Sul sito di Rai Filosofia ho trovato il seguente scritto di Vaselli:
Rai
Filosofia
[Stefano
Vaselli] Problemi tipici dell'antirealista:
i.
Postulando l'esistenza di una realtà intesa come tutto ciò che è indipendente da noi e che è attorno a noi, non diciamo nulla di particolarmente
interessante e di filosoficamente acuto. Il realismo è banale.
ii.
Affermando l'esistenza di una realtà intesa come tutto ciò che è indipendente da noi e che è attorno a noi, giriamo attorno all'inaggirabile problema
del "e noi non siamo parte della realtà,
come menti e autocoscienze?".
iii. Sia
quanto postulato in (i) che in (ii) sono indimostrabili. Pertanto il realismo,
sul piano filosofico, non è diverso da una fede quasi
mistica, o da un fideismo ontologico, perché
in ogni caso l'esistenza di una realtà indipendente da noi, come
Hume insegna, è indimostrabile.
(iv). Il
realismo è una forma di imperialismo
epistemologico, che esige dai soggetti conoscitivi la ferrea accettazione di un
postulato di oggettività, che rende la nostra
conoscenza ininfluente come struttura di schemi concettuali nel plasmare le
forme del reale.
Qualunque
forma di realismo, debole o radicale, esternalista o internista, deve misurarsi
con (i-iv)
Dopo averlo riportato nella mia pagina FB, ho pensato di
riportarlo anche sulla pagina FB di Vaselli accostandolo a un brano di Franca
D'Agostini che mi sembrava avere delle somiglianze. Quella che segue è
la discussione che si è sviluppata
sulla pagina Facebook di Vaselli, con alla fine un lungo intervento che la
D'Agostini mi ha inviato via mail (nella bacheca di Vaselli compare invece una
versione ridotta di tale intervento). In Appendice due articoli della filosofa:
uno recente in risposta a Roberto Esposito, su La Stampa, e uno sul tema
fatti/interpretazioni, uscito su Micromega on line.
A
proposito di realismo, mi sembra molto interessante, da approfondire, questo
passaggio di Franca D'Agostini, tratto dal suo libro "Nel chiuso di una
stanza con la testa in vacanza": "Ogni realista difensore della cosa
senza soggetto sta in verità parlando di se stesso, e
difendendo il proprio modo di guardare la realtà.
Questo vale naturalmente anche per i difensori della soggettività senza la realtà: almeno e se non altro in
quanto devono postulare come reale, dunque violare e rendere oggettivo, quel
soggetto di cui difendono il primato contro gli oggetti.
In altre
parole, nel momento in cui difendo i diritti dell'oggetto, lo faccio dal punto
di vista di un soggetto tanto potente da saper conoscere perfettamente, e perciò difendere, il proprio altro; nel momento in cui invece
difendo i diritti della soggettività lo faccio assumendo il
soggetto stesso come un oggetto e un dato obiettivato, e dunque postulo un
oggetto tanto forte da poter modellare con la sua forma il suo differente.
Questa
elementare dialettica è il vizio di forma di
qualsiasi posizione unilaterale. Ma l'opinione di Gadamer (come quella di
Hegel), è che tutti, i soggettivisti
come i difensori dell'oggettivo, sono in qualche modo spossessati dalla
oggettività di questa dialettica, che -
essa stessa - costituisce il movimento proprio di qualcosa che non è interamente riducibile al soggettivo, né all'oggettivo, pur essendo proprio dell'uno e
dell'altro."
Stefano
Beniamino Vaselli Rai Filosofia [SV] Non sono
proprio d'accordo. "Ogni realista difensore della cosa senza soggetto sta
in verità parlando di se stesso".
E chi l'ha detto? Franca D'Agostini? Rispettosamente dissento. Se alcuni
miliardi di anni fa una cosa senza soggetto chiamata "Primo
procariote" non fosse apparso sulla terra, (ma potremmo anche chiamarla
"Antani", "Sbiricuda", con un sospiro o con un lamento),
non ci sarebbe stato alcun soggetto. Tutti i soggetti discendono da oggetti,
grazie ad un misterioso (neanche tanto) processo oggettivo detto
"evoluzione". Viceversa non si da. Gli oggetti di questo universo
continueranno ad esistere anche dopo che tutti i "soggetti" di questo
pianeta saranno scomparsi. L'idea che la filosofia non possa fare a meno
dell'idealismo o del costruttivismo per essere interessante è tipica del millennio che ci siamo lasciati alle spalle. I
fatti possono esistere senza interpretazioni. Le interpretazioni per esistere
devono essere fatti. Le cose per esistere non hanno bisogno di essere pensate.
I pensieri, per esistere, devono diventare o già
essere "qual-cosa".
Italo
Nobile Io sono realista. Ma proprio
per questo non parlo nè di evoluzione nè di procarioti. Esistono oggetti materiali e oggetti ideali
che si danno alla coscienza. Procarioti ed evoluzione sono oggetti ipotetici
che si danno alla nostra mente ovvero reali in quanto si danno come oggetti
ipotetici.
Stefano
Beniamino Vaselli Se l'evoluzione fosse un
oggetto solo ipotetico non staremmo parlando qui ora. Alcuni procarioti, poi,
sono così poco ipotetici da causare
delle ipotetiche morti per ipotetiche infezioni. L'inemendabilità del reale.
Giulio
Napoleoni Caro Stefano, vorrei
chiederti: cosa pensi dell'interpretazione di Kant data da Ferraris (da Goodbye
Kant in poi)? ; cosa pensi delle posizioni di Varzi nel suo ultimo libro Il
mondo messo a fuoco? come valuti la teoria dei tre mondi di Popper? La
D'Agostini in quel passaggio non sta facendo metafisica ma metafilosofia (quel
suo libro è una grande opera di
metafilosofia che tutti i filosofi attivi dovrebbero studiarsi, e ti consiglio
anche, se non lo conosci già, Introduzione alla verità, dove fra le altre cose dà
una lettura di Kant secondo me migliore di quella di Ferraris...). Anche io non
penso che la filosofia debba essere idealista o costruttivista per essere
interessante, ma credo che la filosofia debba cooperare con le scienze e
contribuire a dare una visione ampia, mobile, critica, della realtà, una visione nella quale si riconosca il giusto peso che
le nostre formazioni concettuali hanno nel determinare la nostra visione della
realtà stessa... La stessa
distinzione tra oggetti e soggetti si potrebbe discutere. le piante sono
oggetti? E i virus?
Stefano
Beniamino Vaselli L'interpretazione fornita da
Ferraris in quel libro è un po' sommaria, alcuni studiosi
di Kant l'hanno giudicata molto superficiale, sicuramente è molto severa nei confronti del filosofo tedesco. A me Kant
piace molto, anche se non sono d'accordo con lui su molte cose, lo trovo un
autore ineludibile. In ogni caso è una lettura che si appoggia
su aspetti essenziali di Kant, come tali non facilmente negabili. Kant può anche aver preso posizione contro l'idealismo di Berkeley
nell'edizione della Prima Critica del 1787, ma il suo trascendentalismo è, di fatto, una forma di idealismo. Varzi: Varzi è il più intelligente degli
antirealisti in circolazione, la sua idea è che una cosa sia l'ontologia
(che cosa c'è al mondo) e che un'altra cosa
sia la metafisica, le teorie sui tipi di cose che esistono e possono esistere.
