17 agosto 2025

Soggetto, "io puro", tempo, "presente esteso" in Husserl ricostruiti da Giovanni Piana, con annessa confutazione dell'empirismo e del trascendentalismo

 




Che cos’è il soggetto? Cosa sono io? Io, inteso però non come soggetto personale: occorre distinguere fra “io personale” e “io puro”: soltanto un soggetto, un soggetto vuoto di contenuti personali.(1)

(1)Indagando su questo io puro, operiamo un’astrazione anche dal corpo, ma non dobbiamo dimenticarci di questa operazione, altrimenti l’io puro si trasforma in un mitico e misterioso “Soggetto assoluto”.

Il testo di questo post è una sintesi rielaborata tratta da 

G. Piana, I problemi della fenomenologia, ed. orig. Mondadori, Milano 1966, oggi reperibile nel sito Archivio Piana in un’edizione curata da Vincenzo Costa ed immessa nel sito nell’aprile 2000. Si veda il capitolo IV: L’esperienza del tempo.

L’io puro non viene indagato in se stesso, ma come il punto in cui ha origine la molteplicità dei sui atti e il punto in cui convergono gli stimoli che il soggetto riceve passivamente o ai quali reagisce. L’io è centro di “irradiazione” (azioni, prese di posizione) e di “convergenza” (affezioni, emozioni, passioni).

Ma in che senso gli atti sono unificati fra loro? In che senso il soggetto è uno? Nella molteplicità dei suoi atti, il soggetto resta identico. Il senso di questa identità esprime il rapporto del soggetto con se stesso, in quanto polo permanente dei suoi atti. Ciò avviene nella riflessione, il rivolgersi a se stesso dell’io. Nell’agire, io sono fuori dal campo dell’attenzione, che è concentrata sull’oggetto. Nella riflessione, io divento tema di me stesso.

Ma questo implica una differenza temporale tra il soggetto che riflette ora e il soggetto tema della sua riflessione, che era riflettente poco fa. Io, ora, mi identifico con il soggetto che era riflettente poco fa. Il soggetto si costituisce riflessivamente, come un’identità riflessiva, ma l’identità non è già data come permanente; il soggetto si mantiene identico in un processo temporale di identificazione.

Emerge così il problema del tempo: in che senso il soggetto è temporale? Che cosa è il tempo?

L’idea “naturale” del tempo si è formata partendo dall’analogia con lo spazio, e si presenta come “un succedersi di punti temporali” disposti secondo una linea che dal passato attraversa il presente e “punta sul futuro”. 

Questa teoria naturale viene messa tra parentesi.(2)

(2) Anche le teorie scientifiche vengono, in questo contesto della fenomenologia husserliana, messe fra parentesi. Piana dice esplicitamente che per la ricerca filosofica fenomenologicamente intesa, non può essere normativo il patrimonio scientifico positivo. È possibile un confronto diretto con le teorie scientifiche, che richiederebbe ricerche costitutive specifiche, ma ciò appartiene a un ambito di problemi che non vengono presi in considerazione in questo contesto.

Husserl sviluppa la sua concezione del tempo discutendo teorie filosofiche a lui contemporanee, in particolare quella di Brentano, secondo cui non vi è alcuna esperienza in cui il tempo ci sia dato come tale; il tempo si presenta come durata delle cose o degli eventi, come una loro qualità. Quindi occorre studiare il fenomeno dell’oggetto che dura, dobbiamo analizzare l’esperienza dell’oggetto temporale. 

L’esempio migliore di oggetto temporale è quello di un suono, una nota musicale che rompe il silenzio, perdura per un po’, si spegne lasciando tornare il silenzio. Nel silenzio, il suono ascoltato permane ancora nel mio ricordo, poi scompare anche da esso. 

In tutta la durata del suono, io ero sempre nell’ora: “ora sento un suono all’inizio”, “ora sento il suono iniziato che dura”, “ora il suono finisce”. “Ora” non è un istante temporale, né percepisco un succedersi di istanti temporali, ricomponendoli poi in un’unità. Nel corso della durata, ho esperienza del suono come un’unico suono, come una totalità che dura, in un presente che permane costantemente presente. All’istante finale (percepito come punto-ora) ho la coscienza di tutta la durata come trascorsa. L’istante iniziale viene ritenuto per tutta la durata del suono. L’ora stesso è durata, è un flusso, un continuum temporale.

Occorre allora distinguere tra il ricordo e la ritenzione. Il ricordo è la rievocazione di un evento completamente trascorso, in cui l’evento si dà in una rappresentazione immaginativa: il passato “non è reale” (non esiste più). La ritenzione è il mantenere nell’attualità della percezione la fase anteriore appena passata: vi è una modificazione, ma all’interno della percezione attuale stessa: non vi è il passaggio dalla realtà del presente all’irrealtà del passato.

Analogamente alla ritenzione, ma proiettata in avanti, invece che indietro, è la protenzione, l’anticipazione in cui si costituisce una dimensione temporale futura: l’impressione originaria anticipa sempre una nuova impressione originaria. Sul tema della protenzione sono illuminanti le sezioni 11-13 del capitolo II, intitolato “Il ricordo”, di un altro libro di Piana: Elementi di una dottrina dell’esperienza. Qui Piana ragiona su un un esperimento mentale:

Supponiamo allora di assistere ad un processo che si svolge nel tempo, ad esempio al movimento di una pallina che scorre sulla superficie di un tavolo. (…) Converrà inoltre assumere che la pallina possa muoversi come le pare – un’assunzione a cui non è necessario dare concretezza dal momento che essa ci serve soltanto per mettere fuori gioco le attese motivate dallo sfondo esperienziale.



il decorso attuale viene sopravanzato da un’immagine di decorso a venire che è l’immagine del decorso passato. Si comincia così a delineare un’interpretazione della regola secondo cui il passato proietta sul futuro la propria immagine.


