese indisponibile a rispettarsi sia poco rispettato.
Proprio perché le passioni contano, pesano più che mai nelle opinioni pubbliche e orientano le scelte dei decisori più di quanto essi siano disposti ad ammettere, ne consegue che il mondo attuale è sempre meno prevedibile. Imbracarlo nelle teorie preconfezionate, nei modelli universali significa perderne di vista alcune tendenze di lungo periodo, espresse ad esempio nella letteratura.
Si può intendere l’impero russo senza leggere Puškin, quello britannico scartando Conrad o quello americano trascurando il Fitzgerald del Grande Gatsby?
Nella geopolitica delle nazioni contemporanee la potenza dell’amore si rivela, fra l’altro, nel culto del proprio passato. Passione collettiva, non solo individuale. Per cui si riscoprono o si inventano antichissime, epiche genealogie, che confermerebbero il diritto di una comunità a questo o quello spazio. Sono simili passioni a muovere “il desiderio di territorio”, titolo dell’opera pionieristica di uno studioso francese delle identità, François Thual.
Quindi anche la volontà di impero, che secondo lo storico americano William Langer – in polemica con le interpretazioni economiciste dell’espansionismo Usa – dimostra «la sopravvivenza nella società moderna di un’esausta mentalità feudal-militaristica, votata alla conquista per la conquista, senza specifico obiettivo o limite».
Questi sentimenti atavici contribuiscono a spiegare lo scarso fascino del cosmopolitismo e delle grandi utopie universali. Difficile amare tutti. Quando il patriottismo va fuori controllo, come capita nelle età di crisi, ne scaturisce il perfetto opposto: il nazionalismo esclusivo, xenofobo, talvolta razzista, che trasforma l’amore di sé in odio dell’altro. Le tracce di questa perversione sono oggi fin troppo visibili.
Per mostrare come «nel minestrone di questo nostro mondo, dove la geografia è il nastro trasportatore, esiste qualcosa di immutato»: i sentimenti che restano, come scriveva Marina Cvetaeva, «sempre uguali a se stessi», perché «ci sono stati ficcati dentro il petto come fiamme di una torcia».
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