La prima ci da un catalogo degli enti, la seconda del tipo di entità. Per Varzi, però, a guardare bene la prima è importantissima, la seconda è
riducibile alla prima. Varzi in fondo è una sorta di Quineano
sofisticato, lo si capisce leggendo la sua interpretazione alla logica di
Kripke nel volume Carocci "IL genio compreso". La teoria dei 3 mondi
di Popper è, in realtà, una rielaborazione neanche troppo sofisticata della
teoria dei tre regni di Frege, con l'unica differenza - importante - per cui il
Regno dei Sensi o dei puri Pensieri (assolutamente platonica come suggestione)
di Frege in Popper diventa il Mondo3, ovvero il mondo di tutta la cultura su
carta, computer, dvd, internet, la conoscenza. La cosa che non è mai stata messa in evidenza dai lettori di Popper, è che in questo modo Frege e Popper hanno, per la prima
volta, trattato le conoscenze come "enti", non come modi di conoscere
gli enti e basta, ma come "enti" a propria volta. Una dimostrazione
efficace del fatto che l'ontologia è primaria rispetto
all'epistemologia (tesi aristotelica ripresa da Ferraris). La distinzione tra
soggetti e oggetti è chiara. Gli oggetti sono enti
di un certo tipo che non possiedono processi cognitivi autonomi provenienti di
origine evolutiva. Sono disposto ad inclure alcuni animali superiori tra i
"soggetti", ma non scendiamo sotto le scimmie, per favore, Dopo di
che anziché di "oggetti", forse
bisognerebbe parlare di "enti": il mondo potrebbe essere il catalogo
degli oggetti, degli eventi, dei fatti, dei tropi, degli oggetti e delle loro
proprietà, oppure di tutte queste cose
insieme. Spero di essere stato chiaro ed esauriente.
Teodosio
Orlando Gli studiosi di Kant che hanno
criticato la lettura di Ferraris hanno ragione su alcuni punti di pura
filologia, ma non sono riusciti in modo convincente a dimostrare che
l'interpretazione di Ferraris non regge.
Stefano
Beniamino Vaselli Alla fine bisogna scegliere:
ha ragione Kant con il suo dualismo fenomeno/noumeno o a ragione Ferraris con
il suo "esperimento della ciabatta"?
Giulio
Napoleoni Caro Stefano,
credo che
Kant con il suo dualismo abbia voluto dire sostanzialmente che la conoscenza
umana, se vuole essere coerente, razionale, scientifica, deve accontentarsi di
essere incompleta, quindi non mi sembra una posizione incompatibile con il realismo
ontologico alla Ferraris. Occorre credo riportare le tesi di Kant alle sue
problematiche che erano principalmente epistemologiche, non ontologiche.
Perdonami
ma ci tengo ancora a "sponsorizzare" la D'Agostini, e per farlo
riassumo e cito qui sotto alcune sue tesi a proposito del famigerato aforisma
nietzscheano "Non ci sono fatti...", riprendendole dal suo articolo
"Fatti e interpretazioni, o fraintendimenti e falsificazioni?", in
Micromega. Il rasoio di Occam, 12 marzo 2012:
1)
nessuno dei filosofi dell'ermeneutica standard (Gadamer, Ricoeur, Pareyson), ha
mai sostenuto tale tesi
2) la
distinzione fatti/interpretazioni è epistemica, non ontologica.
La tesi "Non esistono fatti, solo interpretazioni" (NF), se intesa
come asserto ontologico è ovviamente insensata.
3) è molto difficile anche sostenere, ontologicamente, che i
"veri" fatti sono i fatti non interpretati, dal momento che anche le
interpretazioni sono fatti ed esistono...
4) la
posizione ermeneutico-postmodernista, in realtà,
aveva alla base qualcosa di molto simile al fallibilismo popperiano, "che
come tale non è certo una posizione
metafisica, ma metodologica, e volendo ha anche stretti legami (come rilevava
Lakatos, contro le aspettative di Popper) con l’hegelismo.
Essa dice (...): quando lavoriamo, nella scienza, in filosofia, nei dibattiti
processuali e nelle discussioni pubbliche, dobbiamo sempre e sistematicamente
adottare un principio di rivedibilità dialettica delle nostre
posizioni."
5)
"Ecco allora una ragionevole interpretazione debolista di NF: “poiché quando discutiamo sui fatti
ciò su cui discutiamo sono le
interpretazioni, non possiamo usare la fattualità
come principio del tagliar corto, che blocca la discussione”. Anche questa tesi però
a mio avviso non funziona. Se è assunta (interpretata) in
senso fattuale, ovvero: questo è un fatto, rispetto al quale
dobbiamo tagliar corto, non è soltanto autocontraddittoria,
è anche falsa. Ci sono infiniti
casi di fattualità dure e crude, che entrano
nelle discussioni e come tali devono parlare. (Tipico argomento, che riferisco
con le parole di un giovane medico di Amnesty International: «è semplicemente vero che un mio collega è stato torturato e ucciso, ed è un fatto il fatto che quasi metà dell’umanità muore per malnutrizione e povertà».) Se invece è interpretata in senso debole
(come si presume volessero i debolisti), è in fondo superflua: non c’era bisogno di tale strepito per dire ciò che tutti sappiamo: che a volte i fatti ci urtano, e a
volte no."
Giulio
Napoleoni Riporto, per sua richiesta, un
messaggio che Franca D'Agostini mi ha scritto: "Caro Giulio, grazie della
tua "difesa"! Coglie esattamente il punto: nel passo citato stavo
parlando di filosofia, e (se ben ricordo) di Gadamer. Quanto a me, io sono una
realista ben più radicale di Ferraris. Un
saluto Fd'A".
Giulio
Napoleoni (ovviamente si riferisce alla
prima citazione che ho fatto, non a quella su fatti/interpretazioni)
Stefano
Beniamino Vaselli Da un mero dissenso non c'è bisogno di difendersi o di farsi difendere, vivaddio! ;-)
Io ho solo esercitato il mio diritto al disaccordo, e non riesco a capire come
si possa essere non tanto più realisti di questo o quello,
ma semplicemete "realisti" affermando: "Ogni realista difensore
della cosa senza soggetto sta in verità parlando di se stesso".
Perché? Come? Messa lì (ma non è "messa lì", perché il libro di D'Agostini l'ho
letto, come la professoressa sa bene, glielo scrissi pure), non sembra molto
argomentata come posizione. Ci sono delle semplicità, alla fine, davvero insormontabili, come dice Varzi nel
titolo di un suo libro. Che le cose possano fare a meno di noi per esistere è una di queste, a quanto pare. Buona notte, a Lei e alla
Professoressa FDA.