Piana chiarisce che si tratta sempre di esperienze di eventi, e non di eventi in genere. «Perciò quando diciamo che il futuro viene atteso come simile al passato oppure che l’iterazione dell’esperienza rafforza l’attesa, queste formulazioni non debbono essere intese come se enunciassero una sorta di postulato di uniformità ontologica.». 
La cosa interessante, di carattere filosofico più generale, è che con questo discorso Piana arriva alla chiara distinzione tra «le attese la cui base è nel presente stesso e le attese la cui base si trova nelle esperienze passate» e forte di questa distinzione avanza una confutazione della “tesi fondamentale dell’empirismo”, ovvero la tesi «secondo cui ogni attesa percettiva sarebbe dovuta all’abitudine», che può essere considerata «come un caso particolare della tesi secondo cui ogni unificazione, ogni sintesi – quindi in generale ogni formazione oggettiva – avrebbe il proprio fondamento nell’esperienza passata.»

La tesi fondamentale dell’empirismo è assurda perché contiene un circolo vizioso: sulla base della contiguità o della somiglianza possono indubbiamente sorgere “abitudini” associative. Ma proprio per questo non può darsi il caso che rapporti di somiglianza e di contiguità sorgano a loro volta sulla base di abitudini associative. (…) L’esperienza presente esibisce modi di organizzazione senza che altre esperienze siano necessariamente presupposte. (…) Di fronte a ciò è interessante notare che l’ammissione di “sintesi a priori” come una intelaiatura presupposta nel soggetto che effettua l’esperienza, come momenti soggettivi di strutturazione dei dati – in breve, il punto di vista trascendentalistico – mentre si presenta come un tentativo di confutazione radicale della tesi empiristica, avendo di mira le sue conseguenze “catastrofiche” nell’ambito di una dottrina della scienza,  in realtà si appropria di almeno un aspetto che è ad essa essenziale. Le necessità strutturanti debbono risiedere nel soggetto a titolo di condizioni di possibilità proprio perché, se da un lato si riconosce che esse debbono essere costitutive nel rapporto dell’esperienza, dall’altro si ammette come ovvio che esse siano esterne ai suoi materiali. Alla soggettività psicologica subentra così la soggettività trascendentale. Nel sostenere le necessità dell’esperienza seguiamo evidentemente una via molto diversa e dalle nostre considerazioni possiamo trarre argomenti anche contro il punto di vista trascendentalistico.

In altri termini, Piana mostra come sia Hume sia Kant, pur nella differenza delle loro impostazioni, abbiano entrambi una concezione che si basa sull’idea che il materiale concreto dell’esperienza sia di per sé completamente destrutturato, caotico, una sorta di pulviscolo di singoli dati sensibili irrelati tra loro. Contro questa impostazione, la prospettiva dello strutturalismo fenomenologico (che Piana elabora a partire da Husserl), mostra come l’esperienza sia invece già strutturata (almeno in parte) dal lato oggettivo: decorsi percettivi si differenziano tra loro per differenze di struttura, e impongono al soggetto di trarne conseguenze categoriali, concettuali.





13 agosto 2025

Alexius MEINONG, "Teoria dell'oggetto" (1904). Appunti di lettura

 


La lettura di Meinong, di questo saggio del 1904 in particolare, ma anche dello scritto Presentazione personale (o Autopresentazione, che uscì postumo nel 1921 ed è contenuto nell'edizione Quodlibet 2003), ha un valore (lo ha avuto per me, ma penso sia un effetto che faccia a tutti i lettori) che definirei liberatorio. Assistiamo qui a una mente che si confronta con spazi di pensiero vastissimi, e che cerca di "delimitare" i confini di una nuova scienza che sembra così vasta da poter abbracciare l'infinito stesso, tutto il pensabile e anche di più, l'impensabile, l'inimmaginabile... Va inoltre detto, come scrive Raspa nel suo saggio su Meinong in AA.VV., Storia dell'ontologia (Bompiani 2008), che Meinong "stimolò in maniera decisiva la riflessione logico-filosofica del primo Russell" ed infatti è proprio in polemica con Meinong che Russell scrive il saggio fondamentale On Denoting (1905). «Il problema di prendere una posizione sulla non-esistenza di qualche oggetto, o distinguere fra cose esistenti e cose non-esistenti, è uno dei più discussi nella filosofia analitica recente. In realtà, in un certo senso è anche il problema che ha dato origine alla filosofia analitica, che è stata ispirata dall’influente saggio di Russell On denoting.» scrive Franca D'Agostini in The Last Fumes, cap. 9, sez. 2, traduzione mia (F. D’Agostini, The Last Fumes. Nihilism and the nature of philosophical concepts, The Davies Group Publishers, Aurora (Colorado) 2008)

La traduzione italiana che ho letto è quella dell'edizione Quodlibet 2003, a cura di Emanuel Coccia.

In questi appunti di lettura riproduco la struttura del testo, riformulandone il contenuto in maniera spesso molto ravvicinata. Nel caso vi siano citazioni vere e proprie, queste sono messe tra virgolette. Nel caso di mie riflessioni, domande, interpolazioni, queste sono messe tra parentesi quadre.


1. IL PROBLEMA

L'atto del conoscere implica che vi sia un OGGETTO conosciuto.

L'atto del giudicare che vi sia un OGGETTO giudicato.

L'atto del rappresentare che vi sia un OGGETTO rappresentato.

Più complicato dire la stessa cosa per i sentimenti... ma volere implica un OGGETTO voluto; desiderare implica un OGGETTO desiderato; sentire gioia implica che ci sia qualcosa di cui/per cui il soggetto gioisce...

Ora: a chi spetta l'elaborazione scientifica di simili oggetti in quanto tali?

[Meinong dice anche, in questo primo paragrafo, «(...) che questo particolare “essere orientato a qualcosa” convenga all'accadere psichico (...)».  Va ricordato che Meinong (Leopoli 1853 - Graz 1920) fu allievo di Brentano, i cui corsi a Vienna frequentò a partire dal 1875/76, ma, scrive Venanzio Raspa nel suo contributo su Meinong ("Teoria dell'oggetto") in Storia dell'ontologia (a cura di M. Ferraris, Bompiani 2008): «Verso la fine degli anni Ottanta comincia a incrinarsi il suo rapporto con Brentano». È significativo infatti che pur richiamando la teoria dell'intenzionalità di Brentano, qui Meinong non lo nomini. Per un inquadramento culturale e filosofico di Meinong rimando al testo di Raspa appena citato. Per uno sviluppo contemporaneo delle tesi fondamentali di Meinong, riassumibili nella distinzione tra essere ed esistere e nell'idea che ci sono cose che non esistono, si veda F. Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma-Bari 2010. Berto sviluppa una teoria definibile come meinonghianismo modale, ma la Parte prima del libro, intitolata "Breve storia di un antico errore" è dedicata a ricostruire, punteggiandola con continue critiche, tutta la vicenda della concezione predominante sul significato di “essere” (da Parmenide a Quine). Il libro di Berto sviluppa poi questo punto di vista meta-ontologico alternativo a quello standard, dandogli un solido apparato formale e mostrando come possa rivaleggiare con la teoria standard sul piano della risoluzione di importanti problemi logico-ontologici.]


2. IL PREGIUDIZIO A FAVORE DEL REALE

Una scienza dell'oggetto del conoscere (l'atto del conoscere si può considerare il significato primario degli atti psichici) sarebbe una scienza costituita dalla TOTALITÀ delle scienze? Compirebbe quanto TUTTE le scienze insieme comunque realizzano? 

La scienza a cui spetta la trattazione dell'oggetto in quanto tale (o degli oggetti nella loro totalità) è la metafisica? No, perché la metafisica punta alla totalità di ciò che esiste, ma

«la totalità di ciò che esiste, con inclusione di quanto è esistito e di quanto esisterà, è infinitamente piccola se paragonata alla totalità degli oggetti della conoscenza» [Ho provato un forte piacere intellettuale, quasi fisico, nel leggere questa frase]  perché il forte interesse per il reale, che appartiene alla nostra natura, «porta all'eccesso per cui si considera il non-reale come un puro nulla (...)» ma ciò è un errore, in quanto GLI OGGETTI IDEALI "consistono" [bestehen] ma non esistono affatto, quindi non possono essere reali. Esempi: UGUAGLIANZA, DIVERSITÀ, I NUMERI [da distinguere rispetto a ciò che è numerato: «si può contare anche ciò che non esiste»], CONNESSIONE.

La connessione tra cose esistenti congiunge l'essere di queste cose, o il loro non-essere, non le stesse realtà.

L'essere o il non-essere di qualcosa sono un genere particolare di oggetti, che si trovano davanti a giudizi o assunzioni.

Definisco "Oggettivo" come: oggetto di un giudizio. Esempio: "È vero che ci sono antipodi". La verità è attribuita non agli antipodi, ma all'oggettivo "ci sono antipodi".

[Gli "oggettivi" consistono]

L'esistenza (di X) può consistere, ma non può esistere di per sé.

«ogni conoscenza che ha per oggetto un oggettivo rappresenta (...) un caso di conoscenza di un non-esistente» (p. 25)

«L'essere a cui la matematica in quanto tale deve interessarsi non è mai l'esistenza e mai essa si spinge in questo senso oltre la consistenza».

Se i matematici parlano dell'esistenza dei loro oggetti, in realtà usano "esistenza" nel significato solitamente attribuito a POSSIBILITÀ, dando un forte accento positivo a questo concetto (mentre generalmente lo si caratterizza in senso negativo)

[Vale anche per Penrose? Vedi l'inizio di La strada che porta alla realtà]


3. ESSER-COSÌ E NON-ESSERE

«(...) Ciò che è destinato ad essere oggetto di conoscenza non deve necessariamente esistere.»

Il pensiero può avere due funzioni: una funzione TETICA e una funzione SINTETICA. Nella funzione tetica il pensiero coglie un essere [un oggetto reale]. Nella funzione sintetica il pensiero coglie un esser-così (Sosein[una proprietà].

Sarebbe errato credere che si possa parlare di un esser-così soltanto presupponendo un essere: le figure geometriche non esistono, e tuttavia le loro proprietà, cioè il loro esser-così, possono essere osservate.

PRINCIPIO DI INDIPENDENZA DELL'ESSER-COSÌ DALL'ESSERE: l'esser-così di un oggetto non è affatto coinvolto dal non-essere di questo.

[anche gli oggetti della finzione hanno proprietà; ne parla diffusamente Berto nel libro sopra citato]

A questo principio sottostanno anche gli OGGETTI IMPOSSIBILI , che non possono esistere. (che è diverso da dire "che di fatto non esistono"). Es.: la montagna d'oro è d'oro; il quadrato rotondo è rotondo ed è quadrato.

«un qualsiasi non-ente deve essere in grado di costituire l'oggetto per lo meno per i giudizi che colgono questo non-essere»

«Chi ama espressioni paradossali potrebbe ben dire: ci sono oggetti per i quali vale che siffatti oggetti non ci sono» (p. 28).


4. IL FUORI-ESSERE DELL'OGGETTO PURO

L'essere di X, così come il non-essere di X, sono "oggettivi".