Stefano
Beniamino Vaselli P.S. Se voleva farmi litigare
con un'altra persona, forse c'è riuscito. Pazienza!
Giulio
Napoleoni Mi dispiace di aver provocato
questo piccolo incidente. Forse ho sbagliato io a inserire come spunto di
riflessione quella prima citazione di FdA, che criticava come unilaterale un
realismo metateorico, non un realismo teorico/metafisico. D'altra parte l'ho
fatto perché mi sembrava che in quella
citazione ci fossero delle assonanze con le posizioni da lei, Vaselli,
affermate a proposito di realismo metodologico. In altri termini: un conto è dire che le cose possono esistere benissimo senza i
soggetti (realismo metafisico, teoria realista) e un conto è dire che se facciamo teoria sulle cose dobbiamo sempre
tener conto che le teorie sono prodotte da soggetti e questi utilizzano
concetti che possono essere più o meno chiari, possono essere
criticati eccetera (anti-realismo meta-teorico). Per esempio dire che la teoria
dell'evoluzione potrà essere in futuro migliorata,
criticata, rivista ecc non vuol dire mettere in discussione che l'uomo compare
dopo molto tempo rispetto all'origine della vita sul pianeta Terra. Ripeto, mi
spiace di aver provocato, se così è stato, una tensione fra filosofi che stimo, ma se l'ho
fatto è stato solo per arricchire la
discussione mettendo a confronto posizioni parzialmente diverse.
Stefano
Beniamino Vaselli Ma no, il problema è che io non intendevo, con quel mio "Ma chi lo ha
detto. Franca D'Agostini?" mancare di rispetto alla professoressa, si
figuri! Alla quale professoressa, tra l'altro, ho scritto tante volte per
chiedere lumi su cose che ha scritto e pubblicato, come, ad esempio, sul
problema della possibilità metafisica (c'è una parte di "Nel chiuso di una stanza con la testa
in vacanza" che si occupa precipuamente di questo tema, facendo
riferimento alle teorie di Yablo e di Gendler contenute in un bellissimo volume
sulla possibilità e la concepibilità). Il mio era un moto di stupore perché in quella frase non mi ritrovavo per nulla - e l'ho detto
- ma soprattutto non ci ritrovavo il realismo. Mi fa piacere che D'Agostini sia
una realista militante, perché su questo tema bisognerà battagliare ancora un po'. Mi sembra che il dibattito
sulle posizioni di Ferraris e sul suo "Neorealismo" siano iniziate già da un po'. Ma io non l'ho mai elogiato al 100%. Se non mi
credete vi consiglio di leggere le mie obiezioni e le mie critiche - gentili ma
senza sconti - che ho fatto al professor Ferraris sul suo volume
"Documentalità. Perché è necessario lasciar
tracce" che potete trovare
suhttp://www.aphex.it/index.php?Recensioni=557D03012201740321020176017327.
Magari la faccia leggere anche alla professoressa. Il libro più bello di FdA per me resta quello che Lei ha citato. Ma
anche "DIsavventure della verità" è molto ben scritto. Speriamo di poter fare pace.... A
Presto! Saluti ancora alla professoressa.
(intervento di F. D'Agostini, inviato via mail)
Cari
Giulio e Stefano (se posso), Giulio mi ha inoltrato
stralci
delle
vostre
discussioni. Mi scuso di intervenire in prima
persona
in un dialogo vostro, e non nella sede in cui
dovrei,
ma mi sento autorizzata anche perché ora mi
ricordo
di Stefano.
1) non mi
si fraintenda: io sono felicissima delle critiche, di qualunque tipo, dunque
Stefano, nessun problema, anzi grazie delle tue perplessità, che mi permettono di chiarire
2) A
parte la critica alla mia frase
estrapolata
(si chiama closed reading, e non bisognerebbe
farlo: se
facessi lo stesso con frasi estrapolate di molti
neorealisti...
l'uso si sta diffondendo per una malintesa
interpretazione
continentale della tecnica analitica di
criticare
tesi specifiche), Stefano ha ragione: nei
libri di
cui parlate probabilmente la mia posizione sul
realismo
non è del tutto chiara. "Nel
chiuso" è una raccolta
di
scritti di metafilosofia, redatti in tempi diversi, e
"Disavventure"
è una ricostruzione storico-critica
della
storia
dell'argomento elenctico in difesa della verità.
Ma negli
articoli che ho scritto negli anni tra il 2000 e
oggi, e
negli altri libri (The Last Fumes, Paradossi, Verità avvelenata, Introduzione alla verità, I mondi), il mio "realismo" dovrebbe essere
chiarissimo, e addirittura specificato nei dettagli (non c'è una specifica discussione del testualismo debole di
Ferraris, ma si può evincere facilmente la
diversità della mia posizione,
conoscendo gli scritti di Ferraris sull'argomento).
3) In
ogni caso, Stefano, di questo sono sicura: non mi si può
accusare
di non condividere la tesi di indipendenza
(esistono
cose indipendentemente dal fatto che io o
chiunque
altro le pensi o ne parli), visto che ovunque, e in
modo
quasi ossessivo, sostengo che non soltanto la
condivido,
ma *non si può non condividerla*. In Nel
chiuso comunque credo sia spiegato abbastanza bene che l'argomento di
"indispensabilità" (o di
"fatticità", o "elenctico", o
"trascendentale", chiamatelo come volete) vale anche per altri
concetti, non solo per "realtà" e "verità".
4) Sono
poi d'accordo con Stefano: c'è un dissesto del
linguaggio
e della considerazione intuitiva del mondo, un dissesto che stiamo cercando di
curare.
Ma (questo è il mio sospetto) forse la
cura non ha solo a che fare con il
realismo.
Allego un mio articolo uscito il 25/7 sulla Stampa in cui dico la mia opinione
sul recente uso pubblico della filosofia.
Grazie
della vostra attenzione, e di aver letto i miei libri. La discussione mi
fa
pensare che devo pubblicare un libretto dal titolo
"Realismo?
Una questione non controversa" che ho nei
cassetti
da un po' di tempo, e che però non mi decido a
pubblicare,
vista la quantità di nuovi contributi sul tema
Un
saluto, buone vacanze e buon lavoro Franca
(Pubblicato
su “la Stampa”, 26/7/2012)
Nell’articolo dal titolo Filosofia prêt-à-porter
apparso lunedì su Repubblica, Roberto Esposito si interroga su un
fenomeno ormai ben noto: la “fortuna” della filosofia nell’epoca della globalizzazione.
Festival, café philo, consulenze filosofiche per manager o individui in
dissesto emotivo, segretari di partito che indicono riunioni per consultare i
filosofi...