L'OGGETTIVO sta dinanzi al suo oggetto, come (similmente) [chiamiamola analogia Y] il TUTTO sta dinanzi alla parte. MA: Se il TUTTO è, deve essere anche la PARTE. Trasposto all'OGGETTIVO: Se l'OGGETTIVO è, anche l'OGGETTO che gli appartiene dovrà in un certo senso essere, MA questo essere non è né ESISTENZA né CONSISTENZA: è una sorta di "terzo livello", un "essere" che dovrebbe essere attribuito ad ogni OGGETTO, cui non si potrebbe contrapporre un non-essere dello stesso livello.

L'analogia Y [vedi sopra] non vale per OGGETTIVI DI NON-ESSERE, ovvero: «l'essere dell'oggettivo non dipende in alcun modo dall'essere del suo oggetto» (p. 31).

L'opposizione di ESSERE vs NON-ESSERE riguarda l'OGGETTIVO, non l'OGGETTO: 

«nell'oggetto di per sé non può porsi essenzialmente né essere né non essere»

PRINCIPIO DEL FUORI-ESSERE (Außersein) DELL'OGGETTO PURO: «l'oggetto è per natura fuoriessente (außerseind) sebbene in ogni caso dei suoi oggettivi d'essere, il suo essere o il suo non-essere, ne CONSISTA necessariamente uno.»

[Ma Meinong dice anche che non si dà una terza possibilità tra essere o non essere di un oggetto: «Ciò non significa naturalmente che un qualche oggetto potrebbe né essere né non-essere» (31). Meinong distingue esistenza (oggetti reali) e consistenza (oggetti ideali) ma la consistenza equivale a non-esistenza: gli oggetti ideali sono ma non esistono. Quindi distingue sostanzialmente tra essere ed esistere.]


5. LA TEORIA DELL'OGGETTO COME PSICOLOGIA

La Teoria dell'Oggetto  [da qui in poi TDO] non può essere la psicologia.


6. TDO COME TEORIA DEGLI OGGETTI DELLA CONOSCENZA

Ci sono oggetti anche dei giudizi falsi, delle rappresentazioni, e dei vissuti extra-intellettuali, MA TUTTI gli oggetti (in linea di principio, potenzialmente) sono conoscibili.


7. TDO COME LOGICA PURA

Rimanda alle Ricerche logiche di Husserl per la nozione di "logica pura", ma preferisce NON attribuire ad essa i compiti di una TDO. Perché? Perché la logica rimane in ogni caso una "disciplina pratica". Se purificata da ogni intenzione pratica, non la chiamerebbe più LOGICA.Concorda con l'anti-psicologismo di Husserl, MA: «i concetti non sono forse essi stessi delle rappresentazioni, elaborate magari a fini teoretici, ma comunque rappresentazioni?».


8. TDO COME TEORIA DELLA CONOSCENZA

La conoscenza è un vissuto (quindi il punto di vista della psicologia non può essere bandito dalla gnoseologia), MA dinanzi alla conoscenza sta IL CONOSCIUTO. "Psicologismo" è trascurare questo e risolvere tutta la tematica del conoscere nell'evento psichico.

«(...) la psicologia del conoscere dovrà costituire sempre una parte integrante della gnoseologia. Egli  [chi voglia evitare di cadere nello psicologismo] dovrà solo evitare di prender per psicologia quanto nella teoria della conoscenza è e deve rimanere TDO» (p. 43)

La teoria della conoscenza apre le strade giuste, coltiva i giusti interessi, verso lo sviluppo della TDO, ma questa ha una sua specificità.


9. TDO COME SCIENZA AUTONOMA

La matematica non è che una parte della TDO. La matematica compie nel suo ambito ciò che la TDO deve porsi come compito da realizzare per l'ambito globale degli oggetti. La TDO rivendica il rango di scienza assolutamente autonoma, anche se al momento si tratta di qualcosa di appena abbozzato.

[Ma allora, se la TDO include la matematica, non include anche la metafisica e la fisica?]


10.  LA TDO NELLE ALTRE DISCIPLINE. TEORIA GENERALE E SPECIALE DELL'OGGETTO

La TDO in linea di massima è una scienza che non esiste ancora: «soprattutto come disciplina speciale espressamente riconosciuta nella sua legittimità, attualmente non esiste affatto» (p. 46).Tuttavia essa è stata di fatto praticata in modo implicito in altre discipline. Problemi specifici della TDO sono stati affrontati sia in riferimento ad ambiti oggettuali specifici, sia in riferimento alla totalità degli oggetti. È presente, come teoria speciale, nella MATEMATICA e nelle sue applicazioni ad ambiti extra-matematici, per esempio con la dottrina delle probabilità, con la teoria dell'errore, con la dottrina combinatoria, con la logica matematica, con la logica non matematica (da Aristotele in poi).


11. FILOSOFIA E TDO

La TDO appartiene alla filosofia. Qual è la sua posizione rispetto alle altre "discipline filosofiche"?

La TDO è «vicina» alla metafisica. La metafisica ricerca la massima universalità possibile «nel senso di un ambito di validità il più ampio possibile dei suoi princìpi». 

La metafisica comprende l'inorganico, l'organico e lo psichico. Ma dal momento che «non esiste nulla nel mondo che non sia né fisico né psichico» ciò significa che la METAFISICA è la scienza della totalità del REALE. 

Ma UGUAGLIANZA e DIVERSITÀ si situano fuori del reale, e sono problemi compresi nella TDO. 

Ipotesi: che la metafisica sia la scienza generale del reale e la TDO la scienza generale del non-reale. L'ipotesi è troppo restrittiva, perché la TDO comprende anche gli oggetti reali.

La TDO comprende: oggetti REALI, oggetti CHE CONSISTONO (= IDEALI), oggetti INCONSISTENTI (= ASSURDI).

Dal punto di vista metodologico si può fare questa distinzione: vi sono CONOSCENZE A PRIORI dell'oggetto, che sono di competenza della TDO, e vi sono CONOSCENZE EMPIRICHE dell'oggetto, che sono di competenza della metafisica. Precisando però che «non tutto ha da essere esperito direttamente e si può altresì concludere dall'esperito al non esperito, tutt'al più anche al non-esperibile» (p. 57)


12. CONCLUSIONI

[estraggo solo una notazione metodologica che mi pare interessante, dato che il paragrafo riguarda solo riflessioni sul rapporto del presente saggio rispetto a ricerche precedenti di M. o collegate, di altri autori]

«da anni io seguo ed insegno quale principio fondamentale della ricerca la regola seguente: prima osservare e riflettere e solo in seguito leggere [la letteratura già esistente sull'oggetto della ricerca]» (p. 64)








20 luglio 2025

La "Breve storia dei paradossi" di Franca D'Agostini: come siamo arrivati all'"esplosione" della ragione?

 




Il nuovo libro di Franca D’Agostini (filosofa nota soprattutto per Analitici e continentali – Cortina 1997 –, Breve storia della filosofia nel Novecento. L’anomalia paradigmatica – Einaudi 1999 –, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico – Bollati Boringhieri 2010 –, Introduzione alla verità – Bollati Boringhieri 2011), uscito nel maggio del 2025 per l’editore Carocci nella collana “Bussole”, è l’ideale “completamento” di un precedente libro (Paradossi, Carocci 2009) nel quale D’Agostini affrontava in modo sistematico il territorio dei paradossi dandone una ricognizione ragionata, in dialogo con le più recenti teorie filosofiche sull’argomento. 

Qui la prospettiva storica amplifica notevolmente la portata del discorso, perché il libro si può intendere anche come una lucidissima storia della filosofia dall’antichità ai giorni nostri – per snodi fondamentali – che coglie il cuore pulsante della disciplina e le sue connessioni con la politica e con il destino della razionalità stessa.

Traspaiono in queste pagine alcune caratteristiche tipiche di Franca D’Agostini: la grande competenza logica (pur avendo evitato l’uso di formalismi, per non spaventare il lettore) e lo stile analitico, insieme a una grande sensibilità meta-filosofica e a un incisivo sguardo “continentale” sui movimenti epocali della Ragione, con un costante richiamo a Hegel, che sembra essere l’interlocutore privilegiato ed è il punto di riferimento finale. Un Hegel visto però in continuità con Aristotele: «Hegel sviluppa Aristotele» dirà nell’incontro di presentazione del libro (presso la splendida sede della Biblioteca Comunale Italo Bertoni, nel Parco di Villa Durazzo a Santa Margherita Ligure, il 9 luglio 2025, organizzato dalla figlia Elena Ficara – anche lei filosofa –, con Carlo Penco a introdurre e moderare la discussione, presenti in sala Diego Marconi e Marilena Andronico), e rispetto al quale (Hegel) però l’autrice, nelle ultime righe del libro ma anche nel discorso di presentazione, prende un po’ le distanze rispetto alla sua eccessiva fiducia nel procedere “industurbato” della Ragione – con lo sviluppo storico della scienza – sopra alle tragedie umane.

Un paradosso, secondo la definizione semplice ma efficacissima di Franca D’Agostini, è una contraddizione resistente, e nel libro ne vengono esaminati 98 (in fondo al post troverete un Indice dei paradossi esaminati con i numeri di pagina, fatto da me, utile per il lettore perché nel libro manca e serve come mappa del percorso), e ciascuno di essi costituisce un “oggetto” che cattura la mente in modo quasi ipnotico (se si prova a “entrarci” e a seguirne i cunicoli logici, come se fosse un piccolo labirinto), ma il libro riesce ad essere al contempo molto sintetico, e si procede velocemente, con un ritmo incalzante, quasi come in un thriller (la metafora del giallo, con un assassino da trovare, è stata utilizzata dall’autrice nell’incontro di presentazione e ne renderò conto più avanti).

Il racconto, dopo una parte introduttiva che traccia le coordinate concettuali, inizia con i paradossi di Zenone di Elea (famosissimo è Achille e la tartaruga), che sono in realtà argomenti quasi-paradossali, a sostegno delle tesi del suo maestro, Parmenide, in particolare a sostegno dell’immutabilità dell’essere. Zenone argomenta mostrando le contraddizioni che scaturiscono se si ammette il movimento (una forma di divenire).


Zenone “scopre” dunque non i paradossi ma la riduzione all’assurdo. E in particolare individua il ruolo dialettico dell’infinito, la capacità di questa struttura matematica di generare contraddizioni (p. 21).


L’invenzione dei paradossi in senso stretto si deve ai megarici, che avevano probabilmente uno scopo socratico: far emergere l’importanza degli universali, del linguaggio della filosofia. I megarici tendevano a rifiutare il linguaggio comune in generale, e con i paradossi tendevano a costringere tutti a rendersi conto della forza dei concetti.


A quanto riferisce Plutarco, Stilpone (l’esponente più famoso della scuola), riteneva che esistessero solo universali, e che tutti gli errori, i paradossi e sofismi del linguaggio comune provenissero dalla conoscenza sensibile, legata al particolare (p. 36).