Esposito
si chiede come mai però a questo gran fervore non faccia seguito alcun “significativo mutamento nelle coscienze, e tantomeno nei
comportamenti”. E la sua risposta è
che un conto è la filosofia come “ermeneutica del sé” praticata dai filosofi che gli piacciono (Foucault e altri
continentali) e un altro conto è l’“epistemologia della
verità”, praticata dai filosofi
analitici: la prima avrebbe per oggetto la verità “nella profondità interiore della coscienza
individuale”, mentre la seconda mirerebbe
alla verità come corrispondenza al reale.
Deduciamo
dunque: se vi fosse più ermeneutica del sé e meno epistemologia
della verità nei dibattiti, nei café philo, nei festival, ecc., la
filosofia potrebbe effettivamente incidere sulla contemporaneità,
determinando quella “mutazione delle coscienze” che si rende necessaria nell’epoca
della globalizzazione.
Strano.
Anzi direi, decisamente bizzarro. Perché non mi risulta che nei festival,
nelle consulenze filosofiche, e nelle riunioni indette dai politici, si
pratichi intensamente l’epistemologia della
verità o qualcosa del genere. Invece, la pratica che va per la maggiore
mi sembra sia proprio e solo una sorta di ermeneutica del sé. Per restare
al caso italiano, leggete i nomi dei protagonisti di caffè filosofici e
festival, e non trovate mai – o molto raramente – filosofi analitici, o comunque “epistemologi della verità”.
Si
dovrebbe dedurre allora che per i bisogni filosofici della
contemporaneità occorrerebbero invece dosi massicce di filosofia
analitica? Che i filosofi analitici dovrebbero andarsene in giro a educare l’umanità? Direi di no, specie se per “filosofi analitici” si intende quel che
normalmente si intende in Italia, ossia una congrega di studiosi del linguaggio
o della scienza, super-specializzati, ottimi professionisti, ma del tutto privi
di interesse per i destini dell’umanità e del mondo.
In
realtà, Esposito fa bene a segnalare che esiste un problema, ma non sono
sicura che sia quello da lui indicato.
Anzitutto:
non mi sembra che alla diffusione della filosofia segua solo un “tutto uguale, niente di nuovo”.
Già soltanto il fatto che si sia identificato come “filosofia” ciò di cui c’è bisogno è a mio avviso un gran risultato, se
si pensa che fino a uno o due decenni fa molti si compiacevano di dichiarare,
con Richard Rorty, che “la filosofia è un
pericolo per la democrazia”. Oggi per fortuna simili
assurdità sono passate di moda, di fronte all’evidenza inequivocabile che i pericoli stanno decisamente
altrove.
In
secondo luogo: forse il problema consiste proprio nella dissociazione astratta
tra ermeneutica del sé ed epistemologia della verità, o tra “filosofia come pratica di vita” e filosofia come sapere “logico-deduttivo,
lontano dalla realtà della vita”, e categorie simili.
Perché mai il sapere logico-deduttivo (se esiste come tale) dovrebbe
essere nemico della vita? Esposito, come molti altri, e io stessa, coltiva l’idea “greca” di una filosofia che non è solo una disciplina di
studio, ma è anche un’ipotesi antropologica, ossia:
un modo in cui gli uomini dovrebbero essere, per essere migliori di quel che
sono, per la felicità degli individui e della specie. Ma al centro dell’ipotesi greca c’era precisamente l’intellettualismo socratico, ossia appunto l’estrema importanza del sapere logico-deduttivo (di cui la
dialettica socratica costituiva un’estensione), e delle
virtù teoretiche. Allora come la mettiamo?
È
chiaro che la contrapposizione di cui Esposito si preoccupa è un fatto
culturale, e non riguarda la filosofia. Anzi è proprio, a mio avviso,
quel dato culturale di cui la filosofia ha sofferto a lungo, dal secondo Ottocento
fino agli ultimi decenni del secolo scorso, perché nel momento stesso in
cui dico che c’è una
incompatibilità tra le pratiche di vita e la conoscenza è come se
dicessi che la filosofia è insensata. All’epoca
di Foucault le contrapposizioni tra vita e teoria, pratica politica e pratica
intellettuale, forse avevano ancora un senso. L’idea
di “sapere oggettivo” ereditata dal mainstream del primo Novecento era davvero
esigua e problematica. Oggi però il quadro è cambiato, e coltivare “l’onda montante” della filosofia servendosi ancora di quel linguaggio e di
quei parametri significa appunto affondare nel “niente
di fatto” di cui Esposito si lamenta.
Piuttosto,
vale la pena chiedersi: è davvero e sempre “filosofia”, quella che si spaccia per tale? Forse no. Certo è
che assistiamo al dominio per lo più incontrastato, in ambito pubblico,
di teorie che non sono affatto “filosofiche” pur passando nominalmente per tali: una generica
sociologia della cultura, un’etica sommaria e moralistica,
con più punti esclamativi che argomenti, e una formidabile messe di
banalità infarcite di Kant e Hegel, e talvolta anche (giusto per dire che
non si è solo continentali) Searle e Wittgenstein.
La
questione allora è molto semplice, e si può dire in breve: è
vero che il mondo ha bisogno di filosofia, ma il punto è che anche la
filosofia ha bisogno di filosofia.
Franca D’Agostini
Fatti
e interpretazioni, o fraintendimenti e falsificazioni?
Vale la pena forse soffermarsi sulla
questione dei fatti che non sarebbero fatti bensì
interpretazioni, o dei fatti non interpretati che sarebbero i soli fatti
disponibili, o addirittura, come si è
scritto recentemente, dei due grandi regimi dei fatti, di competenza della
scienza, e delle interpretazioni, di competenza delle humanities. Tutte queste tesi si collocano in verità ai
confini del bullshit, secondo la
fortunata categorizzazione di Harry Frankfurt (On Bullshit, 1988 e 2005). Ma poiché
circolano, e ricompaiono con ritmo infallibile e sostenuto, può
essere utile qualche chiarimento. (Per avere un quadro rapido di ciò che
intendo dire, si può
leggere il post scriptum alla fine di questo intervento.)
1. Alle origini: il fraintendimento
Anzitutto, andando all’origine
del celebre asserto «non
esistono fatti, solo interpretazioni»,
che chiameremo NF, come dire: no facts, troviamo l’aforisma
22 di Al di là del bene e del male,
dove Nietzsche, consapevole (almeno entro certi termini) delle insidie del
linguaggio filosofico lanciato dai greci, dichiara NF, e subito dopo aggiunge: «voi
direte: anche questa è un’interpretazione;
e io vi risponderò:
ebbene, tanto meglio!». Di
qui (volendo) l’idea
che Vattimo e Rovatti interpretarono come «pensiero
debole»,
nella raccolta del 1983 con questo titolo, e che tradotta più
semplicemente significa: si tratta non di indebolire la nozione di realtà, o
di verità o
di conoscenza, ma di indebolire l’atteggiamento
metateorico che abbiamo nei confronti dei nostri asserti circa la realtà, la
conoscenza, la verità.
In effetti, anche con la precisazione ironica
NF mi sembra discutibile, e ne parlerò più
avanti (§ 3).