Platone (di cui si parla nel capitolo 2, insieme ad Aristotele) sviluppa una teoria degli universali (più nota come teoria delle idee), poi “mette in crisi” la sua stessa teoria (nei cosiddetti dialoghi critici) e infine riprende la teoria tenendo conto degli aspetti problematici. D’Agostini si concentra in particolare sui paradossi che emergono nel Parmenide e riprende l’idea hegeliana che «la componente scettica fosse il tratto più caratteristico del platonismo». Sostiene che


dai dialoghi critici di Platone nasce una completa visione della dialettica come “logica della filosofia”, logica della concettualità […] Questa logica, nel comune uso del linguaggio, è dominata dal paradosso, dall’emergere di contraddizioni irriducibili. […] l’universalità concettuale è la forza del linguaggio che deve essere compresa, riconosciuta e governata, diversamente diventa esplosiva (p. 40).


Di Aristotele D’Agostini mette in luce due aspetti. Uno (nel quarto libro della Metafisica) è la difesa del principio di non contraddizione, che si lega all’insostenibilità di qualsiasi scetticismo estremo. Relativismo, nichilismo, pluralismo e trivialismo vengono stroncati con l’elenchos, la confutazione per auto-contraddizione dell’avversario (esempio: se niente è vero – nichilismo – allora è anche non vero che niente è vero).

L’altro aspetto è la posizione rispetto alle contraddizioni, che D’Agostini mette in relazione al successivo sviluppo con Hegel. Aristotele ammette, secondo D’Agostini che alcune contraddizioni potrebbero essere vere, quindi non sostiene l’impossibilità assoluta delle contraddizioni.


Ciò che Aristotele difende è piuttosto il principio di esclusione: si può ammettere qualche caso in cui “p e non p” è vero, ma è impossibile sostenere che “p” sia vero e separatamente (“poi”) che “non p” sia anche vero (1008a 19-21). È solo un’ipotesi, ma come si vedrà una posizione di questo tipo è difesa con molte ragioni da Hegel e da alcuni logici contemporanei: è l’idea della “unità degli opposti”, principio fondamentale per Hegel della dialettica razionale (p. 50).


La tesi generale verso cui tende questa Breve storia dei paradossi, che è stata chiaramente enunciata dall’autrice in sede di presentazione del libro, è che la ragione occidentale sia saldamente fondata sul paradosso.

Per sostenere questa tesi così radicale Franca D’Agostini, in quella occasione, ha ricordato che la stessa formula usata da Anselmo per dimostrare l’esistenza di Dio è stata usata da Fredegiso di Tours per dimostrare l’esistenza del nulla (!). Di ciò, nel libro, si parla nel capitolo 4 – dopo un capitolo dedicato a Crisippo e ad Agostino –, che introduce il Medioevo e prepara al capitolo 5, sui paradossi e i sofismi tardomedievali (una delle parti più innovative rispetto alla letteratura sull’argomento).

D’Agostini ha aggiunto, parlando in occasione della presentazione, che il libro si può leggere anche come un romanzo giallo, nel quale c’è una vittima – la logica classica – e c’è un assassino…: «Non vi dico adesso chi è l’assassino, così vi lascio il piacere di scoprirlo da soli»… ma in realtà poi l’ha detto, e lo vedremo tra poco (intanto provate a capirlo da soli!).

Il capitolo 6, che introduce all’epoca moderna, tratta della Dotta ignoranza  (1440) di Cusano e della strana regola logica chiamata consequentia mirabilis, le cui origini si possono far risalire a Euclide, ma che fu esaltata e portata in primo piano dall’entusiasmo di Girolamo Cardano, nel 1570. Ma il capitolo 6 si apre in realtà con un riferimento al libro di Graham Priest (padre del dialeteismo, la teoria dei paradossi come “vere contraddizioni”) Beyond the Limits of Thought (1995) per introdurre l’iterazione concettuale su cui si basa il testo di Cusano.

Priest sostiene che le contraddizioni sono inevitabili ogni volta che viene individuato un limite che viene però superato parlandone e pensandolo. Si producono allora operazioni contraddittorie come: pensare l’impensabile, esprimere l’inesprimibile, descrivere l’indescrivibile, concepire l’inconcepibile, conoscere l’inconoscibile… (qui a me è venuta subito in mente l’obiezione che già i primi lettori della Critica della ragion pura facevano a Kant a proposito dell’esistenza della cosa in sé: come fai a dire che esiste la cosa in sé, se questa si trova oltre il limite dell’esperienza e della conoscibilità?). 

Nell’età moderna, sostiene D’Agostini, essendosi indebolito il ricorso alla Scritture e alle dottrine della Chiesa,


diminuiva dunque la capacità dei testi sacri di bloccare l’instabilità e le contraddizioni di un linguaggio che si misura con idee estreme (nulla, Dio), al limite del pensabile-conoscibile. E forse non è un caso che proprio rilanciando l’ambigua ignorantia socratica sia apparsa l’idea di una contraddizione intrinseca alla conoscenza (dio Dio e delle cose) nell’opera di Niccolò Cusano (p. 83-84).


Nel cruciale capitolo 7, dedicato a Kant e Hegel, troviamo importanti argomenti, che non possiamo riassumere per ragioni di spazio ma vogliamo almeno accennare. Innanzitutto D’Agostini “cattura” (o interpreta) le antinomie kantiane (relative all’idea di mondo, una delle tre idee che la ragione si forma nella sua naturale aspirazione metafisica verso la totalità) come paradossi, contraddizioni di cui non riusciamo a liberarci. Le presenta, ricostruisce la riflessione kantiana su di esse, e riassume la “soluzione” kantiana: le antinomie nascono da un errore. Quale? Trascurare la distinzione tra fenomeni e cose in sé.


(…) se parliamo della totalità dei fenomeni, essendo questa idea priva di supporto sensibile, parliamo di qualcosa che non è mondo, qualcosa che non è accessibile alle nostre facoltà e su cui non possiamo dare nessuno degli otto giudizi (p. 91-92).