Ma l’indebolimento
suggerito da Vattimo e Rovatti (non una novità,
ovviamente) aveva alcune ragioni contestuali al suo attivo. Una delle ragioni,
come ho già
suggerito in un mio precedente intervento apparso su MicroMega on line,
era un fatto di facilissima interpretazione: la presunta “crisi”
delle cosiddette politiche connected
(ossia legate a una visione della realtà e
della conoscenza, a una antropologia, a un’etica),
che si diceva avessero ispirato i totalitarismi novecenteschi, e contro cui si
erano scagliati Popper e molti altri autori. In particolare in Italia si
assisteva in quegli anni all’inizio
delle politiche di contrattazione e di compromesso, e reattivamente all’esibizione
di un pensiero distruttivamente fortissimo (oltre che malamente “connesso”):
quello degli anni di piombo. L’idea
del pensiero debole, tradotta nei termini più
interessanti, che a quanto mi sembra erano anche nelle intenzioni di Rovatti e
Vattimo e di altri partecipanti all’impresa,
veniva concepita precisamente allo scopo di intervenire in questo quadro
politico-culturale esploso. In un certo senso, si trattava di salvare la
filosofia, e la possibilità
della filosofia di agire nei contesti pubblici, dando voce a prospettive, come
la fenomenologia, l’ermeneutica,
il neostrutturalismo, il nuovo marxismo di Agnès
Heller, certe eredità di
Heidegger e della scuola di Francoforte, che l’allora
dichiarata crisi della ragione passava sotto silenzio.
Non dimentichiamo infatti che la «crisi
della ragione» a
quel tempo in Italia non veniva dichiarata da Vattimo e Rovatti, ma piuttosto
da esponenti della filosofia analitica, e del neoilluminismo, come Aldo Gargani
e Carlo Augusto Viano, che per l’appunto
qualche anno prima avevano contribuito a un volume collettaneo edito da Einaudi
con questo titolo. In estrema sintesi, il dialogo era: “crisi
della ragione? – no,
grazie, piuttosto: pensiero debole”.
Che cosa c’entrano
i fatti, e le interpretazioni? In verità
(almeno allora, a quanto so) poco, molto poco. Gli autori che intervenirono, da
Umberto Eco ad Alessandro Dal Lago e a Gianni Carchia, erano in massima parte
formati a un linguaggio filosofico, appunto quello della fenomenologia, dell’ermeneutica,
della Scuola di Francoforte, non “metafisico” (in
uno dei sensi kantiani del termine), ossia ben attento a non avventurarsi in
asserzioni considerate «descrittivamente
dogmatiche»,
come NF. Tanto la fenomenologia quanto l’ermeneutica
(che nel 900 fu una sua figlia o sorella minore) erano dichiaratamente ontologie, e in nessuna delle due
posizioni c’è una
mozione a sfavore (o a favore) della realtà
tale da prodursi in asserzioni generalizzanti e auto-contraddittorie del tipo
NF.
2. Rortysmo
Come è
arrivato allora il bullshit dell’asserto
nietzscheano (senza la sua precisazione ironica) all’interno
del dibattito? Il processo è
stato articolato e complesso. Probabilmente ha riguardato anzitutto una specie
di ritrarsi del linguaggio
filosofico, con la sua chiara consapevolezza metateorica e riflessiva, dal
mondo accademico e dalla sfera pubblica (a causa delle sfortune culturali della
filosofia, e anche a una sorta di suicidio di tale linguaggio: ma di ciò non
vale la pena parlare qui). Ma si può
volendo fare il nome di un autore che sicuramente fu in Italia molto
considerato: Richard Rorty.
Il rortysmo in Italia stava nascendo proprio
negli anni in cui apparve Il pensiero
debole. E la posizione di Rorty sembrava piuttosto interessante, non tanto
per il suo debolismo (che era in realtà
polemica contro la stanca scolastica di una parte della filosofia analitica, e
come tale aveva culturalmente una certa importanza) ma perché
faceva vedere ai filosofi americani che esisteva un problema: ben noto agli
europei, ma passato sotto silenzio nell’establishment
accademico di lingua inglese. Si trattava della cesura tra filosofia analitica
e filosofia continentale, a cui Rorty dedicava in particolare il saggio
conclusivo di Consequences of Pragmatism.
La posizione di Rorty costituiva un equivalente in area angloamericana di ciò che
erano stati Karl Otto Apel o Ernst Tugendhat in Europa: segnalava il «great
divide» tra
analitici e continentali, e lo indicava come un problema di urgente e primaria
soluzione.
Emergeva però
anche una nuova dicotomia, una vera festa per i propagatori di banalità
semplicistiche spacciate per filosofia. Fu facile concludere: i fatti stanno
dal lato del realismo analitico, mentre le interpretazioni stanno da quello
dell’anti-realismo
continentale. In realtà
come ognuno sa non è così: a
parte l’importanza
del tema dell’interpretazione
per i filosofi analitici del linguaggio, realisti e antirealisti sono ben
distribuiti in tutte e due le tradizioni, e in tutte e due le tradizioni, sulla
questione “realismo
e antirealismo” i
fraintendimenti, le confusioni che passano per profondità, le
precisazioni e i distinguo, le posizioni intermedie e le combinazioni
correttive si sprecano. (L’esempio
più
facile è il
compianto Michael Dummett, antirealista ma non certo postmodernista, ma giusto
per farsi un’idea:
dal 1976, data delle lezioni di Putnam a Oxford su What is realism? a oggi, sono stati teorizzati nella filosofia
analitica, cito in disordine: realismo minimale, aletico, semantico,
epistemico, metafisico, modesto, modale, del senso comune, quasi tutti dotati
di correlativo anti-realismo, e di motivazioni e applicazioni diverse.)
Però,
proprio in relazione al fatto dell’asserto
nietzscheano e alla sua errata interpretazione, la questione
analitici-continentali aveva una certa importanza, anzitutto a causa di
profonde e radicate ragioni di resistenza tra filosofie europee e filosofie
angloamericane. In particolare: la sparsa incapacità, da
parte di queste ultime, di comprendere le questioni metateoriche, riflessive,
di secondo ordine (con il che la postilla autoironica è
definitivamente scomparsa); la sparsa incapacità, da
parte delle filosofie europee, di ricordare che il padrone del linguaggio non è
solo la filosofia ma anche il senso comune. Dico sparsa incapacità per
indicare possibili linee di tendenza, sia chiaro, perché
tanto nell’una
quanto nell’altra
tradizione sono sempre esistite persone assolutamente consapevoli e memori
delle due circostanze. Ma non era il caso di Rorty, e di tutti coloro che
allora lessero la filosofia europea di quegli anni in chiave
descrittivo-metafisica (nel senso sopra indicato), adottando la sparsa tendenza
al «realismo
metodologico»
della filosofia di lingua inglese. Il chiarimento divenne peraltro impossibile,
a causa dell’altra
resistenza, quella della controparte continentale, vale dire: l’inclinazione
all’oscurità, il
gusto per l’innovazione
linguistica inutile, e la conseguente incapacità di
adattare il proprio linguaggio a una comune umana sensatezza. Le rare occasioni
di confronto andarono senz’altro
sprecate.