Segue una parte (7.2) dove D’Agostini analizza la discussione di Hegel sui paradossi megarici (nelle Lezioni sulla storia della filosofia). Si tratta di una delle parti più originali del libro, che era stata in parte anticipata (ed era la prima volta in assoluto che si considerasse questo argomento nella letteratura sul tema) nel libro The Last Fumes. Nihilism and the Nature of Philosophical Concepts, (Davies Group Publishers, 2008). Troviamo, in questa analisi, una via di accesso per comprendere la dialettica hegeliana e interpretare il concetto di “ragione” in Hegel.


(…) la ragione accetta la contraddizione, ma mantiene uniti gli opposti, dando alla loro unione inestricabile (Einheit) un nuovo nome-concetto che viene lanciato nel linguaggio. L’idea-base della logica razionale è dunque l’unità degli opposti (Einheit Entgegengesetzter) (…) Per Hegel la soluzione dei paradossi non si deve alle decisioni dei logici, ma alla forza della ragione. E “la ragione” non è una facoltà individuale (…): è una funzione della collettività umana che agisce nella storia. (…) I paradossi dunque non “si risolvono” togliendo la contraddizione, ma accettandola e vedendo in essa un passaggio storico-linguistico cruciale, in cui la scienza vince le controversie degli individui, e procede oltre (p. 93-94).


In 7.3 (Perché sbagliava Kant) D’Agostini ricostruisce l’interpretazione hegeliana delle antinomie kantiane: altro tassello importante per capire sia la continuità, sia la differenza tra Kant e Hegel.

I capitoli 8 e 9 e 10 sono dedicati agli sviluppi delle teorie sui paradossi nel Novecento. La struttura essenziale di questo enorme proliferare di nuovi paradossi e di teorie su come affrontarli viene tracciata in anticipo dall’autrice nelle pagine introduttive. È Tarski a individuare le due cause fondamentali che, agendo congiuntamente, generano i paradossi: 1. l’auto-riferimento o chiusura o riflessività: il fenomeno per cui il linguaggio può parlare di se stesso; 2. l’esistenza di leggi logiche che si applicano anche al linguaggio naturale, in particolare il terzo escluso (p ¬p) e la legge di non contraddizione: ¬(p ¬p ).

Individuate le cause, una prima strategia di soluzione è stata quella di escludere l’auto-riferimento, distinguendo livelli o gerarchie di discorso:  linguaggio-oggetto e meta-linguaggio (Tarski); teoria dei tipi (Russell).


Il problema è che la chiusura si presenta in tantissime forme: auto-riferimento, auto-predicazione, circolarità, riflessione, totalità ecc. tutte strutture cattive, generatrici di paradossi. Difficile eliminarla del tutto. Le strategie più di successo a partire dagli anni Settanta del secolo scorso si concentrano sul secondo fattore: le leggi logiche. Si assume che il terzo escluso (o bivalenza) e/o la non contraddizione possano essere violati (p.16).


Quindi possono esistere enunciati né veri né falsi, che sono lacune, gaps, di valori di verità, oppure dobbiamo ammettere eccessi, glut, di verità, ovvero casi in cui è vera una proposizione ma è vera anche la sua negazione.


E la logica dei paradossi si riduce in ultimo alla «battaglia tra glut e gap» (p. 16).


Ma chi è, dunque, l’assassino della logica classica?

L’assassino, ha rivelato D’Agostini nella presentazione del libro, è il concetto.

Questo significa che il problema per cui la ragione tende ad “esplodere” ed è fin dal principio attraversata da contraddizioni resistenti è proprio nascosto nella natura stessa degli universali: i concetti, i predicati, le proprietà. Il disaccordo è nella struttura stessa della democrazia, ma le ragioni confliggenti sono affrontabili solo attraverso la discussione argomentata, e questa non può fare a meno di servirsi del linguaggio, che nasconde ambiguità, iterazioni contraddittorie, vaghezza. L’unico modo per usare bene i concetti è conoscere le loro insidie.


Se dunque siamo interessati agli strani eventi concettuali che chiamiamo paradossi non è solo perché sono divertenti e sorprendenti, ma anche perché nel capirli e risolverli forse riusciamo a capire qualcosa dei confronti umani, specie di quegli aspri conflitti che pervadono i dibattiti politici attuali.


La ragione esplode se accettiamo qualche contraddizione e ci muoviamo con i principi della logica classica.


È sorprendente che i Greci, con i loro primi mezzi logici, abbiano colto questo non piccolo difetto del linguaggio comune: basta ammettere anche un solo caso in cui X dice “p” e Y dice “non p” e hanno entrambi ragione, e la logica conseguenza è (può essere) che tutti hanno ragione, tutto è vero (p.25).


Le logiche paraconsistenti si sono sviluppate nel Novecento proprio mirando all’obiettivo di creare un’idea di conseguenza logica “non esplosiva”, capace di accogliere contraddizioni senza cadere nel trivialismo (tutto è vero). Oggi sembra affermarsi una situazione in cui, per effetto di una “democratizzazione” esponenziale del linguaggio, in cui idealmente tutti possono dire la propria opinione, sembra tornare la minaccia del trivialismo. 


in un sistema logico “esploso” tutto è vero, e tutto è contraddittorio. L’immagine si adatta bene alle condizioni della ragione nel momento attuale, spesso descritto nei termini di “ipercomunicazione”, “infocrazia”, “infoxication” (p. 150).