Ecco dunque l’origine
dell’errore.
Il problema di fondo, evidentemente, era l’impatto
di una ricezione superficiale o distratta di testi europei in un contesto
linguistico e culturale molto diverso, come era quello americano. (Oggi le cose
funzionerebbero diversamente: si conoscono meglio le lingue e tra le parti del
mondo non c’è più un
gran conflitto di “mentalità”.)
Va detto che come interprete e difensore dell’ermeneutica,
del postmodernismo e della filosofia continentale in genere, Rorty ha fatto più
danno di qualsiasi loro dichiarato avversario. In Philosophy and the Mirror of Nature, e in altri scritti, la sua
immagine dell’ermeneutica
è l’immagine
di una chiacchiera gentile e inconcludente, una conversazione antifilosofica, e
fieramente nemica (non si capisce bene per quali ragioni) dell’epistemologia.
D’altra
parte, la filosofia continentale risulta per lui identificata nel
postmodernismo e questo viene caratterizzato come un tipo di relativismo
assoluto. Di qui fraintendimenti e confusioni in gran numero. Solo qualche
esempio di errori ispirati al clima confuso di quegli anni: Adorno relativista,
Deleuze spiritualista (non cito i responsabili di questi ridicoli misfatti, ma
potrei farlo).
Non sorprende che, riguardando indietro al
disastro da lui creato, nell’epoca
in cui l’ermeneutica
era ormai in disgrazia, Rorty abbia dichiarato: «vorrei
non aver mai parlato di ermeneutica». In
effetti poteva risparmiarsi. Ispirati dalle sue parole, un gran numero di
commentatori hanno preso a gettare sistematico fango sull’ermeneutica,
sul postmodernismo, sulla filosofia continentale in genere. Fango ahimè schizzato
a caso, che non ha colpito chi realmente avrebbe dovuto colpire.
Non è
leale di fronte a disguidi culturali di questo tipo infierire su un solo
autore, per di più
defunto. Non soltanto: sparare su Rorty è
diventato a un certo punto, nella cultura filosofica degli anni novanta, uno
sport così
ampiamente praticato che ci si sorprende che non sia stato inserito nei giochi
di Atene. Eppure, mi dispiace, ma il procedimento di Rorty, con la sua tipica
tendenza alla semplificazione brillante, e alla falsa dicotomia, riassume bene
gli elementi confondenti che ci hanno portato a trattare così
maldestramente la nozione di interpretazione, tradotta in facile burattino, a
cui appiccare il fuoco senza sforzarsi più di
tanto di vedere che cosa si stava bruciando. Con il risultato –
questo è il
mio giudizio – non
di buttar via il bambino con l’acqua
del bagno, bensì, di
buttare via il bambino conservando con ogni cura l’acqua
del bagno.
3. Sbarazzarsi di NF
Ritornando all’asserto
nietzscheano, la prima precisazione necessaria è che
nessuno dei teorici dell’ermeneutica
standard, ossia Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, Luigi Pareyson, che io sappia,
l’ha
mai sostenuto: visto il carattere scarsamente sintattico dell’enunciato,
dal punto di vista a cui i tre autori erano formati, sarebbe stato assurdo
citarlo con approvazione. (Lasciamo da parte per ora il caso di Gianni Vattimo,
le cui posizioni da un certo punto in avanti si intrecciano e si confondono con
quelle di Rorty, e che ha continuato a polemizzare con chi gli si opponeva, a
volte identificandosi senz’altro
nel bullshit a cui le sue tesi
venivano ridotte.)
La seconda precisazione è
piuttosto ovvia: se si interpreta NF come descrizione effettiva del mondo, e di
ciò che
esiste, e di quali tipi di cose il mondo è
popolato, l’asserto
è
insensato. L’obiezione
è fin
troppo facile: se per voi non ci sono fatti, solo interpretazioni, perché non
vi buttate in un pozzo invece di andare a Megara, come chiedeva Aristotele?
Evidentemente, non vi buttate perché
sapete benissimo che l’interpretazione
della realtà in
termini di “pozzi
in cui è
meglio non buttarsi” è
preferibile a quella in termini di “pozzi
soltanto immaginati o sognati”: ed
è
ovvio che le ragioni per cui la prima è
preferibile è che
esistono fatti di un certo rilievo che la riguardano. Nel gran clamore
suscitato da queste ovvietà, la
protesta: “d’accordo,
ma non ci stiamo riferendo ai fatti come i pozzi, o ad altre simili evidenze,
ma a fatti oscuri e controversi”,
suona debole e inutile, ed è
rimasta per lo più
giustamente inascoltata. In effetti non ho mai capito il cosiddetto
antirealismo o scetticismo o relativismo «moderati». Se
sono solo i fatti oscuri ad essere interpretazioni, perché
scaldarsi tanto?
D’altra
parte però
(terza precisazione), chi sostiene che i fatti non interpretati sono i soli
fatti disponibili si mette in pasticci da cui gli sarà
difficile risollevarsi, perché
allora dovrà
farci capire come mai le 460 e più
tracce accusatorie a carico di Raffaele Sollecito e Amanda Knox nel processo di
Perugia non sono servite a evitare che l’uno
e l’altra
fossero assolti, nel processo di secondo grado. È
chiaro che con “fatti
disponibili”
intende qualcosa di diverso: quei fatti-tracce o prove empiriche non erano
propriamente fatti a disposizione dell’accusa,
benché
fossero stati raccolti a suo vantaggio. Se poi il traccista, per così
dire, sostiene che i fatti sono ciò che
‘c’è’,
allora siamo d’accordo,
ma in un senso preliminare di ‘ci
sono’, ci
sono anche le interpretazioni, cosicché il
nostro problema non è l’esserci
dei fatti o delle interpretazioni, ma l’esserci
degli uni e delle altre…
Insomma è la
vecchia questione della metafisica, che come i metafisici di oggi sanno molto
bene non si risolve con categorizzazioni semplicistiche, ma richiede una
consapevolezza categoriale raffinata, rispetto alla quale la semplice dicotomia
di fatti e interpretazioni, specie se usata in questo modo, risulta ridicola.
(Forse un uso più
interessante è
quello che ne fa per esempio Luigi Pareyson nella sua Estetica, in cui postula un ricorso alternato di fatti e
interpretazioni: cosicché il
fatto risulterebbe caratterizzato come un interpretabile, e l’interpretazione
a sua volta come un fatto.)
Il problema comunque, in posizioni di questo
tipo, è la
sistematica confusione effettuata tra epistemologia e ontologia: la distinzione
fatti/interpretazioni è
visibilmente epistemica, e non ontologica. Per esempio, il realista
ingenuo, che dice: “esistono
– ci
sono –
solo fatti-tracce” sta
confondendo il ‘ci
sono’
(ontologia) con il ‘vedo-sento’
(epistemologia), o anche l’‘esiste’ con
il ‘è un
dato epistemico’. È
chiaro, ed è ben
noto a tutta la tradizione dell’empirismo
Kant incluso, che al centro di ogni credenza c’è
qualche input sensoriale che l’ha
originata; ma di qui a dire che esistono solo gli input sensoriali ne passa
molto, e quel che passa è
appunto la confusione tra epistemologia e ontologia (curiosamente, Maurizio
Ferraris interpreta la totalizzazione del fatto-traccia come correttivo di tale
confusione… ma
questo è un
passaggio le cui ragioni mi sfuggono, e lascerei da parte la questione).
Ora è
chiaro anche (precisazione numero 4) che pensare addirittura a una ripartizione
enciclopedica sulla base dell’asserto
nietzscheano, lanciandosi in distinzioni avventurose (che già
Dilthey stesso, nel tardo Ottocento, aveva sperimentato) tra scienze fattuali e
scienze ermeneutiche, è se
possibile ancora più bizzarro.
Che cosa dobbiamo dire, per esempio, dell’informatica,
o delle scienze cognitive, o della matematica stessa: dove le collochiamo? Tra
i fatti? Nel regno delle interpretazioni? Tutta la filosofia “enciclopedica”
della scienza, nel Novecento, ha tentato ricombinazioni varie delle diverse epistemai scientifiche, a volte anche
ipotizzando grandi sintesi: per esempio su base matematica (strutturalismo), o
sociologica, o biologica, o bio-sociologica (la teoria della complessità). E
anche, naturalmente, su base ermeneutica: perché è
semplicemente ovvio che tutti sempre e costantemente interpretiamo, anche gli
scienziati duri e puri lo fanno, esattamente come tutti e sempre tocchiamo e
sentiamo, e urtiamo contro fatti più o
meno soffici. Ma queste mosse sono per lo più di
scarso utilizzo: prendete un concetto estensibile,
come vita, o società, o
appunto interpretazione, e non è
difficile vedere che potete includerci qualsiasi cosa. E allora? Che vantaggio
ne avete?
D’altra
parte, se si è
minimamente consapevoli della natura della ricerca scientifica, ci si accorge
presto che la distinzione tra scienze ermeneutiche e scienze fattuali zoppica,
ed è fin
troppo facile adottare non soltanto la noiosissima teoria della «terza
cultura» (e
perché non
quarta, o quinta, o infinite culture?), ma anche più
raffinate ma altrettanto inutili soluzioni pluralistiche e gradualistiche. Si
esclama allora “c’è
fatto e fatto e c’è
interpretazione e interpretazione!”;
oppure si precisa: “ci
sono interpretazione e fattualità
ovunque, in gradi diversi nei diversi saperi”. Ma
in ogni caso si perde il senso della distinzione originaria: perché
evocarla, se poi si intendeva sbarazzarsene?
Infine (precisazione 5) controlliamo la
versione più
raffinata della teoria, quella che – io
suppongo – era
forse alla base della posizione debolista, e se volete
ermeneutico-postmodernista. Si tratta sostanzialmente della tesi fallibilista
popperiana, che come tale non è
certo una posizione metafisica, ma metodologica, e volendo ha anche stretti legami (come
rilevava Lakatos, contro le aspettative di Popper) con l’hegelismo.
Essa dice, adattata nei termini di NF: quando lavoriamo, nella scienza, in
filosofia, nei dibattiti processuali e nelle discussioni pubbliche, dobbiamo
sempre e sistematicamente adottare un principio di rivedibilità dialettica delle nostre posizioni. La
questione metafisica dell’esistenza
o meno di fatti come vedete si allontana, e in qualche misura lo sguardo si
allarga: il principio metodologico di fattualità,
che dice: “andiamo
un po’ a
vedere come stanno i fatti”, è
solo uno dei principi di metodo che guidano le nostre inferenze, spingendoci a
credere o a dubitare. Ed è
ovviamente solo uno dei principi che secondo l’assunto
occorrerebbe “indebolire”.
Ecco allora una ragionevole interpretazione
debolista di NF: “poiché
quando discutiamo sui fatti ciò su
cui discutiamo sono le interpretazioni, non possiamo usare la fattualità
come principio del tagliar corto, che blocca la discussione”.
Anche questa tesi però a
mio avviso non funziona. Se è
assunta (interpretata) in senso fattuale, ovvero: questo è un
fatto, rispetto al quale dobbiamo tagliar corto, non è
soltanto autocontraddittoria, è
anche falsa. Ci sono infiniti casi di
fattualità
dure e crude, che entrano nelle discussioni e come tali devono parlare. (Tipico
argomento, che riferisco con le parole di un giovane medico di Amnesty
International: «è
semplicemente vero che un mio collega
è
stato torturato e ucciso, ed è un fatto il fatto che quasi metà
dell’umanità
muore per malnutrizione e povertà».)
Se invece è
interpretata in senso debole (come si presume volessero i debolisti), è in
fondo superflua: non c’era
bisogno di tale strepito per dire ciò che
tutti sappiamo: che a volte i fatti ci urtano, e a volte no.
4. L’agonia del postmodernismo e l’intuizione diegomarconi
Tolta di mezzo la fuorviante questione dell’aforisma
22, vorrei dire che la colpa più
grave del rortysmo (ripeto: categoria vasta, includente un buon numero di
operatori culturali, e non tutti di professata fede rortyana) non è
stata tanto quella di portare allo sbando una interessante e intelligente
tradizione, fornendone un’immagine
falsa e superficiale. La colpa più
grave a mio avviso fu rendere impossibile la giusta critica delle sciocchezze
spacciate sotto la voce «postmodernismo»,
con ciò
bloccando il dibattito in una chiacchiera irrilevante, senza vere accuse né
vere difese.
In altri termini, capire che cosa veramente
fossero l’ermeneutica,
il debolismo e il postmodernismo non è
forse un’operazione
particolarmente appealing.
Sinceramente, forse non me ne occuperei. Ma il punto è che
le versioni impasticciate e fuorvianti delle tre posizioni, fornite tanto da
Rorty quanto dai loro critici, hanno reso difficile se non impossibile capire
che cosa in esse o in alcune loro versioni fosse sbagliato, con il risultato di
prolungarne non la vita, ma l’agonia.