D’Agostini non ha però una visione apocalittica del momento presente, perché – argomenta – «se realmente la ragione fosse esplosa non sarebbe neppure possibile accorgersene. Se non vi fosse limite alla vaghezza del linguaggio, non riusciremmo neppure a parlarne. (…) Ma soprattutto (…) è evidente che siamo ancora (individualmente e istituzionalmente) capaci di ragionare, argomentare, avere opinioni e agire di conseguenza. C’è dunque una logica della ragione “esplosa” e occorre capire come funzioni» (p. 150-151).

È forte il richiamo a Hegel nelle ultime righe del libro, il filosofo che riconosce la verità di una contraddizione in quanto coglie la complessità dei concetti in gioco e la convergenza di cause plurime su uno stesso evento. Ma D’Agostini sembra meno sicura, rispetto a quanto lo fosse Hegel, che questa operazione di blocco dell’esplosione sia qualcosa che avvenga nel naturale sviluppo della razionalità umana. Forse, sembra dire alla fine, è necessaria una formazione adeguata, forse i logici, ma soprattutto i filosofi in generale, hanno qualcosa da insegnare per attrezzarci tutti all’esclusione del falso.



INDICE DEI PARADOSSI ESAMINATI


I due errori p. 8

La rana di Cargile p. 9 e 144

La fortunata sfortuna p. 9

Le due asserzioni p. 11

Il trapianto di cervelli p. 12

La dicotomia (Zenone) p. 22

Achille e la Tartaruga (Zenone) p. 22

Il grande e il piccolo (Zenone) p. 23

La freccia (Zenone) p. 23

L’avvocato (Protagora) p. 26

Il fuggitivo (Eubulide) p. 30

Il velato o il nascosto (Eubulide) p. 30

L’Elettra (Eubulide) p. 30

Il cornuto (Eubulide) p. 31

Il mentitore (Eubulide) p. 32

Il mentitore indebolito (Epimenide) p. 33

Il sorite (Eubulide) p. 34

Il calvo (Eubulide) p. 34

Molteplicità e somiglianza (Platone) p. 41

Partecipazione (Platone) p. 41

Il terzo uomo (Platone) p. 41

L’uno è unico? Platone) p. 41

L’uno e i molti (Platone) p. 42

Paradosso del giuramento (Aristotele) p. 46

Mentitore di Aristotele p. 46

Nichilismo e Trivialismo (Aristotele) p. 48

Nichilismo eccettivo (Aristotele) p. 48

Trivialismo eccettivo (Aristotele) p. 48

L’autocontraddizione del sofista

e del dialettico (Aristotele) p. 48

Il mentitore di Crisippo p. 54

Il nessuno (Crisippo) p. 54

Il poco (Crisippo) p. 56

Il dominatore (Crisippo) p. 57

Il coccodrillo (Crisippo) p. 58

Il ponte (Cervantes) p. 58

Scomparsa della verità (Agostino) p. 60

L’anticipazione del cogito (Agostino)p. 60

Il dead knower p. 61

Sapere di non esistere p. 61

Il nulla esiste 1 (Fredegiso di Tours) p. 63

Il nulla esiste 2 (Fredegiso di Tours) p. 63

Le tenebre non sono privazione

di luce (Fredegiso di Tours) p. 64

L’esistenza dei cavalli volanti

(Priest) p. 67

Mentitori medievali p. 73-74

(Adam di Balsham, Giovanni Buridano,

Guglielmo di Heytesbury, Tommaso

Bradwardine, Alberto di Sassonia, Walter

Burleigh, Ruggero Swyneshed, Ludolfo

Meistermann, Marsilio di Inghen)

Paradosso della validità

(Alberto di Sassonia) p. 75

Mentitore ad occhi chiusi

(Gulglielmo di Heytesbury) p. 76

Il mentitore sconfitto p. 77

Il mentitore diviso in due

(Duns Scoto) p. 79

Mentitore per congiunzione

(Giovanni Buridano) p. 80

Dotta ignoranza (Cusano) p. 83-85

Consequentia mirabilis p. 86-88

Autocontraddizione e

autofondazione p. 88

Antinomie cosmologiche (Kant) p. 89-92

Il mentitore di Hegel p. 94

Il suicidio (Hegel) p. 95

Fallacia della domanda multipla

(Hegel) p. 95

Analisi hegeliana del sorite p. 97-101

Analisi hegeliana delle antinomie

kantiane p. 101-103

Antinomia delle classi (Russell) p. 108

Paradosso di Grelling-Nelson p. 109

Paradosso del barbiere (Russell) p. 111

Mentitore di Tarski p. 114

Paradosso di Richard p. 115

Incompletezza (Priest) p. 115

Mentitore di Quine p. 118

Presupposizioni (Van Fraassen) p. 122

Categorie e presupposizioni

(Van Fraassen) p. 123

Il truth teller (Kripke) p. 123

Il ricorso alternato (Kripke) p. 123

Mentitore di Kripke p. 124

Paradosso di Yablo p. 125

Paradosso della coda (Sorensen) p. 125

Il mentitore esteso p. 126

Il mentitore rafforzato p. 127

Mentitore contestuale (Parsons) p. 127

Questo enunciato p. 128

Due tokens per un type (Goldstein) p. 129

Contraddizioni discussive

(Jaskowski) p. 131

Computer non aggiuntivo

(Belnap/Varzi) p. 132

ECQ (ex contradictione quodlibet) p. 132

La contraddizione (Priest) p. 135

Ogni vera contraddizione è falsa

(Priest) p. 136

Dibattiti esplosivi p. 137

Paradosso di Curry-Löb p. 138

Paradossi dell’implicazione materiale

(Lewis) p. 139

Concatenazione fallita p. 140

Arricchimento fallito p. 140

Controfattuali (Adams) p. 141

Giovane e vecchio (Black) p. 143

Il paradosso di Wang p. 145

Scrambled eggs (Priest) p. 146