Tanto è
vero che è
ancora contro il postmodernismo, ormai agonizzante da circa due decenni, che
muove il dibattito attuale su realismo e antirealismo. Ed è
ancora all’antico
detto nietzscheano che si riferisce per esempio Diego Marconi, in un articolo
apparso su Repubblica (dicembre
2011), professando il suo interesse
per il «nuovo
realismo»
lanciato da Ferraris. E Marconi è un
solo esempio, ma credo particolarmente buono. Infatti, Marconi conviene di
chiamare senz’altro
«intuizione
ermeneutica» il
detto NF. Certo in linea di massima chiunque può
decidere di chiamare come vuole quel che vuole, ma è
davvero bizzarro chiamare «intuizione
ermeneutica» ciò che
nessuno dei maggiori teorici dell’ermeneutica
ha mai sostenuto. Forse c’è
qualche ragione per stabilire una connessione tra ermeneutica e NF (per
esempio: l’uso
idiosincratico rortyano del primo termine). Ma che cosa direbbe Marconi se noi
chiamassimo «intuizione
diegomarconi», d’ora
in avanti, la tesi secondo cui «ciò che
conta nel linguaggio è che
certe espressioni linguistiche siano effettivamente usate»,
che figura a pagina 180 di un suo scritto degli anni ottanta? Non credo che
questa tesi gli piaccia del tutto; ma se avessimo fortuna con la nostra
convenzione, sulla base dell’intuizione
diegomarconi potremmo bloccare a priori ogni sua protesta (l’uso è ciò che
conta!).
In conclusione, credo che il progetto del «nuovo
realismo» nel
cui nome si presenta la critica di NF, abbia buone ragioni al suo attivo. E che
ci siano anche buone ragioni per allargare il dibattito a un pubblico non
soltanto filosofico, come sta facendo Ferraris. La prima di queste buone
ragioni, come ho cercato di spiegare in Introduzione
alla verità (e in altri scritti), è
piuttosto semplice, ed è che
i nuovi mezzi tecnici di circolazione della verità
(delle informazioni vere) e di ricostruzione della realtà
(come ciò che
rende vero o falso quel che diciamo) non risolvono certo le nostre perplessità
epistemologiche, ma ci mettono di fronte a un diverso rapporto con i concetti di realtà e
verità.
Diverso non tanto rispetto ai greci, che li inventarono, ma piuttosto rispetto
al tardo Ottocento, l’epoca
del «nichilismo
europeo», in
cui Nietzsche dichiarava appunto NF. È
importante che la filosofia interpreti questo cambiamento, e renda note le sue
interpretazioni di questi fatti.
Tralascio qui di precisare i dettagli di
tutto ciò, e
di come la filosofia contemporanea sta rispondendo a queste esigenze. Ma si
capisce che a mio avviso lo «spettro» di
cui parla Ferraris (lo spettro del nuovo realismo), se vedo bene ciò che
intende, è
tutt’altro
che spettrale, e ha una solida realtà e
consistenza: nella pratica politica, in quella scientifica e filosofica, e nel
parlare e pensare comune. Le buone ragioni del progetto però
sono come soffocate da tre inclinazioni metodologiche, che ho ascritto a un
impianto di pensiero genericamente rortyano (ma ripeto: Rorty non è
stato l’unico
e il solo responsabile – qui
ho fatto valere l’intuizione
diegomarconi un po’
slealmente). La prima è la
tendenza al parassitismo critico, cioè a
caratterizzarsi per contrapposizione a qualcosa (nello specifico al vecchio
postmodernismo, di cui nessuno in fondo ha più
paura: o forse sì?).
La seconda è la
tendenza a confondere tesi metodologiche
(o metateoriche) e tesi metafisiche,
di cui ho detto. La terza
(conseguenza naturale della prima) è la
tendenza a costruirsi strawmen, ossia
versioni stupide e semplificanti delle tesi che si intende discutere.
Curiosamente, queste tre tendenze sono anche ciò che
ha caratterizzato a mio avviso le versioni più
superficiali e fastidiose di postmodernismo e debolismo (la critica del «logocentrismo» che
non si sa bene neppure che cosa sia, la trasformazione di Aristotele in una
specie di ragioniere, e della metafisica in una bizzarra impresa creatrice di
violenza e sventura…).
Inoltre, a ben guardare si tratta di fallacie ermeneutiche, ossia di interpretazione: e proprio la tradizione
ermeneutica ha chiarito molto bene i rischi connessi a queste procedure
(vedendoli come deviazioni ed errori dell’explicatio).
Forse prima di liquidare l’«intuizione
ermeneutica»,
costruita e resa credibile sulla base dell’intuizione
diegomarconi, bisognava studiare un po’ di
ermeneutica…
Un sospetto: non sarà che
questa ostinazione a soffermarsi sull’agonia
del postmodernismo e del pensiero debole, e della filosofia continentale in genere, corrisponde al disperato tentativo
di far sopravvivere, nonostante tutto, un linguaggio o uno stile filosofico
ormai morto e finito? Forse, nessuna delle filosofie precedenti è
davvero “finita”, ma
certo c’è un
modo di fare filosofia (per semplificazioni, false dicotomie e uomini di
paglia) che non ha più
alcuna utilità
pratica, e che però
continua a occupare le nostre chiacchiere; dico: di noi della nostra
generazione. Non sarà
che, invece di insegnare ai più
giovani la fine di questa o quella teoria del passato, aumentando colpevolmente
il rumore che ci affligge, dovremmo seriamente ricominciare a imparare?
Franca D’Agostini
Post-scriptum
Poiché so
che le tre tendenze sono ancora molto attive nel mainstream filosofico italiano, è
meglio precisare i punti essenziali: 1. la tesi NF = «non
ci sono fatti, solo interpretazioni»,
(af. 22 di Al di là del bene e del male)
non mi sembra sia stata la tesi caratterizzante né
dell’ermeneutica,
né del
postmodernismo, né del
pensiero debole, e per di più: è
stata sostenuta da Nietzsche come un paradosso, accompagnata dalla sua
correzione autoironica («e
anche questa è un’interpretazione»);
2. se assunta con la sua correzione, NF può
valere come tesi metodologica e non metafisica, e rientra nel quadro delle
proposte di indebolimento metateorico, caratteristiche del secondo Novecento
(es. il fallibilismo di Popper e di altri); 3. anche interpretata come tesi
metodologica, NF è
discutibile: se intesa in senso moderato è
irrilevante, e se intesa in senso assoluto oltre che autocontraddittoria è
falsa (esistono verità e
fattualità non
rivedibili); 4. la tendenza a scambiare tesi metodologiche per tesi
metafisiche, sparsamente diffusa nella filosofia analitica, ha portato alcuni a
fraintendere il significato delle filosofie europee del secondo Novecento, e a
interpretarle come forme di assurdo antirealismo, ben esemplificato da NF
(senza correzione autoironica); 5. ciò ha
determinato una situazione di confusione sistematica, tale per cui non si è
avuta né una
buona accusa, né una
buona difesa delle filosofie continentali di cui sopra, e si è
dato ampio spazio alle loro versioni più
superficiali e fuorvianti; 6. l’esito
di tutto ciò è la
lunga agonia del postmodernismo: nome generico per indicare la filosofia
continentale, e ormai in declino da una ventina d’anni,
ma che ancora vale come unico termine di riferimento polemico; 7. un sospetto:
questa insistenza critica sulle filosofie degli anni ottanta forse non serve a
protrarre la vita di quelle filosofie (che probabilmente non erano sempre e del
tutto disprezzabili), ma a prolungare artificialmente lo spazio riservato a un
modo di fare filosofia, tipico della mia generazione, che a mio avviso è
ormai morto e finito.